Scienze sociali
Definire che cosa siano le scienze sociali è assai più arduo che non definire, per esempio, che cosa siano la geometria o la fisica - e ciò nonostante la crescente articolazione di quest'ultime in domini specialistici. Anche alle scienze sociali si può certamente applicare la vecchia definizione - paradossale solo in apparenza - secondo cui la geometria è ciò che fanno i geometri o la fisica è ciò che fanno i fisici. Ma con due difficoltà aggiuntive: la prima è che la stessa individuazione della figura degli scienziati sociali è a tutt'oggi problematica, la seconda che essi fanno spesso cose disparate, sia nel senso di studiare fenomeni differenti sia nel senso di avvalersi di metodi quanto mai diversi, che vanno dalle tecniche di osservazione di società 'primitive' delle quali si serve l'antropologo nel suo lavoro sul campo alla formulazione di complicati modelli matematici da parte dell'econometrico.
Il fatto è che - come l'uso stesso del plurale indica - le scienze sociali non costituiscono una scienza, ma piuttosto una 'famiglia' eterogenea di discipline che si sono formate in epoche differenti, e per rispondere a esigenze anch'esse differenti. Un discorso sulle scienze sociali rimanda necessariamente alle sue diverse componenti, cioè alle singole discipline che possono rientrare, o esser fatte rientrare, in questa 'famiglia', ai loro rapporti reciproci, ai confini che separano le scienze sociali da altri ambiti disciplinari. Non già che le scienze sociali non abbiano aspirato, e aspirino ancor oggi, all'unità; anzi, nel corso della loro storia ricorre spesso la pretesa, da parte dell'una o dell'altra disciplina, di abbracciare l'intero dominio dei fenomeni 'sociali', di diventare cioè la scienza sociale onnicomprensiva, o per lo meno la scienza sociale 'fondante' nei confronti delle altre. Ma ogni volta che una scienza sociale ha avanzato una pretesa del genere si è poi vista costretta, nel suo sviluppo successivo, a fare i conti con altre discipline che reclamavano la loro autonomia; cosicché anch'essa si è trasformata in una disciplina specifica al pari di quest'ultime.
Né le scienze sociali sembrano, a tutt'oggi, riconducibili a una teoria generale in grado di unificarle. Anche a questo proposito non sono mancati i tentativi di determinare una piattaforma teorica comune alle varie discipline che studiano la società, o per lo meno la società umana; ma sempre questi tentativi si sono dimostrati inadeguati, e hanno finito per emarginare qualcuna delle scienze che avrebbero dovuto, invece, tenere insieme. Così, per esempio, il marxismo ha proposto una teoria generale - che intendeva essere 'scientifica' - della società, dalla quale tutte le scienze sociali dovevano trarre i loro principî; ma questa teoria non è stata in grado di render conto dello sviluppo di discipline come la sociologia o l'antropologia se non in maniera riduttiva, oppure negando la validità della loro impostazione e dei loro risultati. Ancora a metà del Novecento Talcott Parsons e altri studiosi hanno proposto una teoria generale dell'azione, fondata sulla distinzione (e sull'interazione) fra tre sistemi - la personalità, il sistema sociale, la cultura - oggetto rispettivamente delle tre scienze sociali di base, individuate nella psicologia sociale, nella sociologia e nell'antropologia culturale; ma questa teoria, oltre a rispecchiare un ben preciso paradigma, ha lasciato in disparte altre discipline alle quali veniva attribuito un carattere 'settoriale' come l'economia e la scienza politica.
Che le scienze sociali non possano essere ricondotte a una piattaforma unitaria dipende, in ultima analisi, della mancanza tanto di un'unità di oggetto quanto di un'unità di metodo - a meno che non s'intenda il metodo in un senso quanto mai generale, cioè nel senso di metodo 'scientifico' tout court. L'ambito oggettivo delle scienze sociali copre infatti una molteplicità di fenomeni che richiedono di essere 'osservati' e analizzati con una gran varietà di strumenti: fenomeni di carattere diverso e anche di dimensioni diverse, che vanno dai processi di socializzazione dell'individuo ai 'valori' condivisi nella società di appartenenza e dalle istituzioni che ad essi presiedono alle grandi trasformazioni tecnologiche, economiche, politiche che mutano il volto di una società. Per studiare questi processi sono stati adottati approcci differenti, e quindi tecniche di ricerca anch'esse differenti, connesse - quando lo sono - da rapporti problematici. E tuttavia le scienze sociali hanno un carattere in comune: quello, appunto, di essere 'scienze', cioè di essere sorte sulla base di uno sforzo consapevole di conoscenza della società o, meglio, delle società umane. Non a caso la loro nascita tra Sei e Ottocento è strettamente collegata allo sviluppo della moderna scienza della natura e alla sua impostazione; e non a caso scienze come la fisica e, più tardi, la biologia hanno a più riprese rappresentato per esse un modello metodologico o, per lo meno, un termine di riferimento. Anche se lo schema formulato da Auguste Comte nel Cours de philosophie positive (1830-1842), secondo cui le scienze sarebbero pervenute allo stato positivo in un ordine determinato dalla semplicità e generalità decrescente del loro oggetto nonché dalla prossimità crescente al soggetto - cosicché lo studio scientifico della società presuppone necessariamente lo sviluppo precedente di astronomia, fisica, chimica e fisiologia -, appare per lo meno semplicistico, non c'è dubbio che le scienze sociali si sono costituite come discipline scientifiche dopo Newton, Boyle e Lavoisier, proponendosi di estendere ai fenomeni sociali la medesima impostazione che tanti frutti aveva dato, e continuava a dare, nello studio dei fenomeni fisici o chimici.
