POVERTÀ
Il termine povertà, pur essendo di uso comune, se analizzato nella sua dimensione economica e sociale, può assumere una notevole diversità di significati in rapporto alle definizioni e ai corrispondenti criteri di misura adottati per analizzare il fenomeno. La p. infatti è un fenomeno connesso allo sviluppo delle società umane fin dai tempi preistorici, e ha dato origine a studi scientifici solo in epoche relativamente recenti.
Lo studio The state of the poor di Sir F. M. Eden, del 1797, è probabilmente la prima ricerca sistematica volta a individuare le caratteristiche della p., con una messe di dettagli sui bilanci familiari di ''poveri'' appartenenti a più di 100 distretti parrocchiali dell'Inghilterra del 18° secolo. Due studi fondamentali, entrambi condotti in Inghilterra a qualche anno di distanza, sono inoltre Life and labour of the people of London (1889-1903) di C. Booth e Poverty (1901) di B. S. Rowntree. Il primo riguarda la città di Londra, mentre il secondo, che prende i risultati dal primo come termini di confronto, riguarda la città di York. In esso, probabilmente per la prima volta, si manifesta l'interesse a misurare sistematicamente le caratteristiche della p., non soltanto dal punto di vista statistico, ma anche attraverso una specifica definizione quantitativa del concetto di ''povero''. A differenza dei suoi predecessori, Rowntree concentra infatti la sua attenzione sui redditi familiari individuali e sviluppa uno standard ''primario'' di p. basato sulla quantificazione di bisogni minimi. Secondo tale standard, il minimo di efficienza fisica può essere ottenuto solo disponendo di un reddito sufficiente ad acquistare beni che garantiscano un regime alimentare sufficiente, dei vestiti, un alloggio e un minimo di riscaldamento per l'inverno. Nel 1899, nella città di York, questo livello minimo equivaleva a 1,025 sterline per persona per anno.
La messa a punto di un metodo per determinare lo standard di p. è importante sia per fornire misure oggettive del fenomeno, sia perché implicitamente individua la p. come la condizione caratterizzata da redditi, consumi o dotazioni di beni inferiori allo standard stesso. Si tratta di una definizione di p. assoluta, nel senso che tutti coloro che sono al di sotto dello standard vengono considerati poveri, indipendentemente dalla condizione degli altri membri della popolazione. Il concetto di p., essendo questa definita come una condizione di ''mancanza'', piuttosto che di ''possesso'' di certe caratteristiche, si presta a tre diverse varianti: a) esso può essere definito rispetto a caratteristiche o gruppi di caratteristiche diverse sia nella natura che nel numero; b) le quantità coinvolte, a parità di caratteristiche, ossia le dimensioni assolute delle componenti dello standard, possono essere variate; c) possono essere distinti più standard, corrispondenti ad altrettanti livelli di povertà.
È su quest'ultima variante che si basa il primo lavoro moderno sull'argomento, dovuto a M. Orshansky, la quale nel 1965 sviluppò una serie di linee di p. per gli Stati Uniti. Pur partendo dal costo minimo necessario per assicurare una dieta sufficiente a mantenere l'efficienza fisica, ella divideva il costo di tale dieta per la quota del reddito speso dai cittadini statunitensi in beni alimentari. Ciò significava che se una famiglia di due persone senza figli era costretta a spendere, per mantenere la dieta minima, 1000 dollari in un anno e se la quota della spesa alimentare sul totale del reddito, per quella tipologia familiare, era di un terzo, la linea della p. veniva posta pari a 3000 dollari. Con questo metodo Orshansky stabiliva una serie di ''linee della p.'' a seconda delle tipologie familiari considerate. Si andava, per l'anno 1962, dai 1900 dollari di una coppia senza figli ai 5000 dollari di una famiglia con 4 figli. Benché il riferimento a più situazioni familiari rendesse attraente questa metodologia sotto il profilo della flessibilità e dell'utilizzazione dell'informazione demografica, la metodologia stessa si presta tuttavia a tre importanti obiezioni. In primo luogo, infatti, il concetto di p. viene totalmente ridotto a quello di privazione alimentare, ignorando altri bisogni essenziali, nonché l'effetto complessivo della mancanza di soddisfacimento di più di un bisogno di base. In secondo luogo, il concetto di ''dieta minima'' è esso stesso un concetto vago e inaffidabile perché il minimo, ammesso che ci sia, varia da individuo a individuo e da momento a momento. L'apporto minimo di nutrienti moltiplica la ricerca degli standard all'interno della dieta e il tentativo di ricondurlo al minimo calorico appare ulteriormente riduttivo. In terzo luogo, dato un livello minimo di quantità fisiche di nutrienti, appare problematico definire un metodo accettabile per risalire da tali quantità a un paniere di beni e da questo a un costo minimo. Oltre alla non univocità dei possibili metodi di determinazione, esistono infatti problemi legati alle abitudini alimentari dei singoli individui, e alle diseconomie di scala per le persone povere che acquistano il cibo, il cui effetto è di alterare lo stesso contesto entro cui le definizioni di p. assoluta apparirebbero valide.
