luce
Onda o corpuscolo?
La misteriosa natura della luce e il suo comportamento, talvolta ondulatorio, talvolta corpuscolare, hanno affascinato per millenni gli scienziati. Galileo elaborò una prima ipotesi, Newton la considerò prima un corpuscolo e poi un’onda, Huygens nel Settecento fu il paladino della teoria ondulatoria e Maxwell dimostrò verso la fine dell’Ottocento che la luce è una perturbazione elettromagnetica. Nel 1905 Einstein stabilì l’esistenza dei fotoni, le particelle di luce. Solo all’inizio del Novecento l’accesa controversia tra onde e corpuscoli ha trovato finalmente una soluzione
La natura della luce ha affascinato gli scienziati di tutti i tempi ed è stata un mistero che ha attraversato i millenni prima di trovare spiegazione agli inizi del Novecento, quando si è compreso che la luce è contemporaneamente un’onda (v. onde e oscillazioni) e un corpuscolo.
Lo studio sistematico delle proprietà della luce iniziò nel Seicento con Galileo Galilei che, a quanto si racconta, avrebbe volentieri passato il resto della vita in carcere a pane e acqua pur di scoprire che cos’era la luce. Galileo elaborò un’ipotesi molto ingegnosa se rapportata alle conoscenze del tempo: secondo il grande fisico la luce era la forma più rarefatta di materia e «condensandosi dove più e dove meno» dava luogo a tutte le cose materiali. Studi sistematici della luce furono poi avviati tra Seicento e Settecento da vari scienziati, tra cui Christiaan Huygens in Olanda e Isaac Newton in Gran Bretagna. Poco più che studente, Newton scoprì che la luce bianca, come quella del Sole, era in realtà costituita dalla sovrapposizione di una gamma di colori – in gergo uno spettro – come era immediatamente visibile facendo passare un raggio di luce bianca attraverso un prisma di vetro e osservando l’immagine su uno schermo (fenomeno noto come dispersione della luce).
Secondo Newton, almeno all’inizio delle sue ricerche, la luce era costituita da corpuscoli che, uscendo come raggi dagli oggetti, colpivano l’occhio e destavano la percezione delle forme e dei colori. Il rosso e il violetto, colori estremi dello spettro solare, richiedevano rispettivamente i corpuscoli più grandi e quelli più piccoli, mentre i corpuscoli di grandezze intermedie generavano i rimanenti colori (nell’ordine, dal rosso al violetto, l’arancione, il giallo, il verde e il blu, in tutte le loro gradazioni).
Newton descrisse questa teoria corpuscolare della luce nel suo celebre trattato di ottica, e con essa riuscì a spiegare molti dei fenomeni allora noti, come la riflessione – di un raggio di luce su uno specchio –, la rifrazione – la deviazione che subisce un raggio di luce passando da un mezzo all’altro –, ma non la diffrazione – il comportamento della luce quando incontra un forellino abbastanza piccolo, e l’interferenza, cioè la possibilità di sommare luce a luce ottenendo buio, un effetto che lo stesso Newton conosceva per esperienza diretta.
Per cercare di superare queste difficoltà e per le analogie con il comportamento del suono, molti supponevano che la luce fosse un’onda. Il principale sostenitore di questa teoria ondulatoria era Christiaan Huygens, ma solo il francese Augustin Fresnel portò in seguito elementi certi a sostegno di questa ipotesi.
Un’onda, infatti, a differenza dei corpuscoli, può venire diffratta – pensiamo alle onde del mare che cambiano forma e direzione di moto quando incontrano l’apertura di un molo – e può anche interferire con un’altra onda quando esse si sovrappongono: per esempio, se la prima si trova al suo massimo di oscillazione positiva, la seconda al suo massimo negativo, e l’ampiezza dell’oscillazione è la stessa, l’oscillazione globale è nulla.
Sebbene la teoria ondulatoria non fosse, a sua volta, in grado di spiegare altri fenomeni, Newton, in età matura, finì per suggerire egli stesso l’idea che i corpuscoli luminosi si dovessero accompagnare in qualche modo a un’onda. L’ipotesi di Newton anticipa così l’odierna concezione del carattere duale (cioè insieme corpuscolare e ondulatorio) della luce.