Le scienze sociali hanno infatti in comune con la moderna scienza della natura la ricerca di leggi generali dei fenomeni sociali - siano questi processi economici o politici o di altro genere - fornite della medesima validità delle leggi di Keplero o della legge di gravità. Ad essa si è accompagnata, in misura sempre più marcata, l'aspirazione a formulare predizioni sullo sviluppo futuro della società o, più limitatamente, di determinati processi economici o politici. Anche le scienze sociali sorgono perciò come scienze di leggi, come ricerca di regolarità nell'ambito dei fenomeni sociali - il che spiega come, per un lungo periodo, esse abbiano avuto rapporti così rari, e spesso conflittuali, con la storiografia. All'origine delle scienze sociali vi è quel passaggio dall'originario significato normativo a un diverso significato del concetto di 'legge' che è dato riscontrare in Montesquieu, per il quale le leggi per un verso sono le regole di convivenza tra i popoli, o tra governanti e governati, o ancora tra i cittadini all'interno del medesimo corpo politico, ma per l'altro verso sono "i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose", rapporti che valgono per "tutti gli esseri", e quindi anche per l'uomo considerato nella sua esistenza sociale. Non meno della natura fisica, anche la società appare caratterizzata da regolarità di comportamento che la scienza può, e deve, determinare: regolarità valide non soltanto per il passato e per il presente, ma anche per il futuro, e quindi fondamento per poter enunciare previsioni.
Al pari delle leggi naturali, anche quelle sociali erano concepite come suscettibili di una determinazione quantitativa. Dei due elementi costitutivi della moderna scienza della natura, il ricorso all'esperimento come strumento di verifica delle ipotesi e la formulazione matematica, le scienze sociali hanno indubbiamente privilegiato il secondo. I fenomeni sociali potevano infatti essere osservati e correlati tra loro, ma non riprodotti in laboratorio; il ricorso all'esperimento sembrava perciò precluso, o per lo meno ridotto a un ruolo del tutto secondario. Esso può, caso mai, essere sostituito dall'impiego di tecniche di simulazione di vario genere. Nulla però ostava, in linea di principio, a esprimere le correlazioni tra fenomeni sociali in forma matematica. Questo sforzo si delinea chiaramente già nel corso del Settecento, e culmina nella "matematica sociale" di Condorcet, tentativo di applicazione del calcolo allo studio dei fenomeni sociali che deve recarlo allo stesso grado di certezza attinto dalla conoscenza della natura. Ma già William Petty, alla fine del secolo precedente, aveva proposto un'"aritmetica politica"; e nel Tableau économique (1758) François Quesnay aveva espresso in termini quantitativi le relazioni tra le diverse classi sociali all'inizio e alla fine del ciclo produttivo annuale, in cui si manifesta l''ordine naturale' della società. E se altre discipline più recenti, come la sociologia e l'antropologia, ricorreranno più raramente alla matematica, l'economia politica imboccherà decisamente - a partire da Adam Smith e da David Ricardo - la via del calcolo e, in seguito, della formulazione di modelli matematici sempre più sofisticati, fino a proporsi, negli ultimi decenni, come esempio paradigmatico per le altre scienze sociali.
Sulla possibilità di trasporre senza residuo il metodo della scienza moderna allo studio dei fenomeni sociali, e quindi sulla natura sia delle regolarità sia delle previsioni formulate dalle scienze sociali, si è a lungo discusso; e nel corso del dibattito sono stati perseguiti due scopi metodologicamente opposti. Da una parte è stata rivendicata la specificità delle 'leggi' sociali, la loro irriducibilità a leggi in senso deterministico. Dall'altra, invece, ci si è proposti di garantire alle regolarità determinate dalle scienze sociali il medesimo grado di certezza che veniva attribuito alle leggi della fisica newtoniana. In realtà, l'affermazione della specificità delle 'leggi' sociali era diretta contro un'immagine deterministica della scienza, che soprattutto la sociologia aveva adottato ai suoi inizi. Una volta che questa immagine è venuta meno anche nell'ambito delle scienze naturali - come mostra chiaramente lo sviluppo della fisica nel Novecento - le 'leggi' sociali si presentano come regolarità su base statistica, non diversamente da quelle delle altre scienze; e anche le previsioni che si possono formulare sulla loro base appaiono fornite non di una certezza assoluta, ma di un grado maggiore o minore di probabilità al pari delle previsioni formulate da altre discipline (basti pensare alla meteorologia, che non è certamente una scienza sociale). A questo mutamento nel modo di intendere le 'leggi' sociali ha dato un contributo decisivo lo sviluppo della statistica nel corso dell'Ottocento. E proprio richiamandosi ai lavori di uno statistico come Johannes von Kries, l'autore dei Prinzipien der Wahrscheinlichkeitsrechnung (1886), Max Weber ha potuto presentare la relazione di causa ed effetto tra fenomeni sociali in termini di "possibilità oggettiva", di una possibilità suscettibile di una gradazione che va dall'estremo della causazione adeguata all'estremo opposto della causazione accidentale.