Nel 1973 R. Townsend elaborò il concetto di p. relativa dandone la seguente definizione: "Possono essere considerati poveri quegli individui e quelle famiglie le cui risorse, nel tempo, si riducono notevolmente rispetto alle risorse che sono possedute dagli individui e dalle famiglie medie nella comunità in cui essi vivono" (1973, p. 48). Si noti che il concetto di p. espresso in questo modo è ''relativo'' anzitutto rispetto al tempo, poiché dipende da un divario di risorse tra i ''poveri'' e la media della popolazione, che si aggrava con il passar del tempo. Solo implicitamente tale relatività si estende al paragone tra le risorse dei poveri e quelle della media della popolazione per un dato tempo. Secondo il concetto di Townsend, quindi, la condizione d'ineguaglianza, ossia di minor dotazione di beni rispetto alla media, si fa p. se essa tende a crescere nel tempo. In termini più generali, quest'ultima definizione rivela l'idea che la p. sia una forma d'inuguaglianza aggravata da condizioni ulteriori.
Nel caso della p. assoluta, tali condizioni consistono nell'incapacità dei poveri di poter soddisfare i bisogni di base, mentre nel caso della p. relativa, al confronto con i livelli di soddisfazione degli altri membri della popolazione, si aggiunge il progressivo allargarsi del divario tra tali livelli e quelli dei poveri.
In ultima analisi, tuttavia, la definizione di una ''soglia'' di p. appare un problema legato alla coscienza collettiva di una particolare comunità e, come definito dal Consiglio dei consulenti economici del presidente degli Stati Uniti, dipendente da un "consenso su uno standard approssimato". Nella definizione di F. Cripps e altri (1981), d'altra parte, tale standard viene riferito alla vita sociale in senso lato, ossia al grado di partecipazione dei singoli individui alle varie attività della vita sociale. Lo standard è in questo caso multidimensionale e identifica uno stile di vita fatto sia di consumi materiali, come nelle definizioni tradizionali, sia di attività sociali (feste, partecipazione a organizzazioni, club, ecc.) che, pur non richiedendo un esborso diretto di denaro, sono nondimeno prerogativa di ''chi può permetterselo''.
Una definizione moderna di p. ingloba quindi sia il concetto di privazione rispetto a uno standard assoluto, sia il concetto d'ineguaglianza rispetto a una classe che non soffre di tale privazione e può anzi godere di consumi cospicui. Lungo queste linee si muove l'approccio teorico di A. C. Harberger (1978) e di P. L. Scandizzo-O. K. Knudsen (1980), che definiscono la p. come la condizione per cui si determina una differenza tra la domanda aggregata per un paniere di beni di base e la domanda ''sociale''. Quest'ultima è a sua volta definita come la somma della quantità di beni che si richiederebbe per soddisfare gli standard sociali di consumo per coloro che, altrimenti, non riuscirebbero a soddisfarli (i ''poveri'') e della quantità di beni che sarebbe liberamente richiesta sul mercato dagli altri (i ''non poveri'').
Misure della povertà. - Gli elementi di base per una misura della p. sono dati dal numero di poveri, ossia dei membri della popolazione al di sotto di una soglia convenzionale di p., e dalla distanza che esiste tra il valore medio dei redditi di coloro che sono classificati poveri e il valore soglia della povertà. Questi due elementi offrono informazioni complementari sulla diffusione del fenomeno e sulla sua intensità media. Essi tuttavia non possono considerarsi soddisfacenti né singolarmente né in combinazione, poiché trascurano tutta una serie di elementi che appaiono egualmente importanti nella caratterizzazione del fenomeno. Tali elementi, che riguardano le caratteristiche della distribuzione della popolazione al di qua e al di là della soglia di p., emergono dalla considerazione di quali siano le proprietà a priori desiderabili per una misura della povertà. Quest'impostazione, che fa discendere forme specifiche di misura dalla postulazione a priori delle sue proprietà, costituisce il cosiddetto ''approccio assiomatico''.
Nella ricerca di una misura della p., tuttavia, oltre agli approcci metodologici, si confrontano due concezioni che considerano rispettivamente la p. o come violazione di un'istanza elementare di giustizia sociale o, alternativamente, come un particolare tipo d'ineguaglianza grave. Nel primo caso, prevalendo il concetto che la p. sia un fenomeno definibile in riferimento a uno standard sociale dato, e quindi con riferimento al concetto di ''p. assoluta'', si afferma una misura basata necessariamente sui due elementi costitutivi, dati dal numero dei poveri e dalla distanza dalla soglia di povertà. Nel secondo caso, in corrispondenza alla p. come risultante da una forma peculiare di aberrazione nella distribuzione dei beni, prevalgono le misure di ''p. relativa''. Queste ultime, peraltro, pur distinguendosi dalle altre misure dell'ineguaglianza distributiva in quanto ''parziali'', ossia caratterizzate dall'attenzione a una sola frazione della distribuzione (quella relativa ai poveri), risultano in effetti casi particolari delle misure dell'ineguaglianza, con cui si confondono interamente se gli assiomi utilizzati sono sufficientemente ampi.
Le misure della p. assoluta sono quindi le più vicine a una definizione neo-contrattualista della giustizia sociale, secondo cui la libertà dal bisogno e quindi l'assenza di p. rappresenta uno dei fondamenti del contratto sociale. In tali misure, l'aspetto critico è rappresentato da tre elementi: a) la determinazione del livello minimo dei bisogni di base ritenuto necessario per assicurare la ''libertà dal bisogno''; b) l'identificazione delle unità della popolazione i cui consumi sono al di sotto di tale soglia di p.; c) la definizione di un indicatore che combini il numero di tali unità, la misura della distanza tra consumi individuali e consumi standard, e un sistema appropriato di pesi. Le misure della p. relativa, dal canto loro, tendono a ritornare al problema più generale di quantificazione dell'ineguaglianza. Con questo tipo di misure, più che come privazione di un diritto, la p. viene implicitamente interpretata come una situazione d'ineguaglianza peculiare e grave, per cui sono appropriate quantificazioni che combinano indici dei livelli di consumo con indici d'ineguaglianza.