Se la natura della luce era, almeno in parte, ondulatoria, doveva esistere un mezzo capace di trasferire il moto oscillatorio da una particella all’altra in modo che la perturbazione potesse propagarsi, come avviene per le onde meccaniche, e in particolare per quelle sonore, rese possibili dai moti e dagli urti delle molecole del mezzo (aria, acqua o altro materiale). Tuttavia, mentre il suono in assenza di materia non si propaga, la luce viaggia anche nel vuoto: altrimenti non potremmo vedere la luce delle stelle in cielo. Si pensò allora che esistesse una speciale sostanza, l’etere luminifero, che pervadeva tutto l’Universo e che tuttavia non era percepibile, tanto che il moto della Terra e delle stelle non ne era influenzato.
L’ipotesi dell’etere andò in frantumi quando alla fine dell’Ottocento due studiosi americani, Albert Abraham Michelson ed Edward Morley, dimostrarono con una celebre esperienza (che valse a Michelson il premio Nobel) che la luce si propaga con eguale velocità in tutte le direzioni. Poiché la Terra ruota su sé stessa e si muove lungo l’orbita solare, un vento di etere avrebbe dovuto rallentare o accelerare la luce a seconda della direzione. Così non risultò: in effetti le misure di Michelson e Morley non soltanto smentivano l’esistenza dell’etere, ma indicavano anche che la luce, in un determinato mezzo, viaggia sempre alla stessa velocità, indipendentemente dal moto dell’osservatore.
Negli stessi anni, altri fatti confermarono le osservazioni di Michelson e Morley. James Clerk Maxwell formulò le equazioni che da lui prendono nome e con esse descrisse il carattere ondulatorio delle oscillazioni dei campi elettrico e magnetico e ne valutò la velocità, pari a circa 300.000 km/s nel vuoto. Maxwell intuì che la luce appartiene a questa categoria di fenomeni. I campi elettrico e magnetico esistono anche nello spazio vuoto, purché ci siano cariche elettriche oscillanti che li generano: dunque le onde elettromagnetiche non hanno bisogno di un mezzo materiale per propagarsi. Infine, agli inizi del Novecento, Albert Einstein basò la sua teoria della relatività proprio sull’assunzione che la velocità della luce, pur cambiando valore da un mezzo all’altro, non varia rispetto al sistema di riferimento, sia esso fermo o in moto con velocità costante.
Una carica elettrica fissa in un punto dello spazio, per esempio un elettrone, genera nella regione attorno a sé un campo elettrico: ciò significa che, se un’altra carica elettrica viene introdotta in tale regione, essa risente di una forza che la pone in movimento. Se la carica, invece di essere fissa, si muove dando luogo a una corrente elettrica, oltre al campo elettrico si instaura anche un campo magnetico.
Un sistema in grado di generare un campo elettro;magnetico oscillante, e quindi un’onda che si propaga nello spazio, si chiama antenna; il tipo più semplice di antenna è un filo metallico tra le cui estremità si muovono elettroni, come ha dimostrato con un brillante esperimento Heinrich Rudolf Hertz nel 1887. Il campo elettrico generato è oscillante ed è perciò accompagnato da un campo magnetico, che vibra in sincronia con quello elettrico ma in direzione perpendicolare. Se la direzione di oscillazione dei due campi non varia mentre si propagano si dice che l’onda è polarizzata.
L’antenna di Hertz genera onde elettromagnetiche di frequenza milioni di volte più bassa rispetto a quella della luce (che, per il verde, è dell’ordine di 1014 Hz), ma esistono antenne naturali, gli atomi, in cui gli elettroni oscillano a frequenze molto più elevate, che corrispondono non solo alla luce visibile, ma anche all’ultravioletto e ai raggi X.