Il rapporto con la moderna scienza della natura, per quanto fondamentale, non è però sufficiente a render conto della nascita delle scienze sociali. Altrettanto decisive appaiono le relazioni che le collegano allo sviluppo della società moderna. Ciò non vuol dire che, una volta costituitesi, le scienze sociali non abbiano proceduto anche in virtù di una logica interna: la loro considerazione in chiave di sociologia del sapere (o della scienza) non conduce affatto a fare del loro sviluppo un riflesso immediato di processi economici o politici o di altro genere in atto nella società circostante. Ma lo stesso costituirsi delle singole discipline in epoche diverse - e in contesti culturali anch'essi diversi - non può essere spiegato senza fare riferimento a questi processi, che comportano l'insorgenza di nuovi oggetti e di nuovi campi di studio.Lo dimostra il semplice fatto che, tra le scienze sociali, la prima ad acquisire una propria autonoma fisionomia sia stata proprio la scienza economica o - per usare la sua denominazione originaria - l''economia politica'. La sua nascita accompagna l'affermarsi del capitalismo moderno già prima della rivoluzione industriale; accompagna il processo di creazione dell'impresa moderna orientata verso il profitto e la costituzione di un mercato, interno e internazionale, non più limitato alle merci di lusso. Nel contrasto tra le due 'scuole' di pensiero economico che preparano l'avvento della nuova scienza - il mercantilismo e la fisiocrazia - si esprime il rapporto problematico tra capitalismo e Stato moderno, tra l'esigenza dello Stato di garantire l'aumento della 'ricchezza' prodotta dalla nazione, controllando lo sviluppo economico e traendone le risorse necessarie per la propria politica di potenza, e l'esigenza dell'economia capitalistica di liberarsi da vincoli esterni. Non a caso la versione più matura del mercantilismo, il colbertismo, ha trovato un terreno propizio nella Francia di Luigi XIV, impegnata a far valere la propria egemonia sul continente europeo; mentre il movimento fisiocratico si è affermato anch'esso in Francia, ma nel secolo successivo, quando il peso congiunto della fiscalità e dei limiti frapposti alla libertà del commercio rischiavano di bloccare lo sviluppo capitalistico, nello stesso periodo in cui la trasformazione delle tecniche produttive al di là della Manica favoriva l'affermarsi della supremazia inglese. Che la culla dell'economia politica sia stata l'Inghilterra è un fatto che si spiega non soltanto con Newton e con l'opera di diffusione della scienza moderna compiuta dalla Royal Society, ma anche con la coincidenza tra l'interesse dei ceti borghesi impegnati nell'attività economica e l'interesse dello Stato alla tutela di questa attività. La Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations di Adam Smith (1776), con la sua decisa presa di posizione in favore della libertà di scambio, esprime appunto questa coincidenza.
Non diversamente la nascita della scienza politica è legata all'emergere dello Stato moderno e all'esigenza di un'amministrazione razionale, quale soltanto un apparato burocratico poteva garantire. La riflessione di Montesquieu nell'Esprit des lois (1748) - con il richiamo al pensiero politico inglese dei decenni precedenti, da Locke a Bolingbroke - esprime l'esigenza che lo Stato assoluto non degeneri in dispotismo; e la teoria della divisione dei poteri da lui formulata è rivolta appunto a configurare un equilibrio tra le diverse componenti della sovranità, da realizzarsi mediante la distinzione tra l'organo detentore della potestà di fare le leggi e l'organo deputato alla loro esecuzione. Già ai suoi inizi la scienza politica mostra il proprio nesso con lo sviluppo dei diversi paesi europei. Se nel pensiero politico francese, come del resto in quello inglese, l'analisi verte soprattutto sulle condizioni che devono assicurare la libertà dei cittadini nei confronti del sovrano, e l'autonomia di una sfera privata sottratta all'ingerenza di quest'ultimo, in Germania si è affermato invece un indirizzo di ricerca - il 'cameralismo' - legato allo sviluppo di un'amministrazione che deve assicurare il benessere del suddito e, come condizione di questo, il benessere dello Stato. Esso accompagna da un lato la svolta 'illuminata' dell'assolutismo austriaco e dall'altro l'ascesa della potenza prussiana, in una sintesi dottrinale che sottolinea la necessità di uno 'Stato di polizia' (dove il termine è da intendere non nel significato odierno, ma in un senso analogo all'inglese policy) che tuteli la sicurezza di tutti e favorisca al tempo stesso l'accrescimento della ricchezza dello Stato. Da ciò la centralità riconosciuta allo Stato nella scienza politica tedesca, e la tendenza a subordinare ad esso la considerazione della società civile, anzi a vedere nello Stato - come farà pure Hegel - il luogo in cui si armonizzano gli interessi divergenti delle singole classi. Anche lo sviluppo della scienza politica in epoca contemporanea riflette la trasformazione delle forme della politica: il passaggio dalla Staatswissenschaft a una considerazione della politica non più incentrata sullo Stato e sul suo apparato burocratico accompagna il processo di democratizzazione e l'avvento di una società di massa. Ciò vale anche per alcuni dei principali corpi teorici della scienza politica: la teoria delle élites è un tentativo di interpretazione dei meccanismi che regolano il rapporto tra governanti e governati in una società nella quale la scelta della classe politica è affidata al suffragio elettorale; analogamente la ripresa della teoria delle forme di governo si collega al sorgere di regimi totalitari di destra e di sinistra, e alla conseguente necessità di disporre di una tipologia più comprensiva di quella applicabile ai governi liberali o democratici che si erano sviluppati dopo la Rivoluzione francese.