Un approccio intermedio relativamente recente alla determinazione di misure della p. anche ai fini della valutazione degli effetti dei progetti pubblici, è stato suggerito da Harberger (1978) e Scandizzo-Knudsen (1980). Come si è ricordato in precedenza, secondo quest'approccio la p. può essere misurata dalla differenza tra la domanda privata e la domanda sociale dei beni di base. Quest'ultima differisce dalla prima perché richiede consumi a livello dello standard sociale per tutti quei consumatori che, data la propria condizione economica e le proprie preferenze, consumerebbero al di sotto degli standard stessi. Tale definizione può incorporare un concetto assoluto o relativo di p. a seconda che lo standard di consumo sia stabilito in base a considerazioni esogene o alle caratteristiche della popolazione. Le proprietà della misura prescindono tuttavia dalla definizione dello standard stesso e tendono a proporre un concetto di p. più simile a quello di un'esternalità sociale: un fenomeno negativo per la cui rimozione i ''non poveri'' sono cioè disposti a pagare un certo ammontare.
Il quadro della povertà in Italia e nel mondo. - Secondo i risultati presentati nel 30° Rapporto sullo sviluppo economico mondiale da parte della Banca Mondiale (1990), gli ultimi 25 anni sono stati contrassegnati da un notevole sviluppo economico e sociale sia da parte dei paesi sviluppati che da parte di quelli in via di sviluppo. Per quest'ultimo gruppo, in cui il problema della p. è più sentito, i passi compiuti sono stati, in media, incoraggianti. Infatti il consumo pro capite è aumentato di circa il 70% in termini reali, le aspettative di vita alla nascita sono aumentate di 11 anni, passando da 51 a 62 anni, e il tasso di scolarizzazione primaria è arrivato a circa l'85%. Purtroppo questi risultati medi non sono stati conseguiti da tutti i paesi e nascondono quindi una realtà che, per molti aspetti, non è affatto incoraggiante. Sebbene il problema della p. possa essere più stringente nei paesi in via di sviluppo, esso non va sottovalutato nei paesi industrializzati. Verso gli anni Cinquanta il problema della p. sembrava ormai superato da parte di molti paesi industrializzati. L'impatto della nuova legislazione sociale, le politiche keynesiane di aiuto all'occupazione e di salari stabili avevano contribuito notevolmente a creare l'illusione di aver vinto la guerra contro la povertà. Agli inizi degli anni Sessanta questo clima di generale ottimismo cominciò a declinare. In Gran Bretagna un lavoro di B. Abel-Smith e di P. Townsend (1965) dimostrò che una sostanziale parte della popolazione viveva al di sotto di quelli che erano considerati i livelli nazionali standard di assistenza. Per rispondere alle crescenti preoccupazioni circa l'aggravarsi della situazione dei poveri, verso la metà degli anni Sessanta gli Stati Uniti dichiararono simbolicamente guerra alla p., creando nell'università del Wisconsin, una delle istituzioni scientifiche più prestigiose del paese, l'Istituto per le ricerche sulla povertà.
In Italia, il problema della p. è stato affrontato con molto ritardo. Solo nel 1985 fu istituita la Commissione d'indagine sulla povertà, presieduta da E. Gorrieri, cui hanno fatto seguito, nel novembre 1988, la Commissione per l'analisi dell'impatto sociale dei provvedimenti normativi (presieduta anch'essa da Gorrieri) e la rinnovata Commissione d'indagine sulla povertà, presieduta questa volta da G. Sarpellon. Queste commissioni hanno da poco finito i loro lavori e i risultati ottenuti rivelano aspetti spesso sconcertanti.
Sulla base dei lavori condotti da tale Commissione, si è potuto dividere la popolazione italiana in dieci classi di p. (o ricchezza). I primi tre gradini di questa graduatoria sono composti dal livello della ''p. estrema'' o ''miseria'' (LP1), dal livello della ''p.'' (LP2) e da quello della ''quasi p.'' (LP3). L'unico di questi livelli a essere stato calcolato in modo diretto è quello afferente alla soglia della p. (LP2). Tale soglia è stata calcolata seguendo il criterio dell'International standard of poverty line, che considera come povera una famiglia di due adulti con un consumo pari a quello medio pro capite (che nell'indagine dell'ISTAT del 1987 era di 687.765 lire mensili). Per quanto riguarda LP1 e LP3, sono stati calcolati moltiplicando LP2 rispettivamente per 0,8 e per 1,2. I risultati di quest'indagine dimostrano che il cosiddetto miracolo economico italiano non è stato un miracolo per tutti. Vi sono anzi alcune fasce della popolazione che, con ogni probabilità, hanno peggiorato la loro situazione da un punto di vista sia economico che sociale nel corso dello sviluppo che ha interessato il paese nel suo complesso.
I risultati ottenuti dalle indagini condotte negli Stati Uniti e in altre nazioni industriali mostrano risultati qualitativamente simili: una larga parte della comunità non gode dei benefici della crescita economica (in particolare, negli Stati Uniti nel 1986 veniva definito povero il 13,6% della popolazione). Ma se questi problemi appaiono circoscritti nei paesi industrializzati in cui la percentuale dei ''poveri'' è relativamente piccola rispetto all'intera popolazione (mediamente la percentuale varia intorno al 10%), e in cui il problema principale è quello degli appropriati strumenti politici piuttosto che dei mezzi economici, il discorso cambia nei paesi in cui la percentuale della popolazione che vive con standard di vita al di sotto della soglia della p. raggiunge e supera il 40%, e in cui il reddito medio pro capite annuo non supera il corrispettivo di 500.000 lire italiane del 1986.
