restauro
Curare le opere d’arte
Oggetto di restauro sono i manufatti artistici che hanno resistito a traumi, provocati da catastrofi naturali o dagli stessi uomini, e ne portano i segni nella loro materia e nella loro immagine. L’azione corrosiva dei secoli, l’abbandono di territori, le trasformazioni dell’economia, le guerre, i terremoti, le alluvioni hanno provocato gravi lacerazioni nel patrimonio culturale di ogni popolo della Terra. Il restauro pone rimedio al degrado delle opere d’arte, aiutandole a sopravvivere per le generazioni future
I mutamenti che hanno segnato la storia degli uomini hanno spesso alimentato un sentimento di nostalgia per un’epoca del passato, nella quale una generazione pensava di trovare quei modelli politici, religiosi, estetici che meglio rispondessero alle esigenze del proprio tempo. Se le opere, oggetto di specifiche attenzioni, si trovavano in cattivo stato di conservazione, si interveniva con la ricostruzione di quanto mancava, anche a costo di alterare l’originale.
La consuetudine di restaurare opere d’arte ha avuto inizio già nel Quattrocento con il successo del collezionismo di statue antiche. La pittura è stata oggetto di interventi di ripristino a partire dalla fine del Seicento (celebre l’intervento di Carlo Maratti sulla volta ad affresco di Amore e Psiche di Raffaello, nella Villa della Farnesina a Roma). Per i primi interventi di restauro architettonico bisogna aspettare l’Ottocento: va ricordato il consolidamento di uno sperone pericolante del Colosseo (1806), occupato da terra, rovi e fienili.
Il restauro, alle origini, era eseguito integrando le parti mancanti senza preoccuparsi molto di restare fedeli a quanto restava dell’opera originaria. Soltanto nel Settecento si cominciò a prendere coscienza del pericolo di restaurare opere senza una conoscenza precisa dello stile e del contesto. In quello stesso secolo, la professione di restauratore cominciò a essere considerata una professione a sé, ben considerata e ben retribuita.
Nell’Ottocento le modalità di restauro si diversificarono molto, in relazione anche a posizioni teoriche contrapposte. Da un canto, c’era chi sosteneva la legittimità di interventi integrativi, anche spinti, purché in grado di restituire l’illusione di un recupero totale dell’opera così come si pensava essere stata creata dall’autore. Sostenevano questa posizione restauratori molto esperti nelle tecniche artistiche del passato e nello stile dei singoli pittori, in accordo con la maggior parte dei collezionisti privati, con qualche curatore di museo e con architetti impegnati nel restauro di edifici storici.
Dall’altro, ci si poneva il problema di non trasfigurare quanto restava di autentico nelle opere ereditate dal passato con interventi moderni, che avrebbero compromesso, per sempre, la comprensione dei caratteri originali dell’opera. Erano di questo avviso molti curatori di musei, assieme ai conservatori del patrimonio artistico pubblico.
Si formò, così, da una parte, un partito di integratori – la cui figura di maggior spicco fu un famoso architetto-restauratore francese, Eugène Viollet-le-Duc, autore, tra l’altro, di un sostanziale rifacimento in stile di Notre-Dame a Parigi – e, dall’altra, una fazione avversa, che chiameremo di puristi intransigenti, sostenuti dagli scritti appassionati di un intellettuale britannico, John Ruskin.
Per Viollet-le-Duc la perfetta conoscenza storica dello stile e delle tecniche artistiche riferite al monumento da restaurare, quadro o edificio che fosse, costituiva di per sé una garanzia per la ricostruzione di quanto era stato perduto, in assoluta fedeltà all’originale.
Per Ruskin, al contrario, ogni forma di restauro integrativo altro non era che «la peggiore delle distruzioni» e delle «menzogne»; le opere, come ogni forma di vita, avevano diritto di morire, magari lentamente grazie a un’accorta prevenzione verso i fattori di degrado. Coloro che si identificarono con questa seconda posizione cominciarono ad apprezzare la bellezza formale anche delle opere d’arte frammentarie: in quelle tracce era ancora riconoscibile la presenza degli artisti del passato, una specie di reliquia carica di tutta la forza comunicativa delle opere originali.
Tra questi due estremi, tante posizioni intermedie ebbero sostenitori e protagonisti equamente distribuiti nei paesi europei.
Con il Novecento il restauro è divenuto un’attività sempre più soggetta all’elaborazione teorica e alla ricerca tecnica. La salvaguardia dell’autenticità delle opere si è andata affermando come il valore più importante da perseguire, in un contesto sempre più sensibile alla necessità di tutelare l’intero patrimonio culturale come bene comune di tutta l’umanità.
Nel 1931, l’aspirazione a trovare regole generali per il restauro portò alla convocazione di una Conferenza internazionale di Atene (che si concluse con la Carta di Atene), patrocinata dalla Società delle nazioni. La Carta condannò il restauro integrativo, sostenne la necessità di conservare non soltanto l’immagine ma anche la materia originaria delle opere, l’uso di materiali innocui e reversibili nei restauri, l’importanza di favorire tutte le iniziative di prevenzione e manutenzione del degrado del monumento.
Seguirono molte altre Carte, sottoscritte in ambito sia nazionale sia internazionale, ricche di indicazioni sempre più precise, fino alla recente Carta del rischio, dedicata alla realtà italiana, con la definizione della dislocazione topografica del patrimonio nazionale in relazione ai pericoli naturali (terremoti, alluvioni) insiti nell’assetto tellurico della penisola.
A partire dal Rinascimento fino ai nostri giorni, la cultura italiana ha messo a punto modelli utili al restauro, che nei vari secoli si sono imposti come i più innovativi e i più seguiti. In alcune epoche, i collezionisti stranieri scelsero di far restaurare proprio in Italia le loro opere più importanti.
A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, la struttura pubblica dell’Istituto centrale per il restauro (ICR) si è imposta a livello internazionale come una delle più prestigiose istituzioni di ricerca, di intervento e di formazione di nuovi restauratori.
Gli strumenti teorici e le metodologie di restauro sono state indirizzate, sin da principio, alla conservazione delle opere nella loro duplice natura di ‘materia e di immagine’, e al rispetto per l’originalità e storicità del reperto artistico. Negli anni Settanta si è aggiunto a Firenze un altro centro di ricerca, l’Opificio delle pietre dure, che ha ulteriormente arricchito la proposta metodologica italiana.
Per restauro integrativo si intende l’intervento su opere d’arte lacunose che ha come obiettivo principale il recupero di un’immagine completa in ogni parte, simile a quello che si credeva fosse l’originale. Ebbe molta fortuna nei secoli passati.
A partire dal Novecento, questo tipo di restauro non si è quasi più praticato in nome del rispetto dell’autenticità della materia e dell’immagine dell’opera. Soltanto per l’architettura ci si trova ad affrontare problemi di statica del monumento e di agibilità, che impongono, di volta in volta, soluzioni specifiche. Per restauro conservativo (o meglio conservazione preventiva) si intende un insieme di operazioni finalizzate a eliminare (o attenuare) le cause che provocano il deterioramento di un’opera, come gli sbalzi termici, la luce eccessiva, l’umidità, la polvere, in modo da ridurre nel tempo la sua consunzione.
Questo tipo di intervento, anche se poco praticato, dal punto di vista teorico è quello più apprezzato negli ultimi venti anni.