In base alle conoscenze odierne sugli atomi, gli elettroni in essi presenti possono occupare solo stati con energia ben definita e l’oscillazione degli elettroni si registra tutte le volte che essi passano da uno stato di energia dell’atomo a un altro. In condizioni normali, gli elettroni occupano gli stati di energia più bassa, ma se l’atomo viene perturbato da un agente esterno (luce, calore, una scarica elettrica), gli elettroni, assorbendo energia, possono venir innalzati verso stati dove non sono più in equilibrio. Così essi prima o poi ricadono in una condizione stabile liberando quantità di energia – i quanti – sotto forma di onda elettromagnetica – luce, raggi UV, raggi X –, come avviene nelle lampade a scarica.
L’energia luminosa che un atomo può emettere (oppure assorbire) corrisponde rigorosamente ai possibili salti degli elettroni da uno stato permesso all’altro: per questa ragione lo spettro di emissione di un atomo eccitato è costituito da un limitato numero di frequenze discrete, dette righe. Un noto esempio è la lampada a scarica di idrogeno che ha una colorazione violacea ma in realtà, se analizzata con uno spettrometro (spettroscopia), rivela una serie di righe separate sulla scala delle frequenze. Ovviamente, se investito da luce bianca, l’idrogeno gassoso assorbe esattamente le stesse frequenze che è in grado di emettere.
Nello spettro di emissione di un corpo incandescente, invece, le righe (e quindi le frequenze) sono così fitte e la regione tanto ampia che si va in pratica con continuità dall’infrarosso all’ultravioletto. Un classico esempio è lo spettro solare, rappresentato in figura dalla curva bianca. La regione della radiazione visibile è espressamente indicata; a sinistra di essa si ha l’ultravioletto, a destra l’infrarosso mentre gli avvallamenti che compaiono nella zona infrarossa sono dovuti all’assorbimento della radiazione da parte dell’atmosfera.
La radiazione elettromagnetica non è però continua: viene sempre assorbita o emessa in forma di pacchetti di energia, che prendono il nome di quanti o fotoni. Essi non sono ulteriormente frazionabili e in molti processi, per esempio l’interazione con gli elettroni dell’atomo, si comportano come particelle. La luce, insomma, presenta caratteristiche ondulatorie e corpuscolari a seconda del fenomeno che si osserva. Si dice quindi che un fotone è una ‘quasi-particella’ di massa nulla, ma che il campo elettromagnetico a esso associato ha carattere di onda, a conferma delle antiche intuizioni di Galileo e di Newton.
Galileo intuì che la luce ha una velocità grande ma finita; tuttavia la prima misura della velocità della luce fu realizzata tra Seicento e Settecento dall’astronomo danese Olaf Römer. Egli notò che l’eclissi di Io, una luna del pianeta Giove, sembrava ritardata quando la distanza della Terra da Giove era massima. Conoscendo le distanze tra i due pianeti nel corso dell’anno e assumendo che il ritardo osservato fosse dovuto al maggior tragitto che la luce doveva compiere per raggiungere la Terra, egli ne calcolò la velocità con una certa approssimazione, stimandola poco più di due terzi del valore reale.
Il primo esperimento terrestre fu effettuato a Parigi nel 1849 da Armand Hippolyte Louis Fizeau. Nel dispositivo di Fizeau una ruota dentata in rotazione interrompeva il cammino di un raggio di luce tra una sorgente e uno specchio, posti a diversi chilometri di distanza. Per raggiungere lo specchio il raggio di andata doveva passare attraverso il foro tra due denti, e il raggio riflesso poteva tornare alla sorgente solo a patto di incontrare, nel ritorno, di nuovo un foro. La velocità della luce (indicata con c) si calcolava così in relazione alla velocità di rotazione richiesta dalla ruota. Fizeau ottenne c=5313.000 km/s, un po’ più grande del valore oggi comunemente accettato. Jean-Bernard-Léon Foucault migliorò l’esperienza di Fizeau, utilizzando uno specchietto rotante che restituiva il raggio di ritorno all’osservatore solo se nel tragitto completo della luce, riusciva a compiere un intero giro. Foucault misurò con questo accorgimento il valore c5298.000 km/s, molto vicino a quello determinato oggi con precisione grazie ai laser e all’elettronica. Tale valore si valuta tramite il ritardo tra due impulsi laser, generati contemporaneamente, ma deviati su percorsi di diversa lunghezza ed è pari a c5299.792,45860,001 km/s (il secondo numero indica l’approssimazione della misura, che è perciò attualmente di appena 1 m/s in più o in meno rispetto al valore misurato).