Uno dei principali risultati riportati (v. tab. 1) nel Rapporto annuale della Banca Mondiale del 1990 è che nel 1985, nel mondo, il numero totale delle persone che vivevano con un reddito pro capite minore o uguale a 370 dollari all'anno (meno di 450.000 lire all'anno) superava il miliardo. La maggior parte di questa popolazione vive nelle regioni subsahariane dell'Africa e in quelle dell'Asia meridionale. Ancora, sempre nel 1985, le attese di vita di una persona nata nelle sopracitate regioni era di circa 50 anni, contro un'aspettativa di vita di oltre 75 anni nei paesi industrializzati.
Sempre secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale nel rapporto sopra citato, nel 1985, nei paesi dell'Africa Sub Sahariana, su una popolazione di circa 422 milioni di abitanti oltre 180 milioni vivevano in p. e il reddito pro capite annuo si attestava sulle 577.000 lire. Per l'anno 2000 sono previsti circa 260 milioni di poveri con un reddito pro capite annuo notevolmente inferiore alle 500.000 lire. Una situazione simile la si può riscontrare anche nei paesi dell'Asia meridionale. Nel 1985 si contavano circa 530 milioni di poveri su una popolazione complessiva di circa un miliardo di persone, mentre il reddito pro capite annuo era di 335.000 lire. Il consumo pro capite, inoltre, è rimasto invariato a meno di 500 dollari per anno nei paesi dell'Africa Sub Sahariana ed è cresciuto di poco più del 30% nei paesi dell'Asia meridionale. La Malesia tuttavia, dal 1970 al 1985, ha ridotto il numero dei poveri da circa il 60% della popolazione a meno del 20%. Altri paesi hanno raggiunto, per diversi indicatori socio-economici, livelli quasi pari a quelli di molti paesi industrializzati. Altri paesi, al contrario, hanno sperimentato tassi di crescita e di sviluppo molto inferiori. Sebbene una parte di questi risultati possa sembrare incoraggiante, deve comunque far riflettere che, nel 1985, oltre un miliardo di persone viveva ancora con un reddito inferiore alle 500.000 lire annue pro capite e con aspettative di vita alla nascita di meno di 50 anni.
Politiche anti-povertà. - Negli ultimi anni non si è manifestato un particolare impegno da parte dei vari governi per tentare di ridurre il problema della povertà. Benché sia stato raggiunto un accordo quasi universale da parte delle istituzioni internazionali al fine di concentrare gli sforzi sui problemi della p., a questi sforzi si oppone una serie di interventi basati su politiche di tipo nazionalistico che mirano a obiettivi spesso contrastanti. L'ammontare dei capitali necessari per realizzare interventi così ambiziosi è quasi sempre molto ridotto. La crescita della popolazione (e questo vale soprattutto nei paesi in via di sviluppo) riduce inoltre la possibilità di eliminare il problema della p. in un periodo di tempo ragionevole.
È opinione comunemente accettata che, in una qualsiasi nazione del mondo, la p. può essere debellata se e solo se si rendono effettive una o più delle seguenti situazioni: una migliore distribuzione del benessere; una crescita accelerata dell'economia; una diminuzione del tasso di crescita della popolazione. L'attuale situazione non è certo delle più promettenti per quanto riguarda il futuro dell'umanità. Resta aperto, tuttavia, un grosso spiraglio per riuscire a risolvere tali problemi se e solo se le buone intenzioni maturate nelle istituzioni internazionali troveranno un'applicazione pratica da parte dei singoli governi. Per tentare di ridurre la p. occorre innanzitutto definire le politiche da implementare e poi assicurarsi che le azioni da queste promosse riescano a raggiungere i poveri. Nonostante l'inseparabilità dei due problemi, dai risultati fino a oggi conseguiti sembrerebbe che le politiche anti-p. non sempre siano riuscite nel loro intento di raggiungere i poveri. Le passate esperienze condotte da organismi internazionali quali la Banca Mondiale, la FAO e l'IFAD (International Fund for Agricultural Development) hanno mostrato come sia difficile raggiungere i poveri anche quando le politiche individuate appaiono potenzialmente efficaci. Perché una politica risulti efficace, infatti, occorre non solo che essa sia ben indirizzata, ma che sia anche disegnata al fine d'incontrare i particolari bisogni delle popolazioni povere. È quindi importante individuare i poveri, e i relativi meccanismi di formazione di reddito e di spesa, poiché solo così sarà possibile adottare opportune politiche economiche in grado di ridurre la povertà. Queste informazioni sono spesso molto carenti, determinando quindi la relativa inefficacia delle politiche adottate.
In un autorevole studio condotto da I. Sawhill nel 1988 sulle cause della persistenza della p. negli Stati Uniti, si legge come uno dei passi più importanti in tema di politiche per alleviare il problema della p. sia stato quello di meglio definire chi fossero i poveri. La stessa conclusione è stata tratta in un più recente lavoro di Gorrieri (1990) per il caso italiano. Secondo i due autori i poveri costituiscono un gruppo di persone molto eterogeneo e i problemi da risolvere sono spesso molto diversi. Indipendentemente dalla fascia di reddito in cui essi si situano, esiste una serie di altre variabili quali l'incidenza della spesa alimentare, l'occupazione, l'istruzione del capofamiglia, la qualità dell'occupazione, l'età e, non ultima, la proprietà di beni reali che rendono un povero diverso da un altro povero e un ricco diverso da un altro ricco. È da considerare, inoltre, che soprattutto nei paesi in via di sviluppo, ma non solo in questi, vi è la fascia dei cosiddetti ''ultra poveri'', le cui abitudini e i cui bisogni sono del tutto peculiari. Spesso gli ultra poveri, che costituiscono gruppi che sopravvivono ai margini della società, si trovano molto più lontani dai poveri, in termini di abitudini e di interazioni sociali, di quanto questi ultimi non lo siano dai ''non poveri''. Ciò determina una discontinuità tra i poveri che è essa stessa un importante fattore di diversificazione delle politiche economiche.