Ma è soprattutto nel caso della sociologia che viene in luce la connessione tra scienze sociali e sviluppo della società moderna. La sociologia sorge in Francia, all'indomani della Rivoluzione e dell'età napoleonica, dalla consapevolezza di una trasformazione di portata storica che ha comportato la distruzione di una vecchia struttura sociale e che vede emergere una nuova struttura, fondata sull''industria' - termine che, in origine, designa qualsiasi forma di lavoro produttivo - e sul sapere scientifico. I padri fondatori della nuova scienza, Saint-Simon e Comte, si rendevano ben conto dell'impossibilità di un ritorno al passato, a quel tipo di società che nel Medioevo aveva reso possibile, attraverso l'alleanza tra il trono e l'altare, la permanenza per secoli di un ordine fondato su un sistema di credenze condiviso da tutti; ma si rendevano pure conto che l'epoca della rivoluzione era ormai chiusa, e che alla sua azione disgregatrice doveva subentrare uno sforzo di ricostruzione della società, accompagnato dall'edificazione di un nuovo sistema di credenze in grado di garantire il consenso. La sociologia sorge perciò come teoria della società industriale, nella quale l'autorità trova la sua base non più nella fede religiosa ma nella scienza. La società moderna è ormai nata; si tratta di consolidarla eliminando le sopravvivenze del passato e risolvendo i conflitti sociali che il suo stesso sviluppo rischia di produrre. Attribuendo questo compito alle due classi che detengono il potere nella società industriale, la classe degli 'industriali' e quella degli scienziati positivi, la sociologia esprimeva - non senza forzature anticipatrici e una evidente carica utopistica - una nuova realtà, nella quale lo sviluppo scientifico e tecnologico si avviava a diventare l'elemento trainante della trasformazione produttiva.
Anche la nascita dell'antropologia nella seconda metà dell'Ottocento appare legata a un fenomeno storico di lungo periodo, cioè all'espansione europea in altri continenti e all'incontro con popoli prima ignoti, soprattutto con i popoli indigeni del continente americano, i cui costumi venivano ritenuti caratteristici di quello stato selvaggio che ha preceduto la barbarie e poi il passaggio alla civiltà. Questi costumi erano stati oggetto di descrizioni circostanziate da parte di viaggiatori e di missionari, prima ancora che di studiosi, e la loro immagine aveva oscillato tra gli estremi del mito del 'buon selvaggio' (presente già in Montaigne) e del rifiuto di riconoscere ad essi una qualsiasi dignità culturale. L'antropologia si sottraeva a questa alternativa riconoscendo nello stato selvaggio dei popoli primitivi una fase di sviluppo della cultura umana che i popoli europei hanno anch'essi attraversato e da cui si sono poi distaccati nel periodo arcaico della storia greca e romana, ma le cui sopravvivenze sono rintracciabili anche nelle epoche successive. Da ciò il nesso ambiguo che lega la nuova disciplina al colonialismo, sia al colonialismo inglese che si era diffuso nel Vecchio Mondo sia alla spinta colonializzatrice della 'frontiera' americana, e che fa di essa sì uno strumento di conoscenza finalizzato al dominio, ma anche la condizione per una valutazione positiva dei modi di vita dei popoli indigeni.Pure le altre scienze sociali si prestano, in varia misura, a essere oggetto di una considerazione che può agevolmente mostrarne il legame con processi e tendenze fondamentali in atto nella società moderna. Così - per fare soltanto un esempio - la nascita della demografia è condizionata dalla 'transizione demografica' che, parallelamente alla rivoluzione industriale (ma in larga misura indipendentemente da questa), si compie nel Settecento; e infatti le prime opere dedicate allo studio sistematico della popolazione risalgono alla metà di quel secolo. Di questo legame le scienze sociali sono diventate, del resto, sempre più consapevoli; spesso, anzi, hanno intenzionalmente cercato un rapporto con il mutamento della società, proponendosi di contribuire ad esso o di indicarne mezzi, scopi e anche sbocchi. Questo diverso rapporto - sul quale ritorneremo - chiama però in causa non tanto il condizionamento delle scienze sociali da parte della società circostante, quanto la loro funzione sociale, esplicita o implicita.