Luce e ombra. Uno dei più stimolanti aspetti nell’arte pittorica è la resa della luce e degli effetti di contrasto tra oggetti illuminati e zone d’ombra e di penombra. Si tratta di un uso spinto del chiaroscuro che trovò la sua massima espressione in Caravaggio. Un suo emblematico capolavoro è La vocazione di s. Matteo. La grande profondità del quadro e la ricchezza di colore sono ottenuti facendo ricorso a sequenze di tinta-tinta scurita-nero, sequenze che rientrano nella cosiddetta armonia di qualità di colore (per tinta si deve intendere un colore puro, non mescolato a bianco o nero). Tale genere di sequenza è caratteristico dei quadri di interno e trionfa nella grande ritrattistica rinascimentale e seicentesca, per esempio di Tiziano e di Rembrandt. Talvolta, macchie chiare isolate – come può essere il volto o un bavero di camicia – vengono introdotte allo scopo di mettere in ulteriore risalto l’armonia delle scuriture.
La luce di Leonardo. Di carattere sobrio e smorzato è un’altra sequenza – tinta schiarita-tono-tinta scurita (il tono è una tinta non pura, che contiene sia del bianco, sia del nero) – importante perché consente effetti di luce assai vicini al reale. La sequenza fu introdotta da Leonardo da Vinci, come è chiaramente espresso nel S. Giovanni Battista del Louvre, e fu adottata da molti pittori del Rinascimento.
Leonardo, forse perché non era solo artista ma anche scienziato, si rese conto che un colore visto in piena illuminazione appare più brillante e puro, ma non più bianco, così come un colore in ombra appare insieme più ricco e profondo, ma non più nero. Anzi, il nostro sistema visivo tende a compensare le variazioni di illuminazione, ripristinando la vera colorazione dell’oggetto. Non è perciò lungo percorsi tinta-bianco e tinta-nero che il pittore deve muoversi, bensì adottando variazioni che diano l’impressione di mantenere costante la tinta di base dell’oggetto rappresentato. Un semplice esempio: l’aggiunta di bianco alla tinta per riprodurre le zone più luminose di un volto umano provoca la sensazione di un innaturale pallore di gesso. L’aspetto di naturale vivezza viene invece preservato se si percorre una linea di chiaroscuro, il che significa aggiungere con il bianco un po’ di tinta, rimuovendo al contempo un po’ di nero.
Le luminose tempeste di Turner. Un’altra sequenza che porta a straordinari effetti di luminosità è una di quelle preferite da Turner, pittore di albe, tramonti e tempeste. Si tratta della sequenza tinta debolmente schiarita-tono-grigio scuro. Tra i tanti esperimenti di colore fatti da Turner, il piu sorprendente è quello che lo portò a verificare che i colori potevano essere resi molto luminosi contrastandoli non tanto col nero o con tinte scure, quanto col grigio o con toni debolmente colorati. Il principio base di questo genere di armonia è che le zone chiare della combinazione sono date da tinte alquanto pure, le zone scure da colori grigiastri. Gli effetti sono ancora piu vividi se per le prime si usano colori caldi (zona giallo-rossa) e per le seconde colori freddi (zona verde-blu).
Sono innumerevoli le applicazioni della luce e delle sue proprietà: telescopi e microscopi basati su componenti che rifrangono la luce (lenti) o che la riflettono (specchi piani e curvi); i laser, sia a gas che a semiconduttore, che hanno permesso un enorme sviluppo dei sistemi di lettura digitale, delle tecniche chirurgiche e dell’industria di precisione; le fibre ottiche, che convogliano la luce dal trasmettitore al ricevitore e che sono alla base di comunicazioni sempre più veloci.