realismo
Riprodurre fedelmente la realtà
Col termine realismo si intende normalmente la tendenza nelle arti figurative, nella letteratura, nel cinema, a rappresentare la realtà così com’è, senza finzioni, con il massimo grado di verosimiglianza. Una tendenza che si è sviluppata soprattutto nel corso del 19° e 20°secolo, in contrapposizione alla tendenza opposta, quella del fantastico, dell’irreale, dell’immaginario. L’atteggiamento realistico ha caratterizzato l’arte di molti paesi. Ha assunto a volte anche significati politici e sociali, rappresentando con sguardo oggettivo gli aspetti più degradati della società
Se nelle arti figurative, in particolare nella pittura e nella scultura, il realismo può essere considerato l’elemento centrale della rappresentazione, nel senso che esse nascono proprio con lo scopo di riprodurre la realtà – anche se poi, nel corso del tempo, subiranno una serie di modificazioni sino all’astrattismo e all’antinaturalismo –, in letteratura la questione è posta diversamente, in quanto la parola è di per sé un’astrazione e i tentativi di rappresentare la realtà così com’è devono fare i conti con quella che possiamo chiamare la mediazione verbale.
Tra i vari movimenti letterari che si sono succeduti nel corso dei secoli, dall’antichità a oggi, il realismo si è imposto in diverse epoche storiche, con risultati certamente importanti. Se la poesia, sia quella lirica sia quella epica, ha assunto aspetti tendenzialmente irrealistici in quanto più aperta all’interiorità del poeta, ai suoi fantasmi, ai suoi ideali estetici, la prosa è stata più spesso impiegata per descrivere i fenomeni della realtà esterna, che cade sotto i nostri sensi. In particolare il romanzo – che già gli antichi conoscevano ma che soprattutto negli ultimi tre secoli, dal Settecento a oggi, si è diffuso capillarmente in quasi tutte le letterature – è parso lo strumento migliore per rappresentare con la parola la complessità della vita reale, creando personaggi, storie, ambienti con cui è facile identificarsi, tali e tanti essendo gli elementi letterari che riproducono la nostra esperienza concreta. Sebbene anche lo sviluppo storico del romanzo abbia conosciuto varie tendenze, dal realismo all’irrealismo, non v’è dubbio che i grandi romanzieri dell’Ottocento e del Novecento – da Alessandro Manzoni a Gustave Flaubert, da Honoré de Balzac a Lev N. Tolstoj, da Giovanni Verga a Thomas Mann, solo per fare alcuni esempi – hanno scritto i loro libri cercando di rappresentare la realtà come loro appariva. Certamente con una prospettiva, anche critica, diversa l’uno dall’altro, con una soggettività ineliminabile, ma anche con una oggettività che nasceva dalla loro osservazione attenta e profonda del reale nel suo sviluppo individuale e collettivo.
Senza entrare nel merito dei vari movimenti letterari degli ultimi due secoli, o dei singoli scrittori o romanzi, va detto che, nella grande tradizione del realismo, ci sono state varianti di rilievo: dal realismo francese di metà Ottocento al naturalismo e al verismo di fine secolo, dal nuovo realismo del primo Novecento al cosiddetto realismo magico, dal realismo socialista alle ultime tendenze del romanzo contemporaneo. Si tratta di tendenze strettamente legate ai vari momenti politici, sociali, artistici, culturali che hanno attraversato le nostre società.
Al realismo di Flaubert ha fatto seguito in Italia il verismo di Verga, nel quale l’interesse dello scrittore è più rivolto ai temi sociali che a quelli individuali. Al realismo memoriale di Mann ha invece fatto riscontro in Italia il realismo magico di Massimo Bontempelli: in questo caso siamo di fronte a un’inversione di tendenza, a un recupero, entro il filone realista, del sogno e della fantasia. Infine, a proposito del realismo socialista, fiorito nell’Unione Sovietica a partire dai primi anni Trenta del 20° secolo e per parecchi decenni, si è trattato con tutta evidenza di un movimento fortemente voluto e condizionato dal potere politico. Tuttavia sempre di realismo si tratta, perché, sia pure attraverso i loro personali punti di vista, quei romanzieri descrivevano la realtà cercando di darcene una rappresentazione il più possibile veritiera.
Quando il cinema nacque alla fine dell’Ottocento e si affermò nel corso dei primi decenni del Novecento, una delle sue principali fonti d’ispirazione fu il romanzo, proprio per quel carattere realistico di cui s’è detto. Il cinema infatti è un apparecchio che consente la riproduzione fotografica della realtà in movimento, cioè un apparecchio che possiamo definire realistico, e che cosa c’è di meglio, nel momento in cui si passa dal documentario al film di finzione, che attingere al patrimonio letterario mondiale, con i suoi personaggi, le sue storie, i suoi ambienti? Così avvenne, e così si andò sviluppando un realismo cinematografico che aveva molti punti in comune col realismo letterario. I fatti più dei pensieri, le azioni più delle sensazioni, le rappresentazioni più delle descrizioni furono gli elementi portanti del cinema narrativo d’impianto prevalentemente realistico.
Molti registi del cinema statunitense – da David Wark Griffith a Erich von Stroheim, da John Ford a Frank Capra – svilupparono questa tendenza con risultati eccellenti. Ma anche in Francia, con Julien Duvivier e Jean Renoir, il realismo fu l’asse portante di quella cinematografia. In Unione Sovietica infine, i film di Sergej M. Ejzenštejn, di Vsevolod I. Pudovkin, di Aleksandr P. Dovženko, pur con i loro caratteri d’avanguardia e di ricerca formale, posero le basi del realismo socialista. Né poteva essere altrimenti, perché il cinema, che si rivolgeva a un pubblico ben più vasto di quello della letteratura, difficilmente avrebbe potuto svilupparsi al di fuori del realismo, non foss’altro perché, come si è detto, il suo stesso principio costitutivo è la riproduzione della realtà fenomenica.
Occorre tuttavia ricordare che, accanto alla produzione di film realistici, si è andata sviluppando nel corso dei decenni una produzione che attinge largamente alla letteratura fantastica (narrazione fantastica), soprattutto in anni recenti con l’avvento delle nuove tecnologie elettroniche e digitali – una tendenza, a dire il vero, che risale alle origini stesse del cinema con l’opera fantasmagorica di Georges Méliès.
Accanto ai differenti realismi cinematografici – lo statunitense, il francese, il russo e altri ancora, che si affermarono soprattutto nel corso degli anni Venti e Trenta – un posto di rilievo ebbe il neorealismo italiano, nato alla fine della Seconda guerra mondiale.
Con Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, in primo luogo, e con i film successivi dello stesso Rossellini, di Vittorio De Sica, di Cesare Zavattini, di Luchino Visconti, di Giuseppe De Santis e di altri, il neorealismo, più che una scuola, fu un movimento che volle rappresentare la realtà italiana dopo i disastri della guerra e il crollo del fascismo, con uno sguardo attento ai fatti, alle cose, agli uomini comuni, alla vita di tutti i giorni. Un realismo quotidiano, antiretorico, che si contrapponeva – anche per l’assenza di scenografie artificiali, di teatri di posa, di attori professionisti (nella maggior parte dei casi) – al modello del cinema di Hollywood, che aveva imperato per molti anni e avrebbe continuato a imperare in seguito.
Quel realismo antitradizionale non soltanto ci diede dell’Italia una serie di immagini ancor oggi illuminanti e storicamente utili, non soltanto portò il cinema italiano alla ribalta internazionale, affermandosi come il migliore del momento, ma diede origine a una vera e propria scuola internazionale, nel senso che nella maggior parte dei paesi europei ed extraeuropei si cominciarono a realizzare film che si ispiravano più o meno direttamente ai film italiani. Nacque, in altri termini, un nuovo realismo che influenzò un nuovo pubblico. Soprattutto nacque, o rinacque, la funzione originaria del cinema come osservatore e riproduttore della realtà. E quando la stagione del neorealismo finì, la sua eredità non morì. Da esso presero le mosse le nouvelles vagues («nuove ondate») del cinema degli anni Sessanta. A esso ancor oggi si ispirano alcuni grandi registi del cinema contemporaneo, dall’iraniano Abbas Kiarostami all’inglese Ken Loach, dal tedesco Wim Wenders allo statunitense Martin Scorsese.