Che le scienze sociali siano un prodotto tipicamente moderno, che la loro nascita sia collegata allo sviluppo della società moderna, non vuol però dire che i problemi da esse affrontati non abbiano un'origine assai più lontana. La conoscenza dei meccanismi che regolano la vita sociale è probabilmente un bisogno di qualsiasi società, o per lo meno delle società pervenute a un certo grado di sviluppo; ed essa ha assunto forma sistematica - per limitarci all'ambito europeo - già nel mondo antico, con il sorgere della riflessione filosofica. Sarebbe certamente errato considerare la Repubblica e le Leggi di Platone o l'Economico di Senofonte o la Politica di Aristotele, o anche i trattati politici di epoca ellenistica e poi romana, come se offrissero un'analisi scientifica della società. Dalle scienze sociali li separa, se non altro, il fatto di essere orientati non verso la determinazione di leggi, ma piuttosto verso la ricerca della migliore forma di governo o l'enunciazione di una precettistica per l'amministrazione domestica. Non c'è però dubbio che esse forniscano, in maniera spesso indistinta dalla formulazione di norme, un insieme di informazioni e di analisi tutt'altro che disprezzabile, certamente non inferiore a quello che autori come Machiavelli, Guicciardini e Bodin offriranno all'inizio dell'età moderna. Né è mancato nell'antichità uno sforzo di indagine empirica riferito ai fenomeni politici: basti pensare alla raccolta delle costituzioni greche avviata da Aristotele, che doveva costituire il supporto fattuale della tipologia delineata nella Politica. E non sarebbe difficile - se ci si volesse dedicare alla facile arte della ricerca dei 'precursori' - trovare in opere antiche l'anticipazione di filoni di indagine che si svilupperanno a distanza di secoli, come per esempio nel caso del prezioso materiale etnografico fornito dalle Storie di Erodoto.
Tra la riflessione filosofica antica e la considerazione scientifica della società c'è infatti un duplice rapporto, di continuità e di rottura, non dissimile da quello che si può trovare in altri campi: di continuità per quanto riguarda l'esigenza di studiare - magari sulla base dell'analogia con le parti dell'anima - i rapporti tra le varie classi che compongono la società, le diverse forme di governo, i loro vantaggi e i loro pericoli, e di frattura per quanto riguarda l'impostazione epistemologica. Del resto la nascita delle scienze sociali è stata preparata, nel corso del Cinquecento e del Seicento, dalla ripresa di una teoria antica come il diritto naturale, soprattutto nella versione che ne aveva dato il pensiero stoico. E proprio il presupposto dell'esistenza di leggi indipendenti dalle leggi positive ha costituito il terreno da cui è nata la concezione laica dello Stato ma anche - all'incirca nello stesso periodo, e non di rado nei medesimi autori - l'idea di un ordine naturale della società. Questo ordine era concepito come un ordine valido normativamente, e anzi fornito di una validità universale; ma in seguito poté essere inteso come una struttura sottostante alla variabilità dei fenomeni economici e politici, da indagare - come si prefiggerà il movimento fisiocratico - con strumenti non dissimili da quelli della moderna scienza della natura. L'idea stoica del diritto naturale veniva così ad assolvere, per le nascenti scienze sociali, una funzione analoga a quella che la concezione (di origine pitagorico-platonica) di una natura scritta in caratteri matematici ha assolto nei confronti della moderna scienza della natura.
Se si considerano le scienze sociali formatesi tra Sei e Settecento, cioè l'economia politica e la scienza politica, è difficile tracciare un discrimine netto tra riflessione filosofica e considerazione scientifica della società; tanto è frequente il passaggio dall'enunciazione di precetti in vista dell'accrescimento della ricchezza o di un governo 'illuminato' all'indagine empirica, e viceversa. Infatti le scienze sociali sono, in quel periodo, portatrici di una concezione generale della società, di un'interpretazione dell'ordine economico o dell'ordine politico o di entrambi; sono portatrici di quella che potremmo chiamare una teoria della società con valenza al tempo stesso analitica e normativa. Ma l'intreccio delle scienze sociali con le teorie della società non mancherà di caratterizzarne lo sviluppo anche in seguito, fin verso la fine del secolo XIX. Soltanto nel Novecento, anzi nel Novecento avanzato, le scienze sociali si svincoleranno da questo rapporto per far valere una pretesa di 'purezza' scientifica.
Ancora una volta è la sociologia a offrirci un esempio emblematico di tale intreccio; e lo è sia nella sua originaria versione positivistica sia nella forma della marxiana scienza della società, fondata sulla critica dell'economia politica. Il modello inerente alla prima è quello di una società capace di conciliare l'ordine e il progresso, di assicurare cioè un ordine che non sia di ostacolo al progresso ma lo renda possibile, e nella quale l'autorità morale derivante dalla scienza positiva possa risolvere gli 'antagonismi' tra le classi, in particolare il conflitto tra lavoratori e imprenditori all'interno della classe 'industriale'. È il modello, in altri termini, di una società fondata sul consenso e sulla solidarietà, che attraverso Durkheim si trasmetterà alla sociologia contemporanea. Il modello della sociologia marxiana (ché di sociologia anche qui si tratta, almeno nel senso ottocentesco di una scienza onnicomprensiva della vita sociale) è invece quello di una società fondata - dopo il distacco dalla comunità primitiva - sulla divisione in classi prodotta dalla divisione del lavoro e sulla lotta permanente tra una classe detentrice dei mezzi di produzione e una classe 'estraniata' da questi, nella quale il conflitto è l'elemento decisivo dello sviluppo, cioè del passaggio da un modo di produzione a un altro. In entrambi i casi l'analisi della società e del sistema economico, pur avendo un esplicito intento scientifico, rimanda a una teoria generale della società, e quindi a presupposti che rivestono, in ultima analisi, un carattere filosofico (e per lo più anche ideologico).