Le politiche economiche utilizzate per affrontare il problema della p. possono raggrupparsi sotto tre punti principali: a) le misure intese ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni di base; b) le politiche di sviluppo economico; c) le politiche di redistribuzione del reddito. Quanto ai bisogni di base, sono oggetto d'intervento pubblico soprattutto l'alimentazione e le cure mediche. Il soddisfacimento dei bisogni nutrizionali di sussistenza è l'obiettivo principale delle politiche di distribuzione alimentare che sono particolarmente importanti nei paesi in via di sviluppo, ma hanno un notevole peso anche in alcuni paesi industrializzati, come gli Stati Uniti, ove permangono consistenti sacche di p. assoluta. Allo stesso modo le cure mediche gratuite per i meno abbienti, benché facciano parte dei meccanismi di welfare state diffusi in tutto il mondo civilizzato, assumono particolare importanza nei paesi in via di sviluppo, in combinazione con le misure d'igiene, la fornitura di acqua potabile e l'educazione sanitaria.
Le politiche di sviluppo economico costituiscono l'opzione più attraente per affrontare il problema della p., perché si propongono di eliminarne le cause, instaurando meccanismi autonomi di produzione del reddito nei gruppi di ''poveri''. Negli anni Cinquanta e Sessanta si riteneva che gli effetti dei progetti di sviluppo tendessero a estendersi naturalmente ai più poveri. Negli anni Settanta, tuttavia, si è affermata un'autorevole scuola di pensiero, di cui la Banca Mondiale è una dei maggiori sostenitori, che ritiene invece tendenzialmente insufficiente il grado di partecipazione dei poveri allo sviluppo economico complessivo, e che ciò richiede sforzi specificamente mirati, con progetti di sviluppo orientati nella direzione dei gruppi sociali più svantaggiati. Politiche di sviluppo mirato e valutazione degli effetti dei progetti di sviluppo sul benessere dei poveri sono quindi gli strumenti adottati da questo approccio per ridurre direttamente i fattori economici responsabili del persistere della povertà.
Le politiche di redistribuzione del reddito attraverso le azioni di prelievo e di trasferimento fiscale operate dai governi costituiscono infine un gruppo di strumenti che, sebbene non completamente separabili dalle politiche sopra elencate in a) e b), se ne distaccano per l'omogeneità delle misure, prevalentemente legate a pagamenti monetari diretti. All'interno del sistema d'imposizione progressiva sul reddito, la cui significatività per i poveri è limitata, la cosiddetta imposta negativa sul reddito consentirebbe il trasferimento di un'opportuna somma di denaro agli individui il cui reddito cade al di sotto di una linea di p., somma che tenga conto, come per l'imponibile nel caso d'imposta positiva, delle loro caratteristiche socio-economiche.
Bibl.: F. M. Eden, The state of the poor, Londra 1797; C. Booth, Life and labour of the people of London, 9 voll., ivi 1892-97; B. S. Rowntree, Poverty. A study of the town life, ivi 1922; M. Orshansky, Counting the poor: another look at the poverty profile, in Social Security Bulletin, 28 (1965); B. Abel Smith, P. Townsend, The poor and the poorest, Occasional papers on Social Administration, 17, Londra 1965; P. Townsend, The social minority, ivi 1973; A. C. Harberger, Basic needs versus distributional weights in social cost-benefit analysis, Background notes for a seminar at the World Bank, Chicago 1978; P. L. Scandizzo, O. K. Knudsen, The evaluation of the benefits of basic need policies, in American Journal of Agricultural Economics, febbraio 1980; F. Cripps, J. Griffith, F. Morrell, J. Reid, P. Townsend, S. Weir, Manifesto, a radical strategy for Britain's future, Londra 1981; Commissione d'indagine sulla povertà in Italia, Primo rapporto e studi di base, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1985; I. Sawhill, Poverty in the US: why is it so persistent?, in Journal of Economic Literature, 26 (1988); Banca Mondiale, World development report 1990, Oxford 1990; E. Gorrieri, Un'ipotesi di analisi della diseguaglianza nei consumi, in Politica Economica, 1 (1990), pp. 97-118; M. Ravallion, G. Datt, D. van de Walle, Quantifying absolute poverty in the developing world, in Review of Income and Wealth, 37 (dicembre 1991), pp. 345-61; M. Ravallion, G. Datt, S. Chen, New estimates of aggregate poverty in the developing world, 1985-90, Washington, D.C., 1992; Banca Mondiale, Implementing the World Bank's strategy to reduce poverty. Progress and challenges, ivi 1993.
Aspetti sociologici. - Con riferimento alla precedente analisi economica del concetto di p. nei termini di p. assoluta e p. relativa, in sede di analisi sociologica del fenomeno si può aggiungere che quando si parla di p. assoluta si fa riferimento o all'idea della semplice sopravvivenza o a quella di un livello di vita ritenuto minimo accettabile. Nel primo caso p. è quasi sinonimo di ''miseria estrema'', di quella situazione cioè nella quale la carenza di risorse a disposizione dell'individuo è così profonda che la sua stessa vita è messa in pericolo o, quantomeno, è condotta in condizioni disperate: accezione che è spesso usata con riferimento sia ad alcuni paesi del Terzo Mondo (o loro regioni particolarmente svantaggiate), sia ad alcune situazioni di p. estrema che si possono riscontrare ai margini delle ricche società industriali. In questo caso, per il sociologo, la distinzione fra poveri e non poveri è assai semplice e, almeno per i paesi europei, comporta che la p. sia ristretta a un numero alquanto limitato di casi, tutto sommato eccezionali. Di conseguenza il problema della p. si restringe a quello di un piccolo numero di persone che, in base alle loro caratteristiche prevalenti, è facile designare come del tutto particolari. L'intervento sociale che discende da questo modo d'impostare il problema e che in genere si attua non va al di là di un'opera di semplice contenimento, controllo e assistenza minima, essendo assai difficile qualsiasi azione di prevenzione o di reinserimento sociale dei soggetti poveri.
Nel secondo caso, al concetto di mera sopravvivenza si sostituisce quello di uno standard di vita ritenuto come ''minimo accettabile'', previamente definito in base a un insieme di bisogni ritenuti essenziali e alle minime risorse che ne permettono il soddisfacimento; le persone (o le famiglie) al di sotto di questo minimo vengono qualificate come povere. I bisogni che più spesso vengono identificati come essenziali sono l'alimentazione, l'alloggio, il vestiario, la salute e l'igiene (talvolta si aggiunge anche la vita di relazione). In pratica a questa lista di bisogni si affianca una lista di consumi che ne permettono il minimo soddisfacimento, tramutando poi i consumi, attraverso i prezzi minimi di mercato, nella somma di denaro necessaria. È la cosiddetta soglia di reddito minimo che stabilisce il ''confine della p.'', metodo che è stato usato per dividere i paesi del mondo in ricchi e più o meno poveri, e che sta alla base della definizione di soglie d'intervento per molte forme di politica sociale. La più comune, e anche la più interessante fra queste, è quella del cosiddetto ''minimo vitale garantito''. Questa forma di assistenza, che per ora è realizzata in Italia solo in alcuni comuni, si propone di garantire a tutti un livello di vita minimo, fornendo alle famiglie a più basso reddito quel supplemento di denaro necessario per il soddisfacimento ''minimo accettabile'' dei bisogni fondamentali sopra elencati.
Ma politiche d'intervento basate su questo concetto di p. comportano alcune incongruenze e difficoltà. Alla difficoltà di stabilire la reale soglia di sopravvivenza, si aggiunge quella di definire un livello di vita minimo accettabile, che comunque comporta il riferimento a una data situazione storica, ambientale e sociale: ciò che viene ritenuto ''minimo accettabile'' oggi in Italia è molto superiore non solo a ciò che veniva considerato minimo accettabile un secolo fa, ma anche al minimo di un qualche paese povero dell'America latina. Nella sua traduzione pratica il concetto di p. assoluta scivola inevitabilmente verso quello di p. relativa, con la sola differenza che la soglia di p., pur essendo calcolata tenendo presenti le condizioni di vita medie della società alla quale si riferisce, viene presentata come un limite minimo, valido in sé, e non come il risultato di un rapporto calcolato su valori medi. È pertanto preferibile porre alla base di ogni considerazione sociologica o intervento di politica sociale in materia di p. la definizione di p. relativa, intesa come ''carenza di risorse misurata con riferimento alla situazione media dell'ambiente sociale esaminato''. Questo non significa che sono da considerare poveri tutti coloro che hanno condizioni di vita inferiori alla media, perché la p. inizia solo a partire da una certa distanza dalla media, è cioè, come si vedrà più avanti, la disuguaglianza portata oltre un certo limite.
Povertà oggettiva e povertà soggettiva. - La p. viene qualificata come ''oggettiva'' quando è definita sulla base di osservazioni svolte da osservatori esterni i quali, facendo riferimento a criteri ritenuti di applicabilità generale, sono in grado d'individuare persone, gruppi sociali o aree territoriali caratterizzati da situazioni di povertà. Tale modo di procedere (che è poi quello prevalentemente usato) prescinde da valutazioni di carattere soggettivo espresse dalla popolazione interessata e si basa piuttosto su un esame delle condizioni di vita così come queste sono oggettivamente individuabili e classificabili. Per p. ''soggettiva'', invece, s'intende quella che viene percepita come tale dalla popolazione interessata e che si può rilevare solo attraverso una serie di domande rivolte alle persone prese in esame.
L'analisi oggettiva della p. è quella più utilizzata dagli studiosi e dagli amministratori perché permette di rilevare quelle situazioni di disagio che possono successivamente formare oggetto di una politica d'intervento. Essa parte dal presupposto che la p. è, comunque, un fenomeno negativo da eliminare o quanto meno da ridurre, perché mortifica la persona nelle stesse condizioni materiali di vita. Anche la p. soggettiva, tuttavia, non può essere trascurata dal momento che dalla sua rilevazione si possono trarre indicazioni importanti. In termini di gestione politica generale è utile sapere se una persona o un gruppo sociale si considera povero pur non essendolo oggettivamente, poiché il suo comportamento sarà condizionato da questo convincimento, producendo situazioni di tensione o conflitto di cui bisogna tener conto. Similmente importante è, in un'ottica d'impegno contro la p., individuare i casi in cui a una p. rilevata oggettivamente non corrisponde una situazione soggettiva equivalente. Casi del genere si verificano non solo fra anziani che sono oramai abituati a vivere della loro modesta pensione, ma anche fra famiglie giovani che vivono in un contesto sociale tradizionalmente povero. La non consapevolezza del proprio stato di p. è certamente un ostacolo ad attivare tutte le potenzialità personali in vista di un miglioramento della propria situazione. Talvolta, quindi, la prima forma d'intervento contro la p. consiste esattamente nel far prendere coscienza della propria situazione per stimolare la volontà di cambiare. È chiaro che questa è un'operazione molto delicata e che, soprattutto, non può restare isolata per non produrre come unico risultato una grande frustrazione e quindi un aumento della sofferenza.
Povertà multidimensionale e povertà economica. - Per dare un contenuto più concreto alla parola p., è opportuno richiamarsi alla nozione di disuguaglianza sociale, di cui la p. è la forma estrema. Ma anche alla disuguaglianza bisogna dare un contenuto che non è di per se stesso evidente: essa si può riferire infatti al patrimonio, al reddito, al potere, ma anche alla salute, all'istruzione, alle condizioni di lavoro, alle relazioni sociali, e così via. Tutto ciò che in qualche modo riesce a differenziare le persone può essere fonte di disuguaglianza. Alla necessità di dare un contenuto preciso alla disuguaglianza, e quindi alla p., si può far fronte in tre modi.
Il primo modo, semplice ma forse poco utile, è distinguere tante diverse disuguaglianze quante sono le sue possibili fonti. Si parlerà così di disuguaglianza di reddito, d'istruzione, di lavoro o simili. Ogni aspetto del vivere viene considerato separatamente e di esso si esamina la distribuzione nella popolazione presa in esame. È un modo di procedere per compartimenti stagni, che permette d'individuare una pluralità di p. settoriali, ma che non soddisfa l'esigenza di cogliere una situazione nella sua complessità.
Il secondo modo d'intendere la disuguaglianza − e quindi la p. − fa riferimento al concetto di ''condizione di vita'', intesa come sintesi di tutti i bisogni con il loro diverso grado di soddisfacimento. Tutti gli aspetti del vivere, che nel caso precedente erano considerati uno per uno, in realtà interagiscono fra loro dando luogo a una situazione, detta appunto ''condizione di vita'', che è ciò che di fatto ciascuno percepisce e rispetto alla quale si sente più o meno soddisfatto. La sintesi espressa con ''condizione di vita'' fa quindi riferimento a una realtà ''multidimensionale'' i cui elementi s'intrecciano nel vissuto quotidiano e determinano, per effetto del loro diseguale modo di distribuirsi, una situazione di disuguaglianza. Il concetto di p. si estende così all'insieme unitario delle condizioni di vita e la p. è considerata essa stessa una forma di vita. Questa concezione di p. corrisponde a un modo d'intendere largamente diffuso per cui all'idea di povero si associa quella di una persona che non riesce a soddisfare una pluralità di bisogni interrelati secondo un complesso intreccio di cause.
L'introduzione di un approccio multidimensionale nello studio della p. risulta importante perché permette non solo una migliore descrizione del fenomeno, ma anche una più appropriata spiegazione. La multidimensionalità della p. porta infatti a considerare quali siano le relazioni che si stabiliscono fra tutte le sue componenti e a ricercare quale tipo di nesso si stabilisce tra di esse. I principali approcci seguiti in questo tipo di ricerca sono tre: il primo di tipo probabilistico (attraverso il concetto di rischio), il secondo di tipo statistico (attraverso il concetto di correlazione), e il terzo di tipo deterministico (attraverso il concetto di causa). Indipendentemente dal metodo usato, la p. risulta essere la conseguenza finale dell'interazione delle sue componenti, diventando così l'espressione di sintesi di un ampio processo nel quale la ''catena'' delle circostanze prende il posto dell'unico fattore causale.
La terza possibilità d'intendere la disuguaglianza consiste nel prendere in considerazione la sua sola dimensione economica. Le ragioni a favore di una tale scelta sono senz'altro numerose e non trascurabili. Le condizioni economiche differenziano persone e gruppi sociali in maniera del tutto evidente, e così come per ricchezza s'intende comunemente una grande prosperità economica, altrettanto viene considerato povero chi si trova in considerevoli ristrettezze economiche. Le disuguaglianze economiche, inoltre, si accompagnano di norma con disuguaglianze di altro tipo, in senso sia positivo che negativo. È molto probabile che un ricco sia per es. istruito, abbia una bella casa, buone relazioni sociali, un lavoro non penoso, possibilità di curarsi la salute, com'è certo che un povero mancherà di alcuni o di tutti questi vantaggi. La p. economica, dunque, oltre a essere in sé importante, è anche collegata strettamente (sia pure secondo modalità variabili) agli altri tipi di p. settoriali sopra ricordate. Per questa sua seconda caratteristica la p. economica può svolgere la funzione di ''indicatore'' della p. multidimensionale, essendo capace di fornire informazioni su un fenomeno complesso (che è appunto quanto si richiede a un indicatore).
Se si confrontano ora i tre modi d'intendere disuguaglianza e p., risulta chiaro che il più soddisfacente è il secondo, quello cioè che privilegia la multidimensionalità del fenomeno. Questa conclusione va tenuta presente certamente quando della p. si vuole cercare una spiegazione (e in particolare quando si vogliono scoprire i percorsi attraverso i quali essa si sviluppa) oltre che quando si prepara un piano d'intervento. Diversa invece è la conclusione quando della p. si vuole stimare la diffusione in una data popolazione. La difficoltà in questo caso viene dalla mancanza delle informazioni necessarie per una tale operazione. Non sono infatti disponibili indagini statistiche che in maniera regolare ed esauriente forniscano contemporaneamente tutte le informazioni che sarebbero necessarie. Bisogna quindi semplificare la procedura per ottenere una stima della diffusione della p., affidandosi a uno strumento che permetta la migliore approssimazione.
È per questo assieme di ragioni che usualmente per la misurazione della p. ci si limita a prenderne in considerazione la sola dimensione economica, tenendo comunque sempre ben presente che della p. in tale maniera si misura solo un aspetto (anche se molto importante) e che le politiche d'intervento contro la p. non possono in alcun modo limitarsi al suo solo aspetto economico. Chiarito così che si farà riferimento a una p. oggettiva, relativa ed economica, si può passare a esaminare quanto essa sia ancora presente nell'Italia d'oggi.
La diffusione della povertà in Italia. - La collocazione del concetto di p. all'interno di quello più ampio di disuguaglianza pone il problema dell'individuazione del ''confine'' fra p. e disuguaglianza. È chiaro che, comunque s'individui questo confine, la separazione fra poveri e non poveri che ne deriva non solo assume un significato convenzionale, ma anche trascura le differenze di stato all'interno dei due gruppi. In particolare è da notare che fra la popolazione povera si possono verificare situazioni che vanno dalla p. estrema alla contenuta insufficienza di risorse. L'individuazione del punto in cui la disuguaglianza si trasforma in p., pur chiara concettualmente, presenta molte difficoltà sul piano pratico; d'altra parte, l'aver accettato di utilizzare la dimensione economica della p. come indicatore della p. complessiva semplifica considerevolmente il problema e suggerisce una soluzione. Fra gli studiosi che si occupano di questo problema è stata infatti accettata una convenzione in base alla quale viene considerata povera quella famiglia di due persone che ha un reddito disponibile inferiore al reddito disponibile pro capite. In pratica ciò significa che una persona viene considerata povera quando dispone di un reddito inferiore alla metà del reddito medio del paese nel quale vive. Differenziando la soglia di p. della famiglia di due persone secondo le diverse dimensioni delle famiglie (da 1 a 6 e più componenti) si ottiene quella che viene comunemente chiamata la linea della povertà. Confrontando infine l'ammontare del reddito disponibile delle singole famiglie con la linea della p. si arriva a stimare la diffusione del fenomeno.
Le stime effettuate per l'Italia si discostano leggermente da questo criterio in quanto utilizzano non i dati relativi al reddito, ma quelli della spesa per consumi. A ciò si è costretti per ragioni pratiche: i dati sulla distribuzione del reddito sono infatti meno attendibili di quelli sulla spesa per consumi, mentre l'evidente legame fra consumi e reddito permette di utilizzare gli uni invece degli altri.
Nel 1992 (v. tab. 2) le famiglie italiane che vivevano in condizione di p. erano 2.437.000, pari all'11,7% del complesso delle famiglie; corrispondentemente le persone che si trovavano in questa condizione erano 6.828.000. Naturalmente anche per quanto riguarda la p. si ripetono le abituali differenze territoriali che caratterizzano il nostro paese. La p. nel Centro-Nord dell'Italia colpisce infatti il 7,1% delle famiglie, mentre nel Mezzogiorno essa ha un'incidenza tripla, raggiungendo il 20,7% delle famiglie. Questi semplici dati illustrano già sufficientemente la gravità della situazione e danno un'idea dell'urgenza di una politica specifica contro la p. e la disuguaglianza.
Alle differenze territoriali si aggiungono poi altre differenze legate alle diverse caratteristiche delle famiglie e delle persone. Le famiglie con maggiore incidenza di p. (26%) sono quelle composte da sei e più persone: la consistente presenza di ragazzi e bambini in queste famiglie richiama l'attenzione su uno dei più importanti aspetti di questo problema, e cioè sulla trasmissione della p. attraverso le generazioni, dal momento che nascere in una famiglia povera aumenta considerevolmente la probabilità di essere poveri anche durante l'età adulta. D'altro lato un gruppo particolarmente colpito è quello formato dagli anziani: fra le persone con oltre 65 anni la p. infatti ha un'incidenza del 18,3% (di oltre sei punti, quindi, superiore alla media).
La p. colpisce dunque soprattutto da un lato le famiglie giovani, nelle quali la presenza di figli (o di altre persone a carico) rende insufficienti i redditi da lavoro; dall'altro gli anziani, a causa dell'insufficiente ammontare delle loro pensioni. (Si noti al riguardo che il 53% dei capifamiglia poveri ha nella pensione il proprio mezzo principale di sostentamento). La presenza in famiglia di persone in cerca di nuova occupazione è un problema che tocca il 5,5% delle famiglie povere (contro il 4,1% del complesso delle famiglie); più diffusa è la presenza di persone alla ricerca della prima occupazione: essa riguarda l'8,8% delle famiglie povere (contro il 6,3% del complesso delle famiglie).
Per concludere si può osservare che mentre per le famiglie giovani l'uscita dalla p. può essere trovata nell'aumento delle occasioni di lavoro attraverso una politica mirata di sostegno dell'occupazione che privilegi quelle a basso reddito, per le famiglie di anziani l'unica soluzione possibile sta in un adeguamento delle pensioni più basse alle condizioni di vita considerate minime accettabili in una società che, complessivamente, si ritiene ed è benestante.
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