Se osserviamo un quadro astratto, siamo consapevoli che ciò che guardiamo non è la riproduzione della realtà, come per esempio una scena di vita quotidiana o un paesaggio. Nel caso invece di una scena quotidiana o di un ritratto somigliante si può parlare di mìmesis («imitazione»), termine greco con il quale si descrive una rappresentazione della realtà naturale che sia verosimile, somigliante all’originale. L’arte romana è stata molto attenta alla riproduzione efficace dei suoi aspetti più veri: per questo si parla per essa di realismo. Ma nel corso dei secoli il termine ha assunto diversi significati, legati a particolari contesti. Per esempio, la pittura e la scultura possono rappresentare in maniera somigliante al vero personaggi fantastici (mitologici o biblici) in opere figurative o mimetiche, che tuttavia non possono definirsi realiste.
Se rappresentare fedelmente la realtà non definisce un’opera realista, che cosa si intende con questo termine? Con la parola realismo si descrivono molti fenomeni dell’arte: i ritratti romani del periodo imperiale, attenti alla fisionomia e alla psicologia, le opere di Caravaggio e della pittura olandese e spagnola del 17° secolo. Ma è soprattutto nella prima metà dell’Ottocento che si afferma il realismo, inteso come rappresentazione dell’attualità.
Al contrario di un’arte che idealizza i personaggi e gli eventi – come quella neoclassica o romantica – o che riproduce aspetti della realtà religiosa, mitologica o celebrativa – come nel Seicento – il realismo ottocentesco adotta uno sguardo obiettivo del proprio tempo, registra situazioni e personaggi anche sgradevoli, purché espressione della vita dell’epoca.
Il maggior esponente del realismo in pittura, insieme a Jean-Françoise Millet, pittore di scene rurali, e Honoré Daumier, autore di satire sociali, è il francese Gustave Courbet. Il suo pennello ritrae con oggettività la vita quotidiana dei lavoratori, evidenziando, sotto l’influenza del socialismo, lo sfruttamento delle classi più deboli provocato dal capitalismo. Nel 1855 Courbet, durante l’Esposizione universale di Parigi, inaugura il Padiglione del realismo, uno spazio dove espone le sue opere rifiutate dalla giuria della mostra ufficiale. Nelle tele di Courbet non ci sono soggetti religiosi, mitologici e storici, ma solo raffigurazioni della vita contemporanea, nei loro aspetti anche spiacevoli. È con questo evento che nasce la pittura del realismo, con la sua poetica puramente rappresentativa della realtà del presente e apparentemente priva di giudizi morali.
Agli inizi del Novecento, con le avanguardie – cubismo, futurismo, astrattismo, dadaismo – avviene un superamento dell’arte come rappresentazione della realtà. Successivamente, tra il 1916 e il 1920, a conclusione di tante sperimentazioni artistiche, si assiste di nuovo al recupero dei valori tradizionali della pittura e, soprattutto, del disegno. Movimenti come il realismo magico in Italia e la nuova oggettività in Germania riproducono la realtà con forme nitide e colori brillanti che creano ambienti artificiosi e carichi di magia. Entrambi i movimenti ereditano le atmosfere inquietanti della pittura metafisica (De Chirico): il realismo magico per dipingere scene umili e semplici, la nuova oggettività per illustrare momenti della vita contemporanea, resa con distacco anche nei suoi aspetti più drammatici. Tra gli artisti: Antonio Donghi e Virgilio Guidi in Italia; George Grosz, Otto Dix e Christian Schad in Germania. Nel corso del 20° secolo i regimi totalitari (socialismo sovietico, fascismo e nazionalsocialismo) promuovono un’arte realista, nel senso che deve rappresentare scene ben riconoscibili in uno stile chiaro e legato a una tradizione. Il compito degli artisti è di esaltare l’ideologia della dittatura e i valori della propria nazione, con immagini in cui il carattere realista si mescola però con la propaganda politica.