Soltanto negli ultimi decenni dell'Ottocento l'alternativa tra queste due teorie della società ha gradualmente perduto la sua originaria importanza. Ciò è avvenuto quando la sociologia si è staccata da una concezione generale della storia, per orientarsi verso la determinazione di 'modelli' di società forniti di valore sia storico sia analitico. Questo passaggio è segnato da opere come Gemeinschaft und Gesellschaft di Ferdinand Tönnies (1887) e De la division du travail social di Émile Durkheim (1893). Comunità e società, solidarietà meccanica e solidarietà organica designano non più soltanto due fasi, due 'epoche' di sviluppo della società umana, ma anche due tipi di organizzazione sociale che devono servire come base per l'analisi delle varie società. E se tanto in Tönnies quanto in Durkheim il problema è quello di individuare le condizioni dell'ordine sociale, di un ordine che implica necessariamente la solidarietà tra gli individui, ciò non esclude il recupero di aspetti importanti dell'analisi marxiana della società capitalistica: se la 'comunità' è caratterizzata da Tönnies con categorie derivate, in larga misura, dalla scuola storica tedesca, la 'società' è descritta sulla traccia da un lato di Hobbes, ma dall'altro anche del Capitale di Marx. E la "solidarietà organica" di Durkheim, se da una parte è propria di una società che consente autonomia agli individui che la compongono, dall'altra è pur sempre il risultato di quel processo di divisione del lavoro che Marx aveva assunto come motore dello sviluppo sociale.
La sociologia mostra quindi chiaramente il trapasso da uno studio dei processi sociali connesso con (e dipendente da) una teoria della società a un'analisi nella quale teorie diverse confluiscono a formare un apparato categoriale 'neutro', in funzione dell'osservazione empirica e della formulazione di regolarità fondate su di questa. Ma un discorso analogo vale anche per altre discipline, anche se in misura diversa a seconda del loro grado di formalizzazione. Ciò non vuol dire, però, che dopo la loro fase iniziale le scienze sociali si siano svincolate del tutto da tale rapporto, e che nel loro sviluppo esse non si richiamino di nuovo a questa o quella teoria della società. Talvolta, anzi, anche in tempi recenti, l'ideale della 'purezza' scientifica è stato apertamente contestato, e contro di esso è stata fatta valere l'esigenza di un rapporto tra scienze sociali e riflessione filosofica più stretto (e magari qualitativamente diverso) rispetto alle scienze naturali: basti pensare all'impostazione 'critica' della sociologia di stampo francofortese. E spesso questa esigenza si è saldata con il rifiuto della neutralità metodologica, con il richiamo a una scienza capace di offrire modelli normativamente validi e regole per una società alternativa a - o quanto meno migliore di - quella esistente.
Economia politica, scienza politica, sociologia, antropologia hanno tutte per oggetto, al pari delle altre scienze sociali, la società umana, le sue strutture e i suoi processi. Da ciò è derivata la tendenza a identificare scienze sociali e scienze umane, oppure a considerare le scienze sociali un aspetto o una 'provincia' di un raggruppamento più esteso, costituito dalle scienze dell'uomo.
Questa equiparazione si presta tuttavia a obiezioni difficilmente superabili, già per la semplice ragione che la sfera dell'organizzazione sociale e la sfera della vita umana - comunque si voglia determinarla - non sono affatto coincidenti. La vita in società non è qualcosa di esclusivo dell'uomo: se già nella seconda metà dell'Ottocento gli studi pionieristici di autori come Jean Henri Fabre misero in luce l'esistenza di società degli insetti, nel corso del Novecento l'etologia ha mostrato non soltanto che la maggior parte delle specie animali hanno un'organizzazione sociale più o meno sviluppata, ma che tra di essa e l'organizzazione delle società umane vi è forse una differenza quantitativa piuttosto che qualitativa. D'altra parte l'esistenza dell'uomo è oggetto non soltanto delle scienze sociali, ma anche di altre discipline come l'anatomia, la fisiologia, la psicologia, per le quali la dimensione sociale è irrilevante o, quanto meno, marginale. Se l'uomo è un essere sociale, i suoi comportamenti poggiano pur sempre su una base biologica che esula dalla competenza delle scienze sociali. Ciò vale anche per quei fenomeni 'psichici' che sembrano i più refrattari a questo condizionamento. Non a caso anche nella psichiatria, che pochi decenni or sono sembrava orientata a dare una spiegazione in termini puramente sociologici delle malattie mentali, fino a negarne addirittura l'esistenza, l'importanza dei fattori genetici è oggi largamente riconosciuta; e le terapie di carattere analitico hanno spesso ceduto il posto a terapie farmacologiche fondate sullo studio dei processi chimici che presiedono all'attività cerebrale.
Ma l'obiezione principale all'equiparazione tra scienze sociali e scienze umane nasce dalla stessa difficoltà di delimitare l'ambito di quello che viene chiamato, di solito, il 'mondo umano'. Non sono mancati nella cultura contemporanea i tentativi di affermare la specificità dell'uomo non già negando (o mettendo tra parentesi) la sua realtà biologica, ma cercandone le radici nella particolare struttura dell'organismo umano e nel suo particolare rapporto con l'ambiente. Ernst Cassirer, ad esempio, richiamandosi alla teoria formulata dal biologo Johannes von Uexküll, ha postulato una differenza qualitativa dell'uomo rispetto agli animali, e l'ha indicata nella presenza di un "sistema simbolico" che media il rapporto tra stimolo e risposta, tra sistema ricettivo e sistema reattivo; cosicché il mondo umano verrebbe a configurarsi come un insieme di forme simboliche. Un'impostazione del genere, condivisa da quell'orientamento di pensiero che ha preso il nome di antropologia filosofica, ha trovato un supporto nell'antitesi tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, e nella conseguente affermazione del carattere acquisito della cultura, oggetto di apprendimento e non di trasmissione ereditaria. Cultura, mondo simbolico, linguaggio venivano così assunti a caratteristiche differenzianti del mondo umano; e Alfred L. Kroeber poteva scorgere nell'evoluzione superorganica, sede propria della cultura, un 'salto' nel processo evolutivo. Questi presupposti sono però stati messi in questione dallo sviluppo della ricerca etologica. La stessa contrapposizione fra trasmissione per via genetica e trasmissione sociale, che consentiva di considerare il comportamento animale come il risultato di istinti ereditari e il comportamento umano come prodotto esclusivo di apprendimento, si è rivelata insostenibile: non soltanto molte specie animali sono capaci di apprendimento, e quindi in grado di trasmettere le informazioni acquisite da un individuo all'altro e da una generazione all'altra, ma una parte non trascurabile dei comportamenti umani ha una base istintiva, e dev'essere attribuita a processi diversi dall'apprendimento. Al pari degli animali, anche l'uomo agisce sulla base di disposizioni 'innate' e non soltanto di abitudini acquisite. Ciò ha condotto ad allargare l'ambito della cultura, riconoscendo l'esistenza di forme di cultura presso gli animali, o almeno presso varie specie animali. Neppure il linguaggio può più essere addotto come una peculiarità esclusiva dell'uomo: se per linguaggio s'intende un insieme di segni che deve rendere possibile la comunicazione tra gli individui appartenenti alla stessa specie, allora anche la danza delle api - studiata da Karl von Frisch - rappresenta una specie di linguaggio. Proprio della specie umana è invece un linguaggio verbale reso possibile dalle caratteristiche fisiche dei suoi organi di fonazione. La linea di divisione tra l'uomo e l'animale passa ora per la determinazione delle caratteristiche distintive che il linguaggio, al pari della cultura, presenta nella specie umana.
Ma una precisa delimitazione del 'mondo umano' era impedita anche dall'impossibilità di separare nettamente l'evoluzione culturale dall'evoluzione biologica. All'interpretazione tradizionale - accolta anche dall'antropologia della prima metà del secolo - secondo cui la trasformazione dell'uomo in essere culturale avrebbe avuto luogo una volta terminata la sua evoluzione biologica, si è sostituita una visione più complessa, che concepisce i due tipi di evoluzione come correlati tra loro: se il sorgere della cultura umana è condizionato biologicamente, essa appare d'altra parte una componente della stessa evoluzione biologica. Come ha posto in luce André Leroi-Gourhan, lo sviluppo del cervello (e le capacità culturali che esso rende possibile) presuppone l'autonomizzarsi della mano come strumento peculiare dell'uomo. In realtà, l'equiparazione tra scienze sociali e scienze umane, o l'inclusione delle scienze sociali nella categoria delle scienze umane, obbediva alla tendenza a far valere la loro eterogeneità rispetto alle scienze naturali. Questa tendenza presenta una base sia ontologica che epistemologica. Sotto il profilo ontologico, l'interpretazione delle scienze sociali in chiave di scienze umane rispondeva all'esigenza di tracciare un confine preciso tra natura e cultura, tra la sfera biologica e il 'mondo umano'. Sotto il profilo metodologico, invece, essa rispondeva all'esigenza di sottrarre le scienze sociali al modello epistemologico delle scienze fisiche (ma anche biologiche), facendone un edificio conoscitivo indipendente da queste discipline. Il 'mondo umano' poteva quindi esser concepito come una realtà che si sottrae, per la sua peculiare struttura, a quella ricerca di leggi generali o quanto meno di regolarità che le scienze sociali si erano originariamente proposte.
Ma, al pari del 'mondo umano', anche l'ambito delle scienze umane appare di difficile individuazione. La stessa nozione di scienze umane deriva da quella di "scienze dello spirito", che Wilhelm Dilthey aveva formulato a fine Ottocento richiamandosi alla scuola storica tedesca e all'orientamento 'storico' che essa aveva inteso dare allo studio della società. Di questa scuola Dilthey metteva sì in disparte i presupposti ideologici, il postulato di uno "spirito del popolo" che si esprime nello sviluppo complessivo di una nazione, e anche la metafisica organicistica che ne costituiva l'ancoraggio, ma manteneva il presupposto metodologico del rapporto tra parti e tutto. Dalla scuola storica Dilthey ereditava soprattutto la contrapposizione alle scienze della natura, e quindi il rifiuto della riduzione dei metodi delle scienze dello spirito al loro orientamento rivolto alla determinazione di leggi generali, anche nei termini in cui l'aveva proposta John Stuart Mill nel System of logic, ratiocinative and inductive (1843). Non già che Dilthey negasse il rapporto dell'uomo e della vita sociale con una base biologica o con l'ambiente circostante; anzi, egli indicava nelle regolarità derivanti da tale rapporto il fondamento dell'individuazione, la base dell'articolarsi dello spirito in una forma individuale. Ma questo rapporto era irrilevante ai fini della determinazione dell'ambito delle "scienze dello spirito". Oggi, però, dopo la critica di Max Weber all'impostazione della scuola storica, anche la nozione di "scienze dello spirito" appare non più proponibile; e insieme ad essa viene a cadere la dicotomia istituita tra di esse e le scienze della natura.
Parlare di scienze sociali oppure di scienze umane risponde, a ben guardare, a due prospettive epistemologiche tra loro non conciliabili. Anche quando hanno voluto distinguersi da altre discipline come la fisica o la biologia, facendo valere una sempre più marcata esigenza antiriduzionistica, le scienze sociali hanno pur sempre cercato nei fenomeni da esse studiati regolarità di comportamento. La prospettiva delle scienze umane è del tutto diversa. Antitesi come quella tra spiegazione e comprensione, o la ripresa di nozioni come quella di interpretazione che caratterizza il ricorso all'analisi ermeneutica negli approcci fenomenologici - con il sottinteso che, a differenza dei processi naturali, quelli 'umani' sono suscettibili di una molteplicità di interpretazioni tra loro compatibili, e tutte prive di una possibilità di verifica - mostrano la distanza che separa, nonostante transitori accostamenti, la tradizione metodologica delle scienze umane da quella delle scienze sociali. Che queste si propongano anche di comprendere i fenomeni che costituiscono il loro ambito oggettivo, di ricondurli al comportamento di 'attori' individuali e ai loro rapporti reciproci, di mettere in luce motivazioni e scopi di tale comportamento - come anche Weber ha sostenuto, parlando appunto di sociologia "comprendente" - non vuol dire che rifuggano dalla ricerca di una spiegazione per quanto possibile 'oggettiva', anche se condizionata da un punto di vista specifico. E la ricerca di spiegazione è pur sempre, al di là dei modelli ai quali può richiamarsi, una caratteristica comune dell'impresa scientifica.
Se si vuol determinare in che cosa consista la specificità delle scienze sociali rispetto ad altre discipline scientifiche ci si deve chiedere anzitutto quale sia il loro oggetto o, meglio, il loro ambito oggettivo. E la prima risposta che si presenta è che le scienze sociali avrebbero come oggetto la 'società', concepita come una realtà sui generis distinta da altre realtà, per esempio dalla natura. Da questo punto di vista le varie scienze sociali sono state concepite come discipline settoriali che si riferiscono ad aspetti diversi della società, quando non ne studiano invece - come nel caso della sociologia nell'accezione di Georg Simmel e di Leopold von Wiese - la struttura 'formale'.
Il ricorso alla nozione di società appartiene però a una fase ben precisa della storia delle scienze sociali, cioè a una fase caratterizzata dal predominio di prospettive organicistiche. Parlare di 'società' - o di società umana - al singolare era possibile in quanto si attribuiva ad essa una forma di esistenza irriducibile a quella degli individui che ne fanno parte. Un'impostazione del genere trovava la sua base nel fatto, di per sé innegabile, che gran parte delle istituzioni sociali hanno una durata superiore a quella degli individui, e permangono pur nel variare di questi; ma da tale fatto si inferiva, meno giustificatamente, che hanno anche una sussistenza indipendente da essi. L''organicismo' che questa concezione della società implica è però di due tipi, che occorre tenere logicamente distinti. Da un lato l'impostazione organicistica conduceva a considerare la società come un'entità ontologicamente definita, irriducibile agli individui che ne fanno parte, non senza pesanti implicazioni ideologiche. Di questo genere sono la concezione romantica della società come prodotto di uno 'spirito del popolo' che permane nel corso delle generazioni, determinando la peculiarità di tutte le forme di vita e della cultura del popolo; oppure la nozione di società che sta a base della sociologia positivistica o della marxiana scienza della società. Dall'altro lato si sono avuti invece modelli fondati sull'analogia tra organismo sociale e organismo biologico, che comportavano il frequente ricorso analogico a concetti desunti dalla fisiologia e, in genere, dalle scienze della vita. A questa seconda categoria appartengono soprattutto i modelli impiegati dall'evoluzionismo sociologico (o antropologico). Che i due tipi non coincidano è comprovato, tra l'altro, dalla sociologia spenceriana, per la quale la società, in quanto organismo "discreