MACRO E MICROANALISI
di Marco Lippi
Il più importante oggetto di interesse per l'economia politica è sempre stato costituito dalle grandezze macroeconomiche, e cioè dalla somma, o aggregato, dei redditi, dei consumi, degli investimenti, delle importazioni, delle esportazioni; oppure il reddito pro capite, ossia il reddito aggregato diviso per la popolazione, il consumo pro capite, ecc.; o, ancora, il rapporto tra la massa dei disoccupati e la popolazione attiva, ossia il saggio di disoccupazione; o, ancora, il rapporto tra la popolazione attiva e la popolazione, ossia il saggio di attività.
Il reddito pro capite può essere considerato un importante, anche se molto imperfetto, indicatore del livello di benessere di una nazione. Esso può servire per fare comparazioni tra nazioni o per misurare lo sviluppo di un paese nel tempo. Naturalmente nei confronti tra paesi o nel tempo sarà anche importante conoscere il modo in cui il reddito è distribuito tra i membri delle economie in questione. Il saggio di disoccupazione può essere impiegato invece per valutare in quale fase del ciclo economico l'economia si trovi in un dato momento, ossia se l'economia stia attraversando un periodo di depressione, di ripresa o di crescita sostenuta. Il livello del reddito pro capite è la grandezza più importante quando ci si occupa di paesi poveri, ossia di paesi in cui una gran parte della popolazione deve ancora fronteggiare la fame, cattive condizioni igieniche e sanitarie, la mancanza di alloggi decenti. Il saggio di disoccupazione è una grandezza cruciale quando l'attenzione sia rivolta ai paesi più avanzati, ossia a quei paesi in cui la gran parte della popolazione può tranquillamente soddisfare i suoi bisogni primari, ma che, tuttavia, subiscono periodicamente un rallentamento della crescita.
Le grandezze macroeconomiche sono calcolate e rese pubbliche molto frequentemente dagli istituti nazionali e internazionali di statistica (quello italiano è noto come ISTAT, Istituto Nazionale di Statistica). Per esempio, in Italia il reddito nazionale è disponibile con frequenza trimestrale, l'indice dei prezzi al consumo, che è una media dei prezzi dei beni di consumo, ponderati per tener conto della loro importanza relativa, con frequenza mensile. Quando si hanno molti dati a disposizione, questi possono essere sottoposti ad analisi statistica. Ciò significa che le regolarità presenti in essi possono essere determinate e usate per fare previsioni. Ad esempio, se il reddito nazionale è cresciuto in media negli ultimi venti anni del 3 per cento, si può ragionevolmente prevedere che la crescita media nel prossimo quinquennio sarà non troppo lontana dal 3 per cento. Oppure, se la disoccupazione si è mantenuta in passato al di sopra del suo livello medio per periodi di circa un anno e mezzo, ed è stata al di sopra della media negli ultimi 15 mesi, si può prevedere un inizio della ripresa economica entro i prossimi 2-6 mesi.
Il punto di vista dell'economia politica è diverso: l'andamento dei dati macroeconomici deve essere spiegato sulla base della teoria economica che si ritiene rilevante. La microanalisi è lo studio dei comportamenti degli agenti economici, i lavoratori, le imprese, le famiglie, gli intermediari commerciali e finanziari, e dei mercati nei quali gli agenti entrano in contatto tra di loro. La macroanalisi è lo studio delle grandezze macroeconomiche basato sulla microanalisi.
I termini 'macroeconomia' e 'microeconomia' sono quelli usati più spesso per indicare i due livelli teorici di cui sopra si è detto. Tuttavia, poiché questi ultimi sono entrati nell'uso in tempi relativamente recenti, e sono fortemente connotati dall'indirizzo oggi più diffuso, è sembrato che 'macro' e 'microanalisi' fossero più adatti a descrivere un panorama storico molto complesso.
L'economia politica è stata ed è tuttora attraversata da contrasti molto forti che riguardano sia la micro che la macroanalisi. Un'esposizione equilibrata non può quindi che procedere fornendo elementi di conoscenza sulle principali linee di pensiero. Cominceremo dagli economisti classici e prenderemo come esempi la teoria di Ricardo del salario e della popolazione, e la teoria di Marx della caduta del saggio del profitto. In entrambi i casi si vedrà come una semplice descrizione del comportamento degli agenti economici sia la base per conclusioni che riguardano le grandezze macroeconomiche.Entrambe le teorie che stiamo per esporre hanno per oggetto l'andamento di un'economia capitalistica nel lungo periodo. Le domande a cui gli economisti
classici tentavano di rispondere erano del tipo: la popolazione e il benessere cresceranno senza limite, oppure l'economia e la popolazione sono destinate a raggiungere uno stato stazionario? Il sistema capitalistico è intrinsecamente vitale, oppure esistono nel suo meccanismo di funzionamento difficoltà che alla lunga causeranno il suo crollo?
La rappresentazione dell'economia che è caratteristica degli economisti classici è centrata su tre categorie di agenti economici.I proprietari fondiari sono un residuo del passato regime feudale. Essi danno in affitto la terra e ne ricavano una rendita. Questa viene interamente consumata. Si tratta dunque di una classe oziosa e, come vedremo, di un ostacolo allo sviluppo.I capitalisti sono i proprietari dei mezzi di produzione diversi dalla terra, ossia le macchine industriali e agricole e gli edifici in cui si svolge la produzione. Essi pagano ai lavoratori il salario, ai proprietari fondiari la rendita (quando sono capitalisti agricoli) e organizzano la produzione. Il ricavo della vendita delle merci prodotte, una volta dedotti i costi delle materie prime, del lavoro, della terra, e il deprezzamento delle macchine e degli edifici, costituisce il profitto, cioè il reddito dei capitalisti. Al contrario dei proprietari fondiari i capitalisti sono frugali. Essi consumano in modo da garantirsi un lusso moderato, e investono il resto del profitto ottenuto, ossia destinano gran parte del profitto all'accumulazione del capitale. Finché ciò accade essi assicurano la crescita della occupazione e del benessere generale.
I lavoratori possiedono soltanto la forza della loro mente e delle loro braccia. Questa forza lavoro viene venduta in cambio del salario. I lavoratori consumano tutto il loro reddito, al pari dei proprietari fondiari, anche se ciò accade per il motivo che il salario è così basso da consentire soltanto di consumare beni strettamente necessari per la sopravvivenza e la riproduzione. Ciò naturalmente riflette il tempo in cui questi economisti scrivono, tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo.
Questo è lo sfondo della microanalisi degli economisti classici. Naturalmente si tratta di astrazioni. Spesso le figure descritte sopra si sovrappongono, come avviene ad esempio nel caso di un contadino proprietario, che è al tempo stesso proprietario fondiario, capitalista e lavoratore.La microanalisi va ora completata mediante la descrizione del modo in cui gli agenti economici entrano in rapporto gli uni con gli altri. Si suppone che vi sia libertà di movimento per i capitali e per i lavoratori, e che non esistano coalizioni di nessun genere; quindi i lavoratori non sono associati in sindacati di categoria o nazionali, e neppure i capitalisti di un settore o dell'intera economia fanno accordi per aumentare la propria forza sul mercato. Si suppone inoltre che nessun capitalista o proprietario fondiario sia così importante da poter influenzare da solo i mercati in cui interviene. Quando queste condizioni sono soddisfatte si parla, nella teoria moderna, di concorrenza perfetta. Infine si suppone che tutti gli agenti economici tentino di realizzare il più alto reddito possibile, sia esso un salario, un profitto o una rendita. Questo quadro microanalitico consente di raggiungere una rappresentazione macro molto semplice e facile da elaborare. Se si prescinde da fluttuazioni temporanee e da differenze di minore importanza, l'economia è guidata da tre grandezze fondamentali: il saggio del salario, il saggio del profitto e la produttività sulle terre meno fertili messe a coltivazione. Precisamente, le condizioni sopra enunciate sugli agenti economici implicano che: 1) lavoratori di uguale specializzazione guadagnano lo stesso salario (v. Ricardo, 1821³, cap. 5); 2) il saggio del profitto, ossia il profitto diviso per il capitale anticipato, è lo stesso per tutti i capitalisti (ibid., cap. 6); 3) terre di uguale fertilità guadagnano la stessa rendita (ibid., cap. 2); 4) la terra meno fertile messa a coltivazione non guadagna rendita (ibid., cap. 2).
Le prime tre proposizioni sono conseguenze della libertà di movimento. Ad esempio, se in un settore produttivo il saggio del profitto fosse del 20 per cento mentre nel resto dell'economia fosse del 15 per cento, i capitalisti si sposterebbero nel settore a più alto profitto, e ciò durerebbe fino a quando questo si fosse allineato con il resto dell'economia. Lo stesso se il salario in un'industria fosse più alto che nelle altre. (Sulla proposizione 2 torneremo per un approfondimento nel cap. 4).
Per chiarire il motivo della proposizione 4 dobbiamo ricorrere a un semplice schema. Supponiamo che la terra sia di due tipi, A e B, che la terra A sia la più fertile, e che il volume della produzione sia tale che soltanto la metà della terra B sia messa a coltivazione. Sulla terra B non si paga rendita. In effetti, se un proprietario di terra B pretendesse una rendita di x per ettaro, un altro proprietario di terra B sarebbe disponibile a offrirla a x/2, e così via. Poiché la terra B è sovrabbondante rispetto alla produzione, la concorrenza tra i proprietari fondiari spinge la rendita a zero.
La proposizione 4 è molto importante. Essa implica che si può discutere di salari e profitti senza contemporaneamente dover determinare la rendita. Infatti la produzione sulle terre meno fertili, dedotti tutti i costi, si divide tra salari e profitti soltanto. O, se si preferisce, per determinare salari e profitti si può procedere come se la produzione agricola venisse tutta dalle terre meno fertili.Sarebbe troppo complicato entrare nei dettagli della determinazione di salario, profitto e prezzi. Si può però usare una semplificazione, a cui del resto lo stesso Ricardo fece ricorso, e cioè che il prodotto dell'agricoltura sia solamente grano, il quale viene prodotto per mezzo di grano soltanto; e che il salario sia anch'esso determinato dalla quantità di grano che i lavoratori ottengono per il loro consumo (v. Ricardo, 1815; v. Sraffa, 1951 e 1960; v. Dobb, 1973). Se questa semplificazione viene accettata, dato il salario unitario, il profitto che va ai capitalisti per ogni lavoratore impiegato è determinato come la differenza tra: a) il grano prodotto per lavoratore sulle terre meno fertili e b) i costi, rappresentati dal salario unitario e dal grano impiegato come mezzo di produzione. Il saggio del profitto è (a)-(b) diviso per (b), ossia il profitto diviso per il capitale anticipato dal capitalista. L'efficacia della semplificazione sta nel fatto che il profitto e il saggio del profitto vengono determinati senza fare ricorso ad alcuna teoria dei prezzi; infatti si tratta soltanto di sottrarre e dividere quantità di una stessa merce, il grano. In conclusione, dato il salario, il profitto resta determinato come residuo nella produzione sulle terre meno fertili. Ne segue che: 5) quando il salario unitario cresce, data la produzione, il saggio del profitto diminuisce; 6) quando la produzione aumenta e terre meno fertili debbono essere messe a coltivazione, se il salario resta costante il saggio del profitto diminuisce.Infine Ricardo definisce il saggio naturale del salario come quel saggio del salario per cui la popolazione dei lavoratori non aumenta né diminuisce, ossia il salario che garantisce un livello di consumo per cui soltanto la pura riproduzione è assicurata, ma nulla di più.
Quanto visto finora, ossia la microanalisi e le proposizioni macro sulle relazioni tra saggio del salario, saggio del profitto e rendita, costituisce la base del pensiero di Ricardo. Da questa discendono la sua teoria della popolazione e le sue convinzioni in politica economica.
Partiamo da una situazione di prosperità. La popolazione è scarsa rispetto alle terre coltivabili. Di conseguenza soltanto terre molto fertili vengono messe a coltivazione. Ciò implica che il prodotto agricolo disponibile per salari e profitti, ossia il prodotto delle terre meno fertili messe a coltivazione, è abbondante rispetto ai lavoratori impiegati, cosicché un salario più alto del salario naturale può essere pagato mentre, al contempo, i capitalisti sono soddisfatti del saggio del profitto che ottengono.
Un alto saggio del profitto implica una robusta accumulazione del capitale. L'aumento della popolazione conseguente all'alto saggio del salario trova così corrispondenza nell'aumento del capitale, della produzione e del fabbisogno di lavoro.Tuttavia, man mano che la produzione aumenta, è necessario mettere a coltivazione terre sempre meno fertili. Se il salario non scende, il saggio del profitto deve scendere. Se quest'ultimo non scende, il salario deve scendere. Se nulla interviene a modificare il quadro, alla lunga il salario diminuisce fino a raggiungere il suo livello naturale, e il saggio del profitto si riduce fino al punto in cui i capitalisti non fanno più investimenti in nuovo capitale. La situazione che viene raggiunta è dunque uno stato di stagnazione, in cui la popolazione e il capitale rimangono costanti. In particolare, bisogna insistere, i lavoratori vivono in condizioni di pura riproduzione (v. Ricardo, 1821³, cap. 6).
La stagnazione verso cui procede il sistema capitalistico poteva essere evitata, secondo Ricardo, dal progresso tecnico in agricoltura, equivalente a un innalzamento della produttività su tutte le terre, o dall'importazione di grano da paesi dotati di terre più fertili. E ciò costituiva il motivo della posizione politica di Ricardo a favore dell'abolizione dei dazi sul grano in Inghilterra, che avrebbe danneggiato i proprietari fondiari ma favorito le rimanenti classi sociali.Questo è uno splendido esempio di analisi economica e di convinzione politica basata sull'analisi economica. La microanalisi studia i comportamenti individuali degli agenti economici, i mercati, e prepara il terreno alla macroanalisi. Quest'ultima determina l'andamento dei grandi aggregati. Nel caso di Ricardo, le proposizioni da 1 a 6 sono semplici conseguenze della microanalisi e consentono di raggiungere conclusioni sulla popolazione di un paese, e di suggerire rimedi contro la prospettiva di una stagnazione.
Karl Marx aveva per Ricardo una grande ammirazione. Lo considerava, assieme ad Adam Smith, un pensatore di valore universale perché capace di superare i limiti dell'orizzonte borghese in cui restava, a suo parere, gran parte dell'economia politica.Marx, che scriveva circa cinquant'anni dopo Ricardo, aveva studiato a fondo la rivoluzione industriale e riteneva che la teoria stagnazionista di Ricardo fosse superata dal fatto che con lo sviluppo del capitalismo il progresso tecnico non era più un accadimento indipendente dal meccanismo economico. Nella rappresentazione contenuta nel Capitale le imprese non si limitano al movimento verso i settori a più alto saggio del profitto o alla concorrenza sui prezzi. E neppure all'applicazione di regole efficienti per la divisione del lavoro. Esse stimolano e utilizzano il progresso scientifico al fine di ottenere drastiche riduzioni dei costi. Chi è in grado di ridurre i costi per primo è pure in grado di vendere a un prezzo più basso e di conquistare una più ampia quota di mercato. La diffusione della nuova tecnica elimina il vantaggio dell'impresa innovatrice; resta il beneficio permanente del prezzo ribassato per la merce prodotta. In questo contesto la scarsità di terra rispetto ai bisogni della popolazione non costituisce più un limite insuperabile. Se la quantità necessaria di beni agricoli cresce con la popolazione, anche la produttività del lavoro cresce - sia in generale che nell'agricoltura. Dunque il limite costituito dalla scarsità di terra viene continuamente reso meno severo dal progresso tecnico (v. Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 14).
A questa visione decisamente ottimistica, se confrontata con le conclusioni di Ricardo sulla popolazione, si accoppia però l'idea che il sistema capitalistico, a causa delle sue specifiche caratteristiche come rapporto sociale di produzione, non è in grado di sfruttare fino in fondo la possibilità di cui si è detto sopra. In effetti in Marx, come già in Smith e Ricardo, gli effetti benefici del capitalismo sull'intera società non vengono ottenuti grazie alla benevolenza dei capitalisti o dei governi. Anzi, è la sete di guadagno individuale che spinge i capitalisti a introdurre innovazioni e quindi ad abbassare il costo della sussistenza e, di conseguenza, a opporre un prodotto sempre più abbondante a una popolazione crescente. Come vedremo, la spinta del profitto individuale finisce, secondo Marx, per entrare in un conflitto insanabile con il progresso tecnico, causando alla lunga una crisi irreversibile del sistema.
Per capire la teoria di Marx bisogna ricordare alcuni aspetti cruciali della sua costruzione. Il valore-lavoro delle merci è costituito dalla quantità di lavoro necessaria, direttamente e indirettamente, a produrle: ad esempio il valore-lavoro di un libro è costituito dal lavoro incorporato nella carta, nella colla, ecc., ossia dal lavoro indirettamente necessario, più il lavoro direttamente necessario, ossia il lavoro mediante il quale carta, colla, ecc., diventano un libro. In generale, i valori-lavoro delle merci non sono proporzionali ai valori di scambio. Ad esempio, se un libro e un cuscinetto a sfera contengono la stessa quantità di lavoro, ciò non implica che un libro si scambi contro un cuscinetto a sfera. Questo è il problema, diventato famoso, della trasformazione dei valori nei prezzi. I valori, secondo Marx, non sono immediatamente uguali ai prezzi. Però i prezzi possono essere ottenuti a partire dai valori. Anzi, secondo Marx non possono essere ottenuti altrimenti (v. Marx, 1867-1894, vol. I, cap. 1; v. Lippi, 1976).
Qui non possiamo addentrarci nei dettagli del problema. Abbiamo soltanto bisogno di un'importante proposizione della teoria marxiana. Pur non essendo i valori uguali ai prezzi per le singole merci, per gli aggregati si ha uguaglianza. Ciò significa che il capitale aggregato misurato mediante i prezzi è uguale al capitale aggregato misurato mediante i valori, e che, allo stesso tempo, la produzione complessiva misurata in prezzi è uguale alla produzione complessiva misurata in valori. Questo implica immediatamente che il profitto complessivo misurato in prezzi è uguale al plusvalore aggregato, ossia alla somma dei profitti misurati in valore. A sua volta ciò implica che il saggio del profitto, ossia il rapporto tra profitto e capitale anticipato, può essere determinato come dove
PV
——,
C+V
è il plusvalore aggregato, C+V è il valore del capitale anticipato, distinto in valore dei mezzi di produzione, C, e valore dei salari anticipati, V. Questa è la soluzione di Marx al problema che Ricardo aveva risolto inizialmente assumendo che l'agricoltura producesse grano per mezzo di grano solamente. Anche in questo caso il saggio del profitto viene determinato senza risolvere simultaneamente il problema dei prezzi (v. Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 9).
Una piccola modifica alla formula appena scritta ci consentirà di esporre la teoria della caduta del saggio del profitto. Basta dividere numeratore e denominatore per V:
PV/V
———.
C/V+1
In questo modo vengono messe in evidenza due grandezze dotate di un importante significato economico. La prima è il rapporto PV/V, che Marx chiama indifferentemente 'saggio del plusvalore' o 'saggio di sfruttamento'. La seconda è C/V, che Marx chiama 'composizione organica del capitale'. Il saggio del profitto è tanto più alto quanto più alto è il saggio del plusvalore, e tanto più basso quanto più alta è la composizione organica.Il saggio del plusvalore è determinato dal livello del salario, che fissa il denominatore, e dalla lunghezza della giornata lavorativa, che fissa la somma di denominatore e numeratore. Dunque, si può dire che il saggio del plusvalore riflette in parte il rapporto di forza che via via si stabilisce tra capitalisti e salariati, e in parte lo sviluppo della produttività nella produzione dei beni-salario. Infatti, se questi ultimi vengono prodotti più a buon mercato e la giornata lavorativa non cambia, la grandezza V diminuisce, PV aumenta di conseguenza, e così fa il saggio del plusvalore. Anche se le condizioni di vita dei salariati non sono mutate, essi 'costano meno' e il saggio del profitto aumenta. Se, invece, quando i beni-salario scendono di prezzo i salariati riescono a imporre la loro 'partecipazione', la grandezza PV/V può rimanere immutata (come, si direbbe oggi, in una politica dei redditi).
Si supponga che PV/V rimanga più o meno costante nel tempo. Allora i mutamenti del saggio del profitto sono determinati esclusivamente dai movimenti della grandezza C/V, la composizione organica. Questo rapporto riflette l'importanza relativa dei mezzi di produzione rispetto al lavoro vivo. Esso, secondo Marx, aumenta a mano a mano che il progresso tecnico impone tecniche in cui le macchine sostituiscono gli uomini: la parte del valore delle merci costituita dal valore dei mezzi di produzione e dal logorio delle macchine diventa una porzione sempre più grande. Ciò produce una caduta progressiva del saggio del profitto. A sua volta tale caduta finisce per scoraggiare i capitalisti dal fare investimenti in macchine e progresso tecnico, fino a quando la gigantesca macchina dell'accumulazione si arresta. Così attraverso crisi sempre più frequenti il capitalismo giunge alla sua fase finale e libera un nuovo, più avanzato modo di produzione. Bisogna notare che la ragione della crisi non sta nel progresso tecnico come tale, ma, come si è anticipato, nel fatto che i capitalisti sono mossi dal motivo del profitto individuale: è questo che alla fine provoca il crollo (v. Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 14).
Anche in questo caso, entrare nei particolari della teoria di Marx, delle obiezioni che a essa sono state mosse, va oltre i limiti di una breve esposizione. Ma ciò che interessa qui è la teoria di Marx come esempio di micro e macroanalisi. La microanalisi di Marx si arricchisce, rispetto a quella di Ricardo, per il fatto che il progresso tecnico viene reso, come si dice, endogeno. Ciò significa che, mentre per Ricardo il progresso tecnico influenza il sistema economico ma non è influenzato da questo, per Marx la ricerca del profitto spinge i capitalisti a trasformare il progresso scientifico in progresso tecnico e a promuovere lo stesso progresso scientifico. In questo senso il progresso scientifico e quello tecnico sono causati (anche se non del tutto) dal progresso economico e sono quindi endogeni.
Questo aspetto della teoria di Marx non solo costituisce un'innovazione rispetto a Ricardo, ma è addirittura profetico. La circolarità di causazione tra sviluppo economico e tecnico-scientifico troverà infatti più ampia realizzazione soltanto nel nostro secolo. Ed è soltanto di recente che tutto ciò è entrato a far parte dell'economia accademica (v. Schumpeter, 1912 e 1939; v. Metcalfe, 1987; v. Romer, 1986). La teoria della caduta del saggio del profitto invece non ha avuto conferma empirica, ed è stata confutata anche sul piano analitico. Essa resta tuttavia un esempio tra i più notevoli di utilizzazione della microanalisi - la ricerca del profitto come causa del progresso tecnico - al fine di giungere a conclusioni su grandezze macroeconomiche: il saggio del profitto, il saggio di accumulazione.
Due aspetti della teoria classica appena esposta vanno sottolineati. In primo luogo, l'attenzione è rivolta al comportamento del sistema nel lungo periodo. Dunque si può fare astrazione da oscillazioni temporanee della produzione e della occupazione. In secondo luogo, la relazione che passa tra micro e macroanalisi è molto semplice e diretta. L'argomento di questo capitolo è il ciclo economico, cioè proprio le oscillazioni di produzione e occupazione attorno alla tendenza di lungo periodo. Come è possibile che periodicamente larghe masse di lavoratori si trovino disoccupate e gli impianti soltanto parzialmente utilizzati? E come è possibile che tali situazioni durino relativamente a lungo, malgrado gli sforzi dei governi per uscirne? Cominceremo esponendo la teoria neoclassica, ossia quella corrente di pensiero che si è affermata a partire dalla fine del secolo scorso fino ai nostri giorni come il punto di riferimento accademico più importante. Vedremo poi la critica mossa alla teoria neoclassica dal famoso economista e pensatore politico John Maynard Keynes (1883-1946) negli anni trenta. Tale critica è tanto più interessante in questa sede in quanto non è rivolta ai fondamenti della teoria, ma al modo in cui i neoclassici trattano il rapporto tra micro e macroanalisi. Subito dopo esporremo un'importante controcritica di parte neoclassica, che ha avuto di recente un notevole successo, e una critica ulteriore alla teoria neoclassica, che si basa sulle interdipendenze tra i diversi settori dell'economia.
Nella teoria classica della produzione, in ogni istante di tempo, normalmente, ciascuna merce viene prodotta secondo una precisa 'ricetta'. Per produrre una vite occorre una data quantità di lavoro, una data quantità di metallo, una determinata macchina, ecc. Tutte le volte che viene inventato un nuovo metodo di produzione, questo si sostituisce progressivamente al vecchio finché non lo soppianta del tutto. Si passa quindi da date proporzioni tra lavoro e altri mezzi di produzione ad altre proporzioni, ma, a parte i periodi di transizione tra un metodo e un altro, le proporzioni sono fisse.
La teoria neoclassica della produzione si basa invece sull'idea che in ogni istante le imprese abbiano a disposizione molti metodi di produzione. In particolare esse possono scegliere, in ogni momento, tra metodi ad alta intensità di lavoro e metodi a bassa intensità di lavoro e alta intensità di capitale. Si può produrre il grano con un aratro tradizionale e molto lavoro, oppure con un trattore moderno e una (relativamente) piccola quantità di lavoro; oppure, ancora, con una vasta gamma di metodi intermedi. La relazione che passa tra prodotto e mezzi di produzione impiegati è nota come funzione di produzione. Data una quantità di prodotto, la funzione di produzione consente di determinare tutte le combinazioni dei mezzi di produzione e del lavoro che forniscono proprio quella quantità.
Come è possibile per le imprese decidere quale metodo adottare? Tutto dipende dai prezzi relativi dei mezzi di produzione e del lavoro. In particolare, se il lavoro è relativamente caro, le imprese tenderanno a impiegare metodi a bassa intensità di lavoro, ovvero ad alta intensità di capitale. Viceversa, se il lavoro è relativamente a buon mercato, le imprese impiegheranno metodi ad alta intensità di lavoro. Esiste una stretta analogia nella teoria neoclassica tra il modo in cui è trattata la produzione e la teoria del consumo. Salvo eccezioni di minore importanza, tutte le volte che i prezzi relativi cambiano i consumatori acquistano maggiori quantità delle merci il cui prezzo è relativamente diminuito, a sfavore di quelle il cui prezzo è relativamente aumentato (v. ad esempio Varian, 1992³, capp. 1-4 per la teoria della produzione, capp. 7-9 per la teoria del consumatore; sulla relazione tra salario e occupazione v. § 3c).
Nella teoria neoclassica prima di Keynes la microanalisi dell'impresa che abbiamo appena visto veniva estesa tranquillamente a una proposizione riguardante gli aggregati. Se il salario cresce relativamente ai prezzi degli altri fattori, l'impresa impiega una minore quantità di lavoro, e viceversa se il salario scende. Lo stesso deve accadere, secondo i neoclassici, per l'economia nel suo complesso. Di conseguenza, se vi sono lavoratori disoccupati, si tratta o di un fenomeno passeggero, durante un assestamento dell'economia causato ad esempio da un cambiamento di gusti dei consumatori; oppure del fatto che il salario non può scendere fino al suo 'giusto' livello. Quest'ultimo, ossia il salario di equilibrio, è quello per il quale le imprese scelgono quei metodi che garantiscono la piena occupazione del lavoro.
La critica di Keynes non si rivolge alla proposizione che per ciascuna impresa la domanda di lavoro è inversamente dipendente dal salario. Essa si concentra sull'estensione di tale proposizione dall'analisi dell'impresa alla economia nel suo complesso, dalla micro alla macroanalisi. In effetti, quando si afferma che un'impresa domanda una maggiore quantità di lavoro se il salario scende, si ragiona assumendo in modo implicito che la produzione dell'impresa sia data e non debba variare per effetto della discesa del salario. Ciò non è del tutto esatto, ma non abbiamo bisogno di ulteriori dettagli per questa esposizione sintetica. Quindi, a produzione data, se il lavoro diventa più a buon mercato le imprese ne domandano una quantità maggiore. Ad esempio, se nell'industria della ceramica il salario scende, la teoria neoclassica prevede, per quell'industria, un aumento dell'occupazione. E ciò non è scorretto, perché la discesa del salario per i lavoratori della ceramica non ha alcuna influenza sulla domanda di prodotti del settore: in effetti, la domanda di prodotti di ceramica proviene dall'intera economia nazionale ed estera. Non solo, ma se la riduzione del salario si traduce in una discesa dei prezzi dei prodotti in ceramica, è possibile che la produzione aumenti, cosicché al primo effetto positivo (maggiore domanda di lavoro per via di un salario diminuito) se ne somma un secondo (maggiore produzione per via di un prezzo diminuito).
Lo stesso ragionamento non può essere applicato se invece è il salario dell'intera economia a scendere. È vero che ogni impresa tenderebbe a impiegare una maggiore quantità di lavoro se la quantità prodotta rimanesse immutata, ma una quantità immutata di prodotto non può più essere presa come ipotesi. Se il salario di tutti i lavoratori scende, cosa accade alla produzione di beni di consumo? Possiamo affermare che rimarrà immutata? La risposta è affermativa se l'occupazione aumenta in modo tale da compensare il diminuito reddito per lavoratore, negativa se ciò non accade. In ogni caso, poiché il problema è l'occupazione, l'ipotesi che la produzione di beni di consumo rimanga immutata renderebbe l'intero ragionamento logicamente circolare e quindi scorretto.
Da questa circolarità implicita nella teoria neoclassica dell'occupazione parte e si sviluppa la critica di Keynes. La teoria dell'impresa non può essere estesa all'economia nel suo complesso. Nel caso della ceramica l'ipotesi di produzione data non è irragionevole poiché si tratta di una parte minuscola se confrontata con l'economia nazionale. Ma quando si passa a considerare il salario di tutti i lavoratori dobbiamo tener conto del fatto che il salario è il costo del lavoro per le imprese, ma è anche il reddito dei lavoratori. La discesa del costo incoraggia le imprese a occupare un maggior numero di lavoratori, ma la discesa del reddito fa cadere la domanda che si rivolge alle imprese, e quindi agisce in direzione opposta sull'occupazione. È questa duplice natura del salario come costo e come reddito che rende il rapporto tra micro e macroanalisi non banale (v. Keynes, 1936, cap. 19).
Tuttavia una critica al metodo mediante il quale una conclusione viene raggiunta non costituisce necessariamente una confutazione della conclusione. In altri termini, una volta emendato il modo ingenuo in cui i neoclassici mettevano in rapporto micro e macroanalisi, la tesi secondo cui la discesa del salario favorisce l'occupazione può essere mantenuta oppure no? La risposta di Keynes è negativa: la cura per la depressione economica, e la conseguente disoccupazione, non sta in una discesa dei salari ma in un consapevole intervento pubblico a favore della domanda, e in particolare a favore degli investimenti in nuovo capitale. L'argomentazione di Keynes non può essere riprodotta qui in modo preciso per ovvie ragioni di spazio. È possibile però un'elencazione schematica delle idee su cui è basata.
1. Il reddito percepito dalle famiglie si divide in una parte consumata e una parte risparmiata.
2. Il prodotto complessivo dell'economia si divide in una parte destinata al consumo e una parte destinata all'investimento.
3. Le decisioni di risparmio vengono prese dalle famiglie, le decisioni di investimento dalle imprese. Questa separazione implica che non esiste un coordinamento a priori tra risparmio e investimento. L'ammontare dei risparmi obbedisce a una legge psicologica elementare e dipende in modo meccanico dal reddito: all'aumentare di questo la frazione risparmiata tende ad aumentare, e comunque non diminuisce. Gli investimenti dipendono invece dal saggio di interesse, da elementi oggettivi concernenti la produzione, ma anche, in modo cruciale, dal grado di fiducia degli imprenditori nell'andamento degli affari nel futuro.
4. Supponiamo che il sistema si trovi in uno stato di piena occupazione e che improvvisamente vi sia un aumento della propensione a risparmiare. Ciò causa inizialmente una caduta del consumo e di conseguenza una caduta della produzione nel settore che produce beni di consumo. A sua volta ciò genera disoccupazione e quindi una ulteriore caduta di domanda. Per riportare il sistema verso la piena occupazione occorrerebbe un aumento degli investimenti, in modo da bilanciare l'aumento della propensione a risparmiare, ma la situazione di depressione che nel frattempo si è creata non favorisce gli investimenti; al contrario, li sfavorisce perché induce gli imprenditori al pessimismo.
5. In un lungo periodo di tempo il meccanismo neoclassico di sostituzione di lavoro a capitale potrebbe aiutare se il salario scendesse abbastanza. Tuttavia, in primo luogo, la discesa del salario non può avvenire senza che le relazioni industriali siano turbate, il che causa incertezza e quindi danneggia ulteriormente la fiducia; in secondo luogo, gli effetti immediati di una discesa del salario sono sfavorevoli all'occupazione: infatti diminuisce il reddito dei lavoratori come quota del reddito complessivo, e ciò fa aumentare la propensione a risparmiare (v. Keynes, 1936, cap. 19).
6. Se si vuole uscire dalla depressione in un periodo di tempo ragionevole è quindi necessario un intervento esterno consapevole che rompa il circolo vizioso. In particolare, la spesa pubblica può svolgere un ruolo anticiclico se si espande quando l'economia rischia di piombare nella depressione e si contrae quando l'economia si sviluppa regolarmente.
La General theory of employment, interest and money, in cui Keynes espose sistematicamente le sue tesi, rappresentò una vera e propria rivoluzione nell'economia politica e nella politica economica. In primo luogo, la parsimonia, fino allora una virtù indiscussa, veniva indicata come una concausa delle ricorrenti depressioni delle economie capitalistiche: è infatti il risparmio, in quanto non coordinato con l'investimento, a creare il problema di domanda che genera la depressione; e tanto più è alta la propensione a risparmiare, tanto più alto è l'investimento che deve essere effettuato per avere piena occupazione. In secondo luogo, la capacità del mercato di correggere spontaneamente qualsiasi squilibrio veniva negata con grande energia. Contrariamente all'opinione tradizionale, il mercato non conduce necessariamente alla piena occupazione. Come abbiamo visto, soltanto un'errata concezione del rapporto tra micro e macroanalisi aveva sorretto, secondo l'opinione di Keynes, la fiducia dei neoclassici negli automatismi del mercato.
La principale conseguenza della rivoluzione keynesiana consiste in una politica economica fortemente interventista. Il governo non deve soltanto garantire che la concorrenza si svolga in modo corretto: è necessario che agisca consapevolmente contro la disoccupazione. In particolare, gli interventi pubblici in infrastrutture non hanno solo lo scopo di aumentare la produttività generale, ma anche quello di contrastare la tendenza del capitalismo alla depressione del livello di attività.
La critica di Keynes al punto di vista tradizionale ha costituito il punto di partenza di una letteratura vastissima, e di una divisione degli economisti in campi fortemente contrapposti. Da una parte si è cercato di proseguire sulla strada indicata da Keynes, dall'altra di respingere o minimizzare le sue obiezioni.Una controcritica, che ha avuto di recente un grande successo soprattutto negli Stati Uniti, ha per oggetto il modo in cui Keynes tratta le aspettative degli imprenditori. Nella General theory si assume che la situazione prevalente nel passato più recente venga proiettata dagli imprenditori nel futuro. Di conseguenza la depressione tende ad autoalimentarsi: se il livello della domanda e dei profitti è basso, gli imprenditori si aspettano che continui a essere basso e non investono. Ma proprio i mancati investimenti causano un basso livello della domanda, e così via. Ora, si è sostenuto, questo modo di trattare le aspettative pecca per semplicismo. Perché gli imprenditori non dovrebbero accorgersi che l'economia ha un andamento ciclico, e tentare di mettere a frutto questa conoscenza? Per quale ragione agenti economici razionali non dovrebbero utilizzare al meglio le informazioni che possono raccogliere sugli andamenti passati dell'economia? Ad esempio, essi sanno che la depressione non dura in eterno; sono perciò in grado di prevederne la fine e hanno ovviamente interesse ad anticipare gli eventi: se la domanda è destinata a crescere conviene avere investito per tempo.
La teoria delle aspettative razionali, introdotta dagli economisti John Fraser Muth e Robert Lucas tra gli anni sessanta e settanta (v. Muth, 1960 e 1961; v. Lucas, 1976; v. Sargent, 1987), costituisce la base per una ripresa del punto di vista tradizionale sull'occupazione e sul ciclo economico. La critica keynesiana, sostengono gli economisti di questa scuola, è basata sulla ipotesi che gli agenti economici non sfruttino appieno le occasioni di profitto e le informazioni a disposizione. Non appena le assunzioni di razionalità e di efficienza vengano ripristinate e sviluppate, non vi è alcun motivo per pensare che il mercato abbia bisogno di interventi esterni per condurre l'economia verso la piena occupazione.
Come è facile capire, si tratta di tesi molto controverse, sia sul piano della teoria che su quello dell'interpretazione dei fatti economici. Non vi è dubbio che l'idea di aspettative razionali contiene un'indicazione di ricerca di grande interesse: gli agenti economici tentano di 'imparare' dall'esperienza e di modificare i propri comportamenti sulla base dell'apprendimento. Questo tuttavia non implica necessariamente che essi riescano ad approdare alla stessa interpretazione degli eventi passati e alle stesse aspettative degli eventi futuri.Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un problema di coordinamento di comportamenti individuali e quindi di rapporto tra micro e macroanalisi. Consideriamo un singolo agente economico. Possiamo supporre che i suoi comportamenti non influenzino il resto dell'economia e quindi che l'andamento delle grandezze che gli interessano possa essere preso come dato. Non è difficile ammettere che, se esistono regolarità, ad esempio nell'andamento del saggio di inflazione, l'agente alla lunga sia in grado di fare buone previsioni sul livello dei prezzi; oppure, se si tratta di un'impresa esportatrice, che impari a riconoscere le regolarità nel tasso di cambio della lira contro il dollaro.Fin qui non ci sono obiezioni importanti. Cosa accade però quando prendiamo in esame tutti gli agenti contemporaneamente? Possiamo dire che, poiché ciascuno di essi impara a prevedere gli andamenti del resto dell'economia, tutti imparano contemporaneamente? La risposta è negativa, o, almeno, non può essere immediatamente affermativa, come se bastasse 'sommare' gli apprendimenti individuali per avere l'apprendimento collettivo. Ora infatti ciascuno tenta di capire come si comporta il resto dell'economia, ma questa è composta da una moltitudine di altri agenti, ciascuno dei quali tenta, a sua volta, di fare la stessa cosa. Allora molti si renderanno conto del fatto che bisogna capire non solo il modo in cui l'economia si comporta, ma anche il modo in cui gli altri pensano che l'economia si comporti, poiché anche da questo dipende l'economia. Ma se tutti fanno questo, la situazione diventa molto più complessa di quanto non sia quando viene analizzato un agente soltanto.
Anche in questo caso dunque il passaggio dalla micro alla macroanalisi è tutt'altro che immediato. Prova ne sia il fatto che molto spesso la moderna macroeconomia ricorre alla semplificazione estrema di supporre che esista un solo agente, il cosiddetto agente rappresentativo. Con ciò però il problema del rapporto tra micro e macroanalisi, più che risolto, viene eliminato in partenza (sulle recenti controversie riguardanti le aspettative v. Frydman, 1982; v. Pesaran, 1987).
Come abbiamo visto, Keynes non criticava l'uso della funzione di produzione da parte dei neoclassici, ossia l'idea che a un salario più basso corrisponde una maggiore domanda di lavoro, a produzione data. La sua obiezione era che l'economia non riesce a muoversi verso la nuova posizione, cioè resta, per così dire, intrappolata nella depressione. A partire dagli anni sessanta, sotto l'impulso di Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa, è stata sviluppata una teoria più radicale, che nega la relazione fondamentale neoclassica tra livello del salario e domanda aggregata di lavoro. Per illustrare il problema facciamo ricorso di nuovo all'economia semplificata in cui si produce soltanto grano per mezzo di grano e lavoro (v. § 2a). La teoria neoclassica suppone che esista una moltitudine di metodi di produzione: questi possono essere ordinati in modo univoco secondo l'intensità di lavoro, ossia il rapporto tra lavoro e grano nella produzione di una unità di grano. È evidente che più il lavoro è a buon mercato maggiore è il rapporto lavoro/grano scelto dai capitalisti, quindi più basso è il salario maggiore è la domanda di lavoro, data la produzione.Il problema è: possiamo estendere questo risultato a una economia multisettoriale? La risposta è negativa in generale, e le ragioni sono le seguenti.
1. In un'economia multisettoriale ogni settore impiega come mezzi di produzione i prodotti di altri settori (interdipendenza tra settori); inoltre, diversi settori possono impiegare gli stessi mezzi di produzione ma non nelle stesse proporzioni. Ad esempio, per produrre il ferro si usano, tra l'altro, il ferro e il carbone, e lo stesso per produrre il carbone; però le proporzioni di ferro e carbone impiegate sono diverse nei due settori.
2. Come conseguenza il capitale non può essere misurato se non in valore, cioè utilizzando i prezzi dei prodotti che lo compongono.
3. D'altra parte, i prezzi dei prodotti variano al variare del salario; quindi la grandezza del capitale, che dipende dai prezzi come appena visto, varia al variare del salario. A causa di ciò può accadere che i vari metodi di produzione non possano più essere ordinati secondo il rapporto lavoro/capitale, e dunque la semplice relazione valida nell'economia a un solo settore può non valere quando i settori sono molti.Il punto cruciale qui è che i prezzi variano quando varia il salario. Un semplice esempio è sufficiente a spiegare la ragione di ciò. Partiamo da un dato livello del salario e dai prezzi corrispondenti. Questi ultimi, va ricordato, debbono assicurare un saggio del profitto uniforme tra i settori (v. § 2a). Supponiamo che nel settore del carbone il rapporto tra capitale e lavoro sia, a quei prezzi, di 1 a 1, e che tale rapporto sia invece di 2 a 1 nel settore che produce ferro. Se il salario scende, il costo nel settore del carbone scende, in proporzione, più di quanto scenda nel settore del ferro. Quindi, se i prezzi non cambiano, il saggio del profitto nel settore del carbone diventa più alto che nel settore del ferro. A prima vista sembra che la soluzione del problema stia in una caduta del prezzo del carbone rispetto a quello del ferro. Tuttavia, se ciò avviene, cambiano anche i valori del capitale nei due settori: infatti carbone e ferro sono mezzi di produzione, oltre che prodotti.
Non è possibile approfondire qui ulteriormente questo tema. Quanto visto è sufficiente a illustrare un caso importante in cui la considerazione delle interdipendenze, che è necessaria quando si affronta la teoria macro, può rovesciare i risultati ottenuti in un modello unisettoriale, in cui micro e macroteoria sono per definizione identiche. (Per un'esposizione della discussione sulla teoria del capitale suscitata dal libro di Sraffa, v. Kurz, 1987; per una trattazione generale della teoria delle interdipendenze settoriali, v. Pasinetti, 1975).
Come abbiamo visto nel cap. 3, la consapevolezza del fatto che la microanalisi non può essere sempre estesa alla macroanalisi in modo diretto è piuttosto recente: essa risale infatti alla General theory. Tuttavia, negli ultimi decenni sono stati compiuti notevoli passi in avanti nella chiarificazione di problemi lasciati aperti dagli economisti del secolo scorso e dei primi decenni del Novecento. In questo capitolo esporremo brevemente due casi interessanti in cui sorgono difficoltà nel rapporto tra micro e macroanalisi: la teoria classica dei prezzi di produzione e dei prezzi di mercato, e la stabilità di un equilibrio generale neoclassico.
Come si è visto nel cap. 2, secondo Ricardo, e secondo tutti gli economisti classici, la libertà di movimento dei capitali da un settore di produzione all'altro assicura il medesimo saggio del profitto per tutti i settori. Questa affermazione non significa che in ogni istante il saggio del profitto sia uniforme; significa che esiste una tendenza all'uniformità, ossia che le differenze, quando si verificano, tendono a sparire. Ad esempio, se i cappelli da uomo diventano improvvisamente fuori moda, inizialmente il prezzo dei cappelli da uomo cade a causa della domanda diminuita, a cui fa fronte una offerta immutata. Ciò però causa una uscita di capitale dal settore dei cappelli da uomo e quindi una contrazione dell'offerta. Quando questa si sia adeguata al più basso volume della domanda il prezzo torna al suo livello naturale, cioè eguaglia il prezzo di produzione.I classici chiamavano prezzo di produzione il prezzo che assicura il medesimo saggio del profitto in tutte le industrie, e prezzi di mercato i prezzi che temporaneamente si affermano come risultato dell'incontro di domanda e offerta. I prezzi di mercato, secondo i classici, gravitano attorno ai prezzi di produzione: i capitali escono dai settori in cui il saggio del profitto è più basso della media e si dirigono dove è più alto; in questo modo l'offerta aumenta dove i prezzi sono alti e fa scendere il prezzo, mentre cade e fa salire i prezzi dove questi sono bassi. Questo è il meccanismo che secondo i classici assicura la gravitazione, ossia il fatto che nessuna discrepanza può permanere a lungo.Ma le cose non sono così semplici. Anche qui la macroanalisi riserva sorprese, a causa del fatto che le industrie non soltanto producono e offrono un prodotto, ma, anche, domandano prodotti come mezzi di produzione. È vero che l'afflusso di capitale in un settore causa una caduta del prezzo di quel prodotto, ma cosa accade ai prezzi dei prodotti che vengono usati come mezzi di produzione per quel settore?
Supponiamo che nel settore A vi sia un saggio del profitto più alto della media e nel settore B più basso. I capitali si spostano da B ad A. Supponiamo che sia A che B adoperino acciaio come mezzo di produzione, che questo sia prodotto in C, e che il settore A ne adoperi per unità di capitale molto meno del settore B. L'afflusso di capitale da B ad A fa cadere la domanda di acciaio e quindi, inizialmente, fa cadere anche il prezzo dell'acciaio. Come conseguenza, il costo di produzione in A diminuisce. Si hanno quindi due tendenze contrapposte: l'aumento dell'offerta in A fa cadere il prezzo e il saggio del profitto; però la caduta del prezzo dell'acciaio fa cadere il costo e quindi fa aumentare il saggio del profitto (v. Boggio, 1990; v. Lippi, 1990).
Non possiamo trattare più a fondo questo problema. Basterà segnalarlo come un altro importante esempio di relazione non banale tra micro e macroanalisi. Ciò che a lungo è stato considerato pacifico, la gravitazione dei prezzi di mercato verso i prezzi di produzione, si rivela pacifico solo se si ignorano le complicazioni che vengono dal fatto che i prezzi sono anche costi. Questa consapevolezza appartiene agli ultimi decenni, non al secolo scorso, né agli economisti classici.
Nella seconda metà del secolo scorso fu elaborato il sistema teorico neoclassico. Abbiamo già parlato della differenza dall'economia politica classica nella teoria della produzione, e abbiamo anche accennato alla teoria neoclassica del consumo. Consideriamo ora le cose più dettagliatamente. La teoria classica vedeva il consumo come determinato fondamentalmente dalle abitudini: i beni di lusso per le classi abbienti, i beni di prima necessità per i lavoratori. La teoria neoclassica affronta la questione da un punto di vista più astratto e generale. Un consumatore, quale che sia la fonte del suo reddito, è dotato di un sistema di preferenze, o gusti, che si manifesta nel fatto che, date due combinazioni qualsiasi di beni, egli è in grado di stabilire quale preferisce. Se sono dati il suo reddito e i prezzi dei beni, il consumatore sceglie la combinazione dei beni che lo soddisfa di più, compatibilmente con il fatto che il valore complessivo dei beni acquistati non può eccedere il suo reddito. Come si dice nel linguaggio della teoria, il consumatore massimizza la sua utilità sotto il vincolo di bilancio. Dunque, dato il reddito e i prezzi (e dati i gusti), la teoria neoclassica stabilisce quanto il consumatore desidera acquistare di ciascun bene.
Rispetto a quella classica, si tratta di una teoria molto più complessa, per la quale è possibile una formulazione matematica: possono essere stabiliti assiomi e dimostrati teoremi. Una domanda importante è la seguente: cosa prevede la teoria se uno dei prezzi aumenta mentre tutti gli altri prezzi e il reddito restano uguali? Ci aspettiamo che la domanda del bene il cui prezzo è aumentato diminuisca, e comunque che non aumenti. E in effetti la risposta della teoria è questa, salvo eccezioni che possono essere considerate di poco rilievo. Dunque, se si escludono tali eccezioni, la teoria risponde in modo soddisfacente: il comportamento della domanda è tale da assicurare stabilità ai mercati. Infatti, se il prezzo è troppo basso, la domanda è alta, se è alto, la domanda è bassa.
Di nuovo però questa risposta non regge se dalla analisi di un singolo consumatore passiamo all'analisi di tutti i consumatori contemporaneamente. Infatti, la conclusione che la domanda dipende inversamente dal prezzo viene raggiunta nella teoria supponendo che siano dati tutti gli altri prezzi e il reddito del consumatore. Se vogliamo analizzare il comportamento di un singolo mercato questo può essere legittimo. In altri termini, se partiamo da una situazione di equilibrio in tutti i mercati e supponiamo che uno solo di essi venga leggermente perturbato, possiamo pensare che gli altri mercati e i redditi non ne risentano. Ad esempio, tutti i mercati sono in equilibrio eccetto il mercato dell'insalata, per la quale si è verificata una produzione molto bassa per cause meteorologiche. Il prezzo dell'insalata deve crescere e supponiamo che ciò accada, ma non in misura tale da compensare la diminuita quantità, cosicché il reddito dei produttori di insalata diminuisce. Si dirà che in tal caso l'ipotesi di reddito dato per i consumatori non regge. Ma poiché i produttori di insalata sono una parte trascurabile dei consumatori, possiamo fare astrazione dal fatto che il loro reddito è calato, sia per quel che riguarda il mercato dell'insalata, sia per quel che riguarda gli altri mercati.
Questo giustifica le analisi cosiddette parziali. Ma se la questione riguarda il modo in cui si arriva all'equilibrio generale, ossia all'equilibrio simultaneo di tutti i mercati, partendo dallo squilibrio di tutti i mercati, allora bisogna tener conto del fatto che tutti i prezzi cambiano, e quindi che anche tutti i redditi cambiano, e l'analisi che abbiamo esposto a grandi linee non è più valida. E in effetti gli studi dedicati a questo problema, come quelli dedicati ai prezzi di produzione nei classici, non arrivano a conclusioni positive (v. Hildenbrandt e Kirman, 1988).
La microanalisi studia gli agenti, fondamentalmente le imprese e le famiglie, isolatamente l'uno dall'altro. La macroanalisi studia il comportamento del sistema quando gli agenti vengono considerati contemporaneamente e quindi quando vengono prese in considerazione le interazioni tra le grandezze che riguardano gli individui. A lungo l'economia politica ha trattato le grandezze macro come se i comportamenti micro potessero essere, per così dire, sommati. A partire dagli anni trenta è stata acquisita la consapevolezza che ciò non è possibile. Ciò ha aiutato a comprendere gravi questioni di politica economica, prima fra tutte la disoccupazione, e a chiarire importanti questioni teoriche come l'esistenza di una funzione di produzione aggregata e la convergenza verso le posizioni di equilibrio. (V. anche Consumi; Economia; Equilibrio economico; Investimenti; Prezzi; Profitto; Reddito; Salari e stipendi).
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di Nicolò Addario
1. Introduzione
Da un punto di vista letterale macro e microanalisi significano niente altro che analisi di ciò che è grande e di ciò che è piccolo. Grande e piccolo sono però chiaramente termini relativi, e in ogni caso un tale riferimento alla scala dell'oggetto d'analisi non sarebbe di per sé sufficiente a giustificare né la presenza né tanto meno la rilevanza di questi lemmi nel vocabolario delle scienze sociali. E in effetti la loro rilevanza consiste nel fatto che essi rinviano alla differenza tra metodo olista e metodo riduzionista. Anche se in pratica la microanalisi si occupa di oggetti più piccoli (ad esempio, l'imprenditore in economia o l'azione individuale in sociologia) di quelli della macroanalisi (il reddito nazionale oppure la struttura delle disuguaglianze sociali), la vera differenza è appunto di metodo. Così, mentre la prima procede tramite una scomposizione dell'oggetto in unità elementari componenti (e dunque micro) e utilizza una rappresentazione delle relazioni tra tali unità come spiegazione dell'oggetto stesso, la seconda mira a rappresentare le proprietà d'insieme dell'oggetto, eventualmente rinviando la spiegazione di tali proprietà e della loro variazione alla forza causale di altri fattori esterni, cioè di variabili che stanno sullo stesso livello analitico del fenomeno da spiegare (in altri termini, qui le variabili esplicative o indipendenti non sono elementi costitutivi dell'oggetto, ma 'forze' a esso esterne). Un esempio di microanalisi è, in sociologia, il tentativo di spiegare la natura e la dinamica delle istituzioni (dalla famiglia al diritto e allo Stato) nei termini dei caratteri degli attori individuali, intesi come loro componenti di base. Da un punto di vista macro, invece, queste stesse istituzioni vengono spiegate nei termini di processi sociali esterni (e dello stesso livello analitico) come movimenti collettivi, rivoluzioni, crisi economiche, trasformazioni tecnologiche e così via.
2. Programmi di ricerca macro e micro
Questa differenziazione tra macro e microanalisi nelle scienze sociali ha dunque assunto un rilievo particolare, soprattutto in sociologia, perché ha dato luogo a due programmi di ricerca o paradigmi scientifici profondamente diversi e addirittura opposti. Ci riferiamo al programma di microfondazione del macro (la società e le sue istituzioni) da un lato, e alla prospettiva di una macroscienza del sociale che o è indifferente ai comportamenti individuali, o considera l'agire dei soggetti come conseguenza più o meno meccanica delle macrostrutture. Microsociologia e macrosociologia si sono così sviluppate in maniera separata e a volte contrapposta. Con riferimento ai loro presupposti, questi programmi sono rispettivamente definiti 'individualismo metodologico' e 'collettivismo metodologico' (od olismo). Per le ragioni che diremo, ambedue presentano diversi punti critici, tra i quali il più importante è certamente la cosiddetta frattura micro-macro.Tuttavia, e indipendentemente da queste difficoltà, nella pratica della ricerca teorica ed empirica queste due opposte prospettive hanno dato luogo a un grandissimo numero di lavori a carattere più 'locale' nei più disparati settori del pensiero sociale. Sebbene, infatti, i tentativi di pervenire a teorie generali perfettamente integrate e capaci di rendere conto dei principali fenomeni sociali empirici abbiano incontrato i limiti cui s'è accennato, ciò non ha affatto impedito ai ricercatori di applicare tali paradigmi per sviluppare teorie meno ambiziose da utilizzare per l'analisi di ambiti sociali più delimitati, come l'impresa, il consumo o i beni pubblici in economia, oppure come le élites politiche, i movimenti collettivi o le organizzazioni complesse in sociologia. Il risultato di tutto ciò è stato lo sviluppo, in genere poco coerente e alquanto frastagliato, di una grande varietà di teorie parziali e il proliferare piuttosto disordinato di una vasta messe di conoscenze empiriche sovente non cumulabili tra loro.
3. Il riduzionismo in sociologia
Il riduzionismo è il procedimento tipico delle scienze naturali e, come si è osservato in precedenza, consiste nella scomposizione dell'oggetto in elementi di base e nella successiva individuazione di un sistema di relazioni tra tali elementi che sia capace di spiegare l'oggetto in questione. Così, ad esempio, le proprietà dei corpi fisici (dagli oggetti del mondo di cui abbiamo esperienza sino alle stelle e alle galassie più lontane) possono essere spiegate in termini di leggi relative alle particelle elementari della materia e alle loro relazioni. In generale il riduzionista sosterrà che l'intero (o il tutto) è spiegato completamente dalla struttura delle sue parti. Esistono diverse varianti del riduzionismo (v. Nagel, 1961), ma per i nostri fini possiamo limitarci a considerare quella variante che prende seriamente in considerazione il fenomeno degli effetti o proprietà 'emergenti', che solitamente viene utilizzato dagli olisti come argomento antiriduzionista, e che ad ogni modo rappresenta un caso di grandissima importanza per le scienze sociali.Nell'ambito delle scienze sociali il riduzionismo è stato spesso confuso con l'individualismo metodologico. Ma se quest'ultimo implica necessariamente una qualche forma di riduzione, non è necessariamente vero il contrario. Ciò che caratterizza veramente l'individualismo metodologico è, almeno per quanto riguarda quelle sue varianti che hanno particolarmente influenzato la sociologia, la tesi ontologica secondo la quale ogni fenomeno sociale deve essere spiegato nei termini di moventi e azioni di individui (v. Brodbeck, 1968; v. O'Neill, 1973). La riduzione in questo caso consiste perciò nel considerare gli individui, di cui si postulano certe proprietà psicologiche, come unità esplicative delle istituzioni, della cultura, dei fenomeni collettivi, del mutamento sociale, ecc. Sul piano del metodo dobbiamo allora chiederci: quali condizioni si devono dare perché, nelle scienze sociali, una spiegazione realmente riduzionista sia possibile e almeno sufficiente (e forse anche necessaria)?
Dobbiamo innanzitutto distinguere tra due forme di riduzione, una teoretica e una empirica. Generalmente si dice che si ha riduzione teoretica se (e solo se) le proposizioni teoriche della sociologia (T₂) sono completamente deducibili dalle proposizioni teoriche della psicologia (T₁), relative cioè a proprietà (psicologiche) di individui. Se una tale dimostrazione avesse successo si potrebbe affermare che la sociologia e le sue proposizioni osservative sono state ridotte a, e quindi spiegate da, proposizioni teoriche psicologiche. Un tale tipo di riduzione risulta però estremamente difficile. Anche nelle scienze naturali è abbastanza raro, mentre è più frequente in logica e matematica. Secondo Thomas Kuhn succede per lo più che proposizioni osservative spiegate da una teoria, ad esempio la meccanica newtoniana, siano in seguito spiegate da teorie più generali, come la teoria della relatività generale di Einstein. Infatti, la teoria fisica di Newton non è riducibile alla teoria fisica di Einstein perché, alle condizioni di questa, variabili come tempo, massa e posizione nello spazio, pur essendo presenti con lo stesso nome nei due apparati teorici, hanno però significati diversi (v. Kuhn, 1962, pp. 98-102). Ma se, dato il loro assai basso grado di assiomatizzazione, le scienze sociali non contemplano casi di riduzioni teoretiche, potrebbero invece prevedere casi di riducibilità empirica. Potrebbe cioè essere possibile che, come in fisica o in chimica, un certo numero di importanti proposizioni osservative della sociologia o dell'antropologia o dell'economia fossero riconducibili a proposizioni teoriche della psicologia.
Anche in questo caso, tuttavia, dovrebbero essere osservate le seguenti condizioni: 1) i concetti della teoria di riduzione (T₁) non devono contenere termini della teoria da ridurre (T₂); 2) ogni proposizione osservativa spiegata da T₂ è spiegata anche da T₁; 3) T₁ è sistematica (cioè completa e chiusa come spiegheremo tra poco) almeno tanto quanto lo è T₂ (v. Nagel, 1961; v. Kemeny e Oppenheim, 1970). Si tratta indubbiamente di condizioni assai meno restrittive di quelle previste dalla riducibilità teoretica, visto che qui non è richiesta la deducibilità di una teoria dall'altra. Ma ciò nonostante la riducibilità delle scienze della società alla psicologia resta qualcosa di assai problematico e forse, come vedremo, persino impossibile. E questo perché le tre condizioni di cui sopra pongono problemi che sono risultati insolubili.
La prima condizione è assolutamente fondamentale perché decide della coerenza logica e semantica della teoria riduzionista rispetto ai suoi stessi presupposti. Così, una teoria psicologica deve avere tra i suoi explanans soltanto termini psicologici o comunque individuali. Soprattutto devono essere termini psicologici 'puri', ovvero riguardanti proprietà o processi psichici la cui natura e origine non siano in alcun modo imputabili a circostanze sociali. Ma a quanto pare le teorie psicologiche contemporanee, a meno che non facciano ricorso esclusivamente a presupposti neurofisiologici (ma in tal caso ci troviamo di fronte a una ulteriore e più 'profonda' riduzione), hanno sviluppato i loro concetti e le loro proposizioni fondamentali entro un quadro di riferimento in cui la psiche (o la mente) è qualcosa che si forma ed evolve nell'ambito di un processo d'interazione tra un sistema biologico particolare (l'organismo umano, con i suoi tratti genotipici, fenotipici ed epigenetici) e uno specifico contesto sociale. Basti pensare alla teoria freudiana o alla moderna psicologia dell'Io, secondo le quali le categorie stesse del pensiero individuale sono il prodotto dell'interazione tra certe proprietà dell'organismo umano e i caratteri socioculturali dell'ambiente in cui si realizza lo sviluppo ontogenetico della persona. A posizioni analoghe è pervenuta, per vie diverse, l'antropologia culturale a partire dal famoso studio di Durkheim sulle Forme elementari della vita religiosa (v. Douglas, 1986).
Ma anche le due restanti condizioni di riducibilità presentano gravi difficoltà. La seconda, come si ricorderà, richiede che, affinché una teoria psicologica possa spiegare ogni proposizione osservativa della sociologia, si disponga di campi teorici psicologici e sociologici ben definiti e logicamente coerenti. Ma, come è noto, ambedue i campi sono attualmente caratterizzati da un notevole pluralismo teorico. In nessun settore delle scienze sociali (forse con una parziale eccezione per l'economia) troviamo teorie che costituiscano insiemi altamente coerenti di proposizioni empiricamente validate. Questo significa che non disponiamo di un criterio certo per scegliere, tra le varie teorie concorrenti, quella da sottoporre a riduzione. Anche volendo accontentarci, in nome di un certo realismo, di una coerenza e di una validazione empirica approssimative, dovremmo poi fare i conti con un'altra implicazione di questa seconda condizione di riducibilità. Ci riferiamo al fatto che la possibilità di spiegare con proposizioni psicologiche proposizioni osservative sociologiche dipende da una interpretazione psicologica dei termini osservativi sociologici. In altre parole occorrerebbe poter disporre di un 'manuale di traduzione' dei termini osservativi sociologici (carichi di teoria sociologica) nei termini della teoria psicologica T₁. Qui sorgono quei ben noti problemi di intraducibilità tra teorie su cui ha riflettuto l'epistemologia contemporanea e che sono riassumibili nell'argomento secondo cui sono possibili infiniti manuali di traduzione tutti altrettanto buoni perché, a causa della irriducibilità ontologica della teoria da tradurre (nel nostro caso la sociologia), non disporremmo di un criterio unico per decidere quale sarebbe la traduzione migliore (v. Quine, 1969). Potremmo comunque accontentarci almeno di un accordo convenzionale tra psicologi. Ma esiste un tale accordo per tradurre in termini psicologici termini sociologici come 'struttura di status', 'relazioni di potere' e simili? Non sembra, almeno allo stato attuale delle cose.
Analogamente, non è difficile dimostrare che anche le condizioni di chiusura e di completezza non sono rispettate, dove per chiusura si intende che la teoria contiene tutte le variabili rilevanti e almeno sufficienti, e per completezza che tutte le relazioni tra le variabili sono state specificate e che dunque non si danno né predizioni indeterminate né anomalie inspiegabili (v. Webster, 1973; v. Lukes, 1977; v. Addario, 1994-1995).
Una delle teorie riduzioniste certamente più famose in sociologia è la teoria dello scambio di George Homans, che può essere assimilata alla moderna e sofisticata teoria della scelta razionale. Homans si propone esplicitamente il compito di dare un fondamento psicologico alla sociologia e, significativamente, definisce questo suo tentativo come un approccio comportamentista. Egli intende infatti studiare i caratteri del comportamento sociale 'elementare', ossia di quel comportamento manifesto che sta alla base dei diversi ruoli e istituzioni culturali e che, in quanto tale, è "comune a tutto il genere umano" (v. Homans, 1961, p. 7). La sua strategia intellettuale poggia su due presupposti: il primo è che il comportamento elementare sia spiegabile semplicemente tramite la ricerca di regolarità nella relazione tra stimolo e risposta, senza riferimento alcuno a processi mentali o coscienziali osservabili (da qui il suo comportamentismo); il secondo è che questa relazione tra stimolo e risposta debba essere colta nei termini dell'economia utilitarista, secondo cui un comportamento (economico) è una funzione del suo pay-off (ovvero del saldo netto tra costi e ricompense). Per questo la relazione sociale elementare altro non è, per Homans, che un'attività di scambio in senso lato. Entro tale quadro, egli mira a definire un insieme di proposizioni empiriche (esplicative dei comportamenti elementari) deducendolo da un sistema di proposizioni più generali (che rappresentano più dei postulati che una vera e propria teoria), prodotto per mezzo di una generalizzazione (induzione) di regolarità riscontrate nell'osservazione diretta di comportamenti effettivi.
Questo sistema di proposizioni generali è costituito da alcuni principî di base del comportamento umano che possiamo così sintetizzare: a) un postulato di razionalità, il quale afferma che gli attori agiscono scegliendo quel comportamento che, in ragione dei mezzi di cui dispongono e dei vincoli posti dalla situazione, massimizza le loro funzioni di utilità; b) un insieme di regole di composizione che, in accordo col postulato di razionalità, stabilisce come un attore interagisce con altri attori (v. Homans, 1961, pp. 30-82). Homans elabora poi una certa quantità di teoremi empirici sulla formazione dei gruppi, sul conformismo, sul conflitto, sul potere e così via, ma in realtà non si tratta affatto di una vera e propria deduzione dai postulati iniziali, il che avrebbe richiesto la manipolazione di tali assunti tramite le regole della logica formale. Homans si limita a indicare che questo o quel teorema, che è sempre una generalizzazione empirica, è sussunto sotto uno dei postulati. Egli insomma non dimostra mai le connessioni logiche tra i postulati iniziali e le proposizioni empiriche che sono candidate come teoremi e non mostra, perciò, la consistenza logica del suo modello. Altri, dopo di lui, hanno provato che tale consistenza logica esiste, ma a patto di introdurre forti restrizioni che fanno dubitare della validità sociologica del modello di Homans (v. Maris, 1970).
Il punto qui in discussione è però un altro. Si tratta infatti di valutare se i postulati di base rispondano oppure no ai requisiti posti dalle condizioni di riducibilità discusse sopra. Tralasciamo di considerare in dettaglio se i teoremi di Homans rappresentino vere proposizioni osservative della sociologia. Si può però ricordare che essi riguardano prevalentemente i piccoli gruppi e che perciò trascurano gran parte degli asserti relativi a macrostrutture, come le organizzazioni, lo Stato, la struttura delle disuguaglianze, la divisione sociale del lavoro, il mutamento sociale. D'altra parte, asserti osservativi relativi a tali macrofenomeni si ritrovano in una grande varietà di teorie tra loro diverse. Con quali significati dei termini sociologici dei teoremi di Homans dovrebbero confrontarsi i postulati di base - e gli eventuali teoremi intermedi? Rispetto a quale teoria bisogna costruire il 'manuale di traduzione' per interpretare i termini sociologici presenti nelle proposizioni osservative alla luce dei postulati psicologici di Homans? Si noti che la risposta a queste domande è necessaria se vogliamo essere certi che i significati dei termini sociologici dei teoremi di Homans siano gli stessi delle proposizioni osservative delle teorie sociologiche. È infatti difficile che nelle scienze sociali esistano proposizioni osservative non banali che non siano 'intrise' di teoria. Questa osservazione mette peraltro in dubbio che tale modello sia in grado di rispettare la terza condizione di riducibilità. Se molti aspetti della realtà sociale restano infatti fuori dalla capacità esplicativa della teoria psicologica, sembrano venir meno le ragioni per un tale procedimento riduzionista, almeno nel senso di una microfondazione delle macrostrutture.
Obiezioni particolarmente cruciali sorgono soprattutto quando consideriamo la prima condizione di riducibilità, la quale impone che T₁ non abbia termini che compaiano anche nel vocabolario di T₂. A prima vista questo vincolo logico-semantico sembrerebbe rispettato. Il principio di razionalità non si limita però ad affermare che gli individui sono razionali e mossi dalla ricerca del piacere o del vantaggio personale. Anche volendo accettare una definizione così limitata della persona umana, non possiamo non notare che la razionalità acquista un significato preciso e operativo in quanto si applica a una 'situazione'. Qual è il significato di questo termine? Non è certo un termine psicologico, ma non è neppure, per così dire, neutrale, in quanto compare anche nel linguaggio sociologico. Esso potrebbe significare semplicemente un insieme di condizioni naturali, come nei primi utilitaristi ed economisti positivisti. Homans però chiarisce che l'attore valuta la situazione per calcolare possibilità e probabilità di successo tra diverse alternative e che queste dipendono: a) da azioni e reazioni di altri individui (almeno quelli con cui si vuole interagire direttamente); b) da condizioni rappresentate dai mezzi di cui l'attore dispone; c) forse anche da condizioni naturali (biologiche e ambientali).
La 'situazione' comprende dunque il contesto sociale, quanto meno quello relativo all'ambiente d'interazione specifico. Si noti che il fatto che la situazione abbia una connotazione sociale non dipende dalla mera presenza di altri attori con i quali Ego vuole entrare in relazione. Nello stato di natura di Hobbes gli attori sono individui isolati che hanno l'interesse (potenziale) a stabilire rapporti tra di loro, eppure la situazione è presociale (non v'è ancora l'ordine sociale). Ciò che definisce la situazione nel senso di Homans (e dei teorici della scelta razionale) come sociale è la circostanza per cui l'individuo può fare calcoli ragionevoli di successo, ovvero il fatto che abbia aspettative sufficientemente stabili e appunto ragionevoli su cosa potrebbero fare gli altri in relazione a una sua scelta. Su questa base egli può così decidere un corso d'azione la cui razionalità dipende anche dal fatto che il calcolo di massimizzazione delle sue preferenze include il coordinamento tra le sue aspettative e quelle degli altri.
Ma questo implica necessariamente che una mia preferenza soggettiva può essere soddisfatta soltanto se compio un'azione che l'altro può valutare come mezzo valido, spesso indiretto, per soddisfare le sue preferenze soggettive. In tal caso è assai probabile che anche la mia azione sia solo un mezzo indiretto per soddisfare la mia utilità soggettiva (come ben si vede nei moderni rapporti di lavoro). In altre parole, nella situazione l'azione è condizionata dal fatto che da ambo le parti le aspettative sono reciproche e complementari perché Ego sa che i suoi fini dipendono dalle sanzioni (positive/negative) di Alter, e viceversa. Di conseguenza, persino nelle relazioni esclusivamente strumentali le aspettative reciproche devono essere tra loro integrate, affinché possano essere soddisfatte in modo stabile e relativamente certo. I fini individuali stessi sono dunque sociali, quali che siano i valori soggettivi a essi attribuiti, perché il loro ottenimento dipende dal fatto che le relative interazioni abbiano assicurato il coordinamento della reciprocità delle aspettative degli attori coinvolti. E questo è possibile soltanto se i fini si sono formati sulla base di criteri comuni, validati socialmente (v. Parsons, 1937). Ma questo significa che il postulato di razionalità di Homans viola la prima condizione di riducibilità. Analoghe considerazioni di non riducibilità possono essere fatte anche a proposito delle restanti condizioni. Tuttavia questo non vuol dire che un approccio di questo tipo sia totalmente da rifiutare, ma soltanto che deve essere rigettata la sua pretesa di rappresentare una microfondazione della sociologia.
4. Effetti emergenti, olismo e teoria dei sistemi
Il fenomeno degli effetti emergenti, che gli olisti hanno spesso utilizzato come argomento contro il riduzionismo, richiede qualche chiarimento. Esso rappresenta un effettivo problema per il riduzionismo forte in almeno due casi. Il primo riguarda l'analisi di fenomeni che sono il prodotto di processi di formazione particolarmente complessi e caratterizzati da dinamiche non lineari. Un interessante esempio storico, tra i molti che si potrebbero fare, è rappresentato da quell'insieme di eventi che ha condotto alla trasformazione del matrimonio da semplice istituzione civile, una forma di contratto garantito dalla Chiesa, a istituzione sociale sacramentale amministrata dalla Chiesa. L'analisi storica della formazione di tale istituzione rivela facilmente che si è trattato di un processo altamente intricato durato più di due secoli, in cui si sono intrecciati azioni individuali, conseguenze non volute di tali azioni, condizionamenti macrosociali e molteplici fattori contingenti. Non solo, perciò, si è avuta una interazione continua di fattori micro e di fattori macro, ma inoltre non è possibile trovare nessi significativi tra le intenzioni soggettive degli attori che dettero inizio al processo (i Padri del Concilio di Trento) e gli esiti finali di questo (v. Bossy, 1985).
In sistemi di questo tipo, le proprietà globali che emergono di volta in volta non dipendono soltanto dalle proprietà degli elementi, ma anche e principalmente dalle caratteristiche delle relazioni funzionali tra gli elementi. A causa della sua complessità e del ruolo assunto dalla contingenza, la dinamica di tali interdipendenze e quindi dei loro effetti emergenti è instabile, con molteplici punti di biforcazione dagli esiti imprevedibili. Dal punto di vista degli attori, l'agire individuale e collettivo si presenta carico di effetti inintenzionali e di conseguenze secondarie impreviste e spesso perverse. Da un punto di vista storico, in effetti, si può dire che modi di pensare e istituzioni sociali sono quasi sempre la stabilizzazione (l'istituzionalizzazione) di effetti emergenti di processi complessi e non lineari che hanno avuto una lunga gestazione (v. Boudon, 1979; v. Delattre, 1982; v. Zeleny, 1985).
Il secondo tipo di effetti emergenti è relativamente più semplice in quanto non riguarda i processi di formazione e istituzionalizzazione di macrofenomeni, ma piuttosto i sistemi già formati e funzionanti. In tal caso, se analizziamo una componente (ad esempio un sottosistema) considerando le sue relazioni d'interdipendenza con tutte le altre componenti, stiamo in realtà studiando gli effetti di retroazione del sistema globale su questa sua parte. Così, se si può dire che un certo settore economico condiziona in una qualche misura l'intera economia nazionale, si deve anche dire che l'intera economia condiziona a sua volta quel settore. E lo stesso discorso vale per l'economia nel suo insieme nei confronti della società globale, o per l'individuo nei confronti del gruppo. In generale, perciò, per effetto emergente si dovrebbe intendere la forma d'interdipendenza tra le parti di un sistema e i contemporanei effetti di retroazione di questo sulle componenti e le loro relazioni. Si dovrebbe così concludere che nella misura in cui una teoria possedesse - come in effetti accade - proposizioni osservative di questo tipo che fossero validate, una strategia scientifica riduzionista in senso forte sembrerebbe destinata all'insuccesso. Se, però, per riduzionismo si vuole soltanto intendere che un oggetto (un sistema) è spiegato quando siamo in grado di descriverne la struttura, allora non v'è contrasto né con certe forme di olismo né, tanto meno, con la moderna teoria dei sistemi.
Nell'uso corrente il termine 'sistema' spesso indica un macrofenomeno. Anche in molti classici della sociologia e dell'economia (si pensi a Marx, Walras, Pareto) il concetto di sistema è utilizzato per descrivere l'intera società o il complesso di un'economia nazionale. È probabile che quest'uso sia derivato da una importante tradizione filosofica che da Platone arriva sino a Hegel, alla filosofia vitalista e all'organicismo. Sono due le versioni principali di questa tradizione. La prima è quella che deriva una tesi epistemologica e metodologica di non riducibilità da un assunto ontologico sulla realtà del mondo, considerato come un'unica totalità interrelata. Per questa concezione l'unica conoscenza reale è quella della totalità e il suo metodo è quello della sintesi. Ma se tutto è connesso con tutto, la conoscenza, almeno in un senso scientifico e non metafisico (trascendente, religioso), risulterà di fatto impossibile perché essa coinciderebbe con la comprensione dell'intero universo. La seconda versione si limita a sostenere che v'è una importante classe di oggetti che non può essere spiegata nei termini del riduzionismo forte. Essa non rifiuta un riduzionismo debole, in quanto descrive il sistema nei termini della sua struttura e dei suoi processi interni (funzioni), ma sostiene che il tutto influenza la natura e/o il comportamento di almeno alcune delle sue parti (v. Phillips, 1976; v. Fodor e Lepore, 1992). È da questa versione che si è sviluppata la moderna teoria dei sistemi, ma in una prospettiva generalizzata, secondo la quale il concetto di sistema si applica a qualsiasi oggetto, piccolo o grande (ad esempio, il sistema della personalità e il sistema sociale). Un sistema può così avere come suoi sottosistemi componenti sia micro (l'individuo) sia macro (una istituzione). La teoria dei sistemi diviene così una strategia concettuale, metodologica ed epistemologica generale che supera la vecchia contrapposizione tra olismo filosofico e riduzionismo forte (v. Varela, 1979; v. Delattre, 1982; v. Bahm, 1983-1984).
Applicata alla teoria dell'azione questa prospettiva consente, ad esempio, di sciogliere l'aspetto paradossale di quei comportamenti razionali individuali, riscontrati nei più diversi ambiti sociali, che cumulandosi o interagendo tra loro danno luogo a effetti inintenzionali perversi o comunque controintuitivi. Che azioni individuali razionali possano dar luogo a effetti che le contraddicono diviene così una possibilità prevista dalla logica del sistema, dalla sua autonomia. Quando, per esempio, gli imprenditori aumentano la produzione al crescere dei prezzi, operano razionalmente, ma nessuno di essi può sapere quando, con il cumularsi di una molteplicità di decisioni individuali razionali, l'offerta supererà la domanda inducendo una caduta dei prezzi e un accumulo delle merci nei magazzini. Il sistema manifesta qui la sua autonomia e la sua capacità di condizionare i comportamenti delle sue parti: allo stesso modo in cui, inizialmente, la domanda ha indotto ad aumentare la produzione, ora essa indurrà a produrre meno finché si raggiungerà un nuovo punto di equilibrio, oltre il quale il ciclo riprenderà la sua corsa pendolare. Il fatto è che i singoli attori non sono in grado di sapere quale sarà lo stato globale del sistema nel tempo, né sono in grado, ciascuno preso singolarmente, di determinarne gli stati secondo volontà.
5. L'individualismo metodologico e la sociologia 'comprendente'
Dopo quanto abbiamo mostrato risulterà chiaro che, se l'individualismo metodologico è inteso come un programma di microfondazione della teoria sociale, allora dovrà far fronte a obiezioni logiche, ontologiche, metodologiche ed empiriche che allo stato attuale appaiono insuperabili. In tale prospettiva fondazionista l'individualismo metodologico è inteso come un postulato ontologico, il quale assume come un dato di fede che le proprietà della società debbano essere spiegate al livello degli individui (v. Webster, 1973). Ma nessuna autoevidenza giustifica un tale assunto. Alla classica domanda individualistica 'come è possibile la società?' si può infatti rispondere con un'altra domanda, altrettanto sensata e autoevidente, e cioè 'come è possibile la soggettività?'. Ci troviamo quindi di fronte a due punti di vista complementari, nessuno dei quali è in sé autonomo o ha i caratteri del fondamento.
Altra cosa è, naturalmente, se l'individualismo metodologico viene più semplicemente inteso come un invito a indagare il ruolo che gli individui svolgono nella dinamica delle strutture sociali, e, soprattutto, a chiarire la struttura fine dell'azione e dell'interazione sociale. In tale prospettiva, un contributo particolarmente rilevante è venuto dalla sociologia 'comprendente' o 'interpretativa'. La sua origine risale allo storicismo tedesco a cavallo tra Otto e Novecento, ma la sua introduzione come metodo in sociologia è dovuta a George Simmel, Max Weber e Alfred Schutz nonché, ma in modo autonomo e collegato essenzialmente al pragmatismo americano, a George Herbert Mead. In seguito si sono sviluppate diverse varianti come la sociologia fenomenologica, l'etnometodologia e l'interazionismo simbolico (v. Eisenstadt e Helle, Microsociological..., 1985; v. Turner, 1988). Pur molto diverse tra loro, esse si distinguono rispetto alle teorie razionali o positiviste dell'azione in due punti cruciali. Il primo riguarda il modo in cui viene intesa l'azione, il secondo la centralità assegnata all'interazione faccia-a-faccia, che viene concettualizzata in termini di 'processo interpretativo'. Tali teorie intendono l'azione come un processo teleologico, eminentemente mentale, che guida il comportamento sulla base, per usare le parole di Weber, di "motivi dotati di senso soggettivamente intenzionato".
In altri termini, i fini soggettivi sono tali in quanto gli attori attribuiscono a essi un particolare significato intenzionale. Di conseguenza l'osservatore non può spiegare l'azione osservata con il tradizionale metodo dell'imputazione causale se non dopo aver 'compreso' il suo specifico significato soggettivo. Almeno rispetto a Weber, è un problema ancora aperto che cosa si debba intendere per 'comprensione'. Nelle teorie contemporanee prevale l'idea che comprendere significhi interpretare, nel senso dell'interpretazione dei testi dell'ermeneutica e dell'interpretazione delle culture dell'antropologia (v. Geertz, 1973). Interpretare significa, cioè, ricostruire il significato di un testo, di un motivo, di un rito attraverso l'apprendimento della tradizione culturale di cui essi (e i loro protagonisti) sono parte. Interpretare significa insomma assumere il punto di vista dell'oggetto dell'analisi, appropriarsi dell'universo di senso che orienta l'azione degli attori studiati.
Data questa premessa, è chiaro il motivo per cui l'interazione stessa deve essere osservata come un processo eminentemente interpretativo e simbolico. Anche gli attori sono osservatori e, nell'interazione, hanno il problema di interpretare la situazione: così la questione della interconnessione di una pluralità di azioni individuali non è più soltanto, come negli schemi positivisti, un problema di collegamento funzionale tra eventi materiali diversi, ma anche un problema di formazione di universi semantici (simbolici) condivisi. La spiegazione dell'interazione diviene così un processo di imputazione di motivi (nel senso visto) e di circostanze agli attori-in-situazione, tale da rendere la situazione stessa intelligibile all'osservatore (v. Wilson, 1970). La sociologia interpretativa sottolinea la sua distanza dalla teoria dell'azione normativa (il funzionalismo di Parsons), che pure concepisce l'azione e l'interazione in termini di comportamento dotato di senso soggettivo, chiarendo che il processo interpretativo è problematico, non dato in modo oggettivo, e che perciò in esso gli attori svolgono un ruolo attivo e creativo. Così, la situazione interpretata è sempre in una qualche misura un costrutto sociale mai completamente oggettivato, e il cui significato è, per lo stesso osservatore che lo descrive, essenzialmente indessicale, dipendente cioè dal particolare contesto che l'ha costituita. Su questa base, sovente la sociologia interpretativa avanza la pretesa (che riteniamo controversa) di possedere una specificità metodologica che la distingue dal sapere nomologico-deduttivo, il quale non sarebbe adeguato a cogliere il carattere interpretativo dell'interazione sociale (v. Wilson, 1970; v. Addario, Il problema..., 1994).
Questo approccio si richiama all'individualismo metodologico, ma nega di essere riduzionista. Questo per due ragioni. La prima è che il suo oggetto di base non è l'individuo ma l'interazione faccia-a-faccia; la seconda è che esso assume che gli attori condividano uno sfondo di conoscenze comuni. Si tratta perciò di un approccio micro perché comunque intende spiegare l'ordine sociale come effetto di composizione di una moltitudine d'interazioni, ma che non adotta un riduzionismo psicologico. È difficile, tuttavia, evitare l'impressione che sia all'opera un riduzionismo della microinterazione. È vero che il riferimento a norme, credenze e valori condivisi sembrerebbe indicare che ci troviamo di fronte a un approccio in cui micro e macro sono copresenti e interagiscono. Ma è pur vero che l'accento posto sull'interazione e sul carattere indessicale e creativo del suo significato finisce con il privare di cogenza reale tale assunzione. Soprattutto perché, di fronte al carattere sempre creativo e comunque costruito delle interazioni, la cultura condivisa appare come qualcosa di labile, evanescente, persino ineffettuale. Questo contraddice un grandissimo numero di proposizioni osservative della macrosociologia. Che cosa spiega questo approccio della struttura di disuguaglianze di una nazione? Ben poco, perché da un lato trascura gli aspetti materiali dell'agire e, dall'altro lato, non è riuscito (ma la ricerca prosegue) a mostrare in che modo una molteplicità di interazioni simboliche discrete dia vita a un ordine sociale, il quale in ogni caso sarebbe un effetto emergente. Se il significato è qualcosa che emerge da un processo che, per usare i termini della sociologia comprendente, genera dei sistemi normativi come conseguenze inintenzionali di azioni intenzionali (già, peraltro, inizialmente condizionate da fattori socioculturali), in che senso si può ancora continuare a sostenere, in termini non auto-contraddittori, che la società è causata dalle microinterazioni? Quanto meno si è costretti ad ammettere che le microinterazioni da sole non sono affatto in grado di spiegare le strutture sociali (v. Turner, 1988). Così, anche questo approccio, sebbene dia un importante contributo alla teoria e all'analisi dell'azione e dell'interazione, rappresenta un capitolo di quella questione che va sotto il titolo di dualismo micro-macro.
Di fatto una parte molto rilevante della sociologia è stata sin dalle origini aliena da tentativi di microfondazione e ha proceduto in via macroanalitica. L'oggetto di questa sociologia è costituito da fenomeni come le rivoluzioni, i comportamenti collettivi, lo Stato, la cultura, le disuguaglianze sociali, le regole matrimoniali e persino la società intera. Rispetto alla microsociologia, la cui più grande unità d'analisi è l'interazione faccia-a-faccia, si può dunque legittimamente parlare di macrosociologia (v. Eisenstadt e Helle, Macrosociological..., 1985). In certi suoi approcci, che seguono un orientamento di tipo storico, essa si limita a individuare delle connessioni causali tra uno o più macrofenomeni indicati come fattori causanti di una certa istituzione o fenomeno sociale, come quando si sostiene che un certo movimento sociale è la risposta alla domanda sociale inevasa di un qualche gruppo i cui interessi e/o ideali non sono ancora stati istituzionalizzati. Non sempre in questi approcci lo schema causale è desunto da una vera e propria teoria ben esplicitata. Nei casi in cui lo sia, si tratta generalmente di teorie non generalizzanti. In altri approcci, invece, si adotta una forma particolare di riduzione che si potrebbe definire strutturale. Qui potremmo distinguere due modalità principali. La prima, che potremmo chiamare strutturalismo e che va dalla teoria strutturale di Peter Blau a certe versioni della 'teoria delle reti' (v. Blau, 1987; v. Burt, 1982), è interessata a mostrare la struttura di un dato fenomeno e spiega le proprietà degli elementi che lo compongono in base alle proprietà di tale struttura e ai processi a essa relativi. L'azione di tali elementi è così una mera conseguenza di queste proprietà configurate strutturalmente.
Roland Burt, ad esempio, mostra come gli individui che fanno parte di una rete di relazioni sociali siano caratterizzati da comportamenti e atteggiamenti spiegabili in termini di equivalenza strutturale. Così, individui che occupano posizioni analoghe nella struttura complessiva delle relazioni manifestano proprietà e comportamenti analoghi anche se non hanno rapporti diretti tra loro. Ciò perché, attraverso l'esposizione a una cultura comune, gli individui che occupano posizioni strutturalmente simili acquisiscono uno stesso 'altro generalizzato', che plasma le loro motivazioni e i loro atteggiamenti in modo analogo e corrispondente al modello comportamentale tipico di quella data posizione sociale (v. Burt, 1982).
La seconda forma di riduzione strutturale è tipica dell'approccio sistemico. In questo caso abbiamo uno schema concettuale basato sulla coppia sistema/ambiente (esterno) da un lato, e sulla coppia sistema/struttura (interna) dall'altro lato. Talcott Parsons, ad esempio, analizza la società nei termini di una teoria del sistema sociale. Questo è un particolare tipo di sistema - caratterizzato dalla produzione di norme orientate a un agire socialmente integrato - che mantiene i suoi confini se è in grado di affrontare le pressioni ambientali tramite la soluzione (strutturale) di quattro problemi funzionali di base: adattamento, perseguimento degli scopi, integrazione, mantenimento della struttura latente. Nella misura in cui un dato sistema sociale è in grado di far ciò, la sua struttura evolve differenziandosi in sottosistemi sempre più specializzati. La società moderna sarebbe così caratterizzata da una struttura formata da un sottosistema economico (adattamento), da un sottosistema politico (perseguimento degli scopi), da un sottosistema societario (integrazione), da un sottosistema fiduciario (mantenimento della struttura latente). Una tale struttura è concettualizzata come la modalità evolutiva, più o meno contingente, con cui le società moderne riescono a sopravvivere dovendo a un tempo affrontare pressioni selettive ambientali e pressioni e tensioni interne autoindotte (sviluppo sociale) (v. Parsons, 1977; v. Van Parijs, 1981).
L'obiezione principale sollevata nei confronti della macrosociologia è che essa implica una concezione inaccettabile dell'azione umana, considerata o irrilevante nelle vicende sociali e storiche, oppure una pura conseguenza meccanica di norme e vincoli macrostrutturali (e quindi non di un vero agire si tratterebbe). Non sempre, però, si tiene conto del fatto che tale critica ha una doppia dimensione: una ontologica, l'altra teoretica. Sul piano ontologico si tratta di vedere se le teorie macro hanno oppure no l'azione come loro oggetto. Nel caso, piuttosto diffuso, che esse non si interessino all'azione, la critica appare irrilevante dal punto di vista teoretico. Studiare ad esempio gli apparati burocratici soltanto in termini di autorità, divisione del lavoro e sistemi di norme è certamente legittimo. Naturalmente si potrebbe dire che teorie di questo tipo, che non tengono in conto l'agire umano, sono poco significative o comunque incomplete. Ma ciò coglie solo il piano ontologico dei presupposti o degli assunti di base, e questo si rivela spesso insufficiente a indurre i seguaci di tali teorie ad abbandonarle (esattamente come accade quando la teoria della scelta razionale viene criticata perché postula un modello di attore che gran parte della psicologia contemporanea giudicherebbe quantomeno riduttivo, se non addirittura immaginario). Questa critica coglie invece nel segno per quanto riguarda tutte quelle teorie in cui l'agire è, magari implicitamente, parte della descrizione e della spiegazione, come, ad esempio, nella teoria marxista della rivoluzione. Il problema è del tutto evidente in tutte le teorie dell'azione collettiva di orientamento non individualista. Dato il ruolo assegnato alle macrostrutture e ai processi storici impersonali, come spiegare il formarsi di un'azione collettiva 'creatrice'? Come collegare iniziativa individuale e azione collettiva senza ridurre la prima, sempre e necessariamente, a mero conformismo? In questo caso la critica si focalizza sul modo di concepire l'attore e l'azione.
Nell'attuale panorama delle scienze sociali è diventato quasi un luogo comune constatare che, se da un lato i programmi di ricerca micro non hanno saputo fondare macroteorie soddisfacenti e soprattutto coerenti con i loro presupposti, dall'altro lato i programmi di ricerca macro non sono stati in grado di rendere conto di quei comportamenti dell'attore che risultano 'creativi' e/o 'devianti'. Semplificando alquanto si potrebbe dire che, mentre i primi hanno fallito come teorie dell'ordine sociale, i secondi hanno fallito come teorie dell'azione sociale. Per questo si è anche parlato spesso di 'dualismo micro-macro' o di 'dualismo azione-struttura' (v. Knorr-Cetina e Cicourel, 1981; v. Alexander e Giesen, 1987; v. Bovone e Rovati, 1988; v. Addario, Il problema..., 1994). Oggi diviene sempre più chiaro che tale dualismo non è qualcosa di ineluttabile e che, dunque, il suo superamento non è certo un obiettivo irraggiungibile in un futuro prossimo. Sappiamo infatti che esso è la conseguenza di programmi di ricerca dualistici, fondati su dicotomie ontologiche come individuo-società, natura-cultura, materia-spirito, su loro combinazioni e su ulteriori dualismi epistemologici, tutti profondamente radicati nel pensiero occidentale e nelle sue più importanti manifestazioni ideologiche e persino politiche (si pensi al liberalismo e al marxismo). Lo stallo presente può essere superato solo eliminandone i presupposti, che vanno ricercati in quel complesso di orientamenti categoriali che determina la configurazione del modello analitico vero e proprio. Qui ben si vede come una tale questione, eminentemente epistemologica e metodologica, non possa più essere un compito lasciato in delega alla filosofia, ma debba al contrario essere considerata uno dei momenti centrali della costruzione (autoriflessiva) del sapere teoretico delle scienze sociali. In breve, occorrerebbe elaborare schemi di riferimento generali non dualistici. Indicazioni in tal senso non mancano nei classici (Marx, Durkheim, Weber, Simmel) e, soprattutto, nell'opera di Talcott Parsons, in cui troviamo un modello non dualistico del nesso tra ordine e azione proprio al livello del quadro di riferimento categoriale (v. Alexander e Giesen, 1987; v. Addario, Da Parsons..., 1994).
Oggi diversi autori stanno affrontando questo compito da prospettive diverse e con esiti più o meno incoraggianti (v. Alexander e Giesen, 1987; v. Addario, Il problema..., 1994). Ma, come s'è appena accennato, il primo e forse non ancora superato esempio di teoria non dualistica si trova in Parsons. È noto che si tratta di una teoria piuttosto controversa, ma per ragioni che non sono direttamente collegate al problema che stiamo discutendo. Non si tratta qui infatti di decidere la bontà in generale di una teoria, ma di valutare se questa teoria poggia oppure no su presupposti categoriali dualistici. In una tale prospettiva, l'analisi attenta del quadro di riferimento della teoria di Parsons rivela facilmente il suo carattere non dualistico. Jeffrey Alexander ha parlato in proposito di teoria 'multidimensionale' dell'azione (v. Alexander, 1988), ma il predicato 'non-dualistica' sembra cogliere meglio l'aspetto decisivo di questa teoria sotto il profilo dei suoi presupposti. Assai schematicamente si può infatti ricordare che, al di là degli sviluppi e dei cambiamenti - anche importanti - via via introdotti dopo la sua fondamentale opera giovanile (v. Parsons, 1937), Parsons propone uno schema dell'azione sociale che resta sostanzialmente invariato sino ai suoi ultimi lavori e che è così concepito. L'azione sociale è la risultante (in termini analitici: un effetto emergente) dell'interazione di quattro fattori analiticamente autonomi: a) un sistema comportamentale direttamente legato all'organismo biologico, ma comunque considerato sotto il profilo del significato simbolico delle sue capacità di prestazione; b) un attore socializzato dotato di 'motivi' (significativi sul piano simbolico) e di capacità di selezionare fini e mezzi in relazione alla situazione in cui opera, e quindi di collegare i mezzi al fine prescelto in modo che il significato soggettivo di questo calcolo sia valido dal punto di vista sociale; c) un sistema sociale che rappresenta il luogo autonomo di formazione delle norme e dei criteri d'azione e che, dal punto di vista dell'individuo, costituisce proprio per questo un fattore condizionante (perché resistente alle sue capacità manipolatorie) e nello stesso tempo una opportunità, o meglio una condizione di possibilità, in quanto consente il formarsi di fini non casuali (socialmente organizzati) e quindi di aspettative reciproche stabili; d) un sistema culturale, i cui valori costituiscono punti di riferimento più stabili e generali, capaci a loro volta di operare quali criteri generativi di norme più specifiche e più variabili rispetto alle esigenze di adattamento e di mutamento sociale.
È facile constatare che sul piano analitico qui non si dà dualismo di sorta. L'attore non è un'unità di base che, per così dire, viene prima della società; né viceversa. Attore e società sono piuttosto complementari nelle rispettive autonomie: l'uno ha motivi, prende decisioni, si assume responsabilità perché le sue azioni hanno conseguenze sociali e in ragione di ciò verranno valutate; l'altra pone condizioni ma è anche fonte di opportunità (e di mezzi) per i bisogni degli attori, le cui azioni animano i processi che producono e riproducono la società stessa. La cosiddetta soluzione normativa del problema (hobbesiano) dell'ordine sta dunque, fondamentalmente, nell'impostare il problema di una teoria dell'azione tenendo conto che l'azione individuale è determinabile in modo stabile (non casuale) - innanzitutto dal punto di vista dell'attore stesso - soltanto in quanto sia concepita sin dall'inizio come eminentemente sociale (una mescolanza di motivi soggettivi, condizioni oggettive e norme). Il punto d'incontro tra le preferenze soggettive e i valori e le norme sociali sta nel fatto che le prime hanno sempre e necessariamente una forma simbolica e un'origine sociale (sono cioè modalità individuali di bisogni appresi), le seconde devono poter soddisfare i bisogni soggettivi individuali, seppure in base a criteri di coordinamento complessivo (v. Addario, Da Parsons..., 1994).
Questo modello viene in seguito sviluppato da Parsons nei termini della teoria dei sistemi sociali cui s'è già accennato. A partire dalla metà degli anni sessanta egli abbozza sempre più l'idea, decisamente valorizzata da Niklas Luhmann, secondo cui ciò che specifica la società come qualcosa di più e di diverso da un insieme di individui non è tanto l'interdipendenza del sistema d'interazione sociale, quanto la comunicazione sociale globale intesa come un sistema che ha una sua propria logica, una sua struttura e una sua dinamica. Questa idea si trova abbozzata in parte nel concetto di relazione sociale come doppia contingenza: Ego sa che dipende da Alter, ma che anche Alter dipende da lui; sa inoltre che anche Alter sa che lui sa...; qualcosa deve arrestare questo regresso all'infinito, qualcosa deve poter coordinare queste due contingenze reciproche. In forma più sviluppata e generalizzata, tale idea si trova invece nella teoria dei mezzi simbolici di comunicazione (potere, denaro, verità, fiducia, affetto, ecc.). Questi media sono dei codici comunicativi generalizzati che strutturano la doppia contingenza dell'interazione e consentono connessioni sistematiche (interscambi) tra sottosistemi sociali differenziati. Il sistema sociale è così una rete comunicativa che raggiunge un grado sufficiente di determinatezza proprio per mezzo dei media comunicativi (e dei mezzi di diffusione) che consentono agli attori di risolvere positivamente la doppia contingenza (v. Parsons, 1977; v. Luhmann, 1984). (V. anche Gruppi, analisi dei; Individualismo metodologico; Interazione sociale; Scambio sociale; Sistemi, teoria dei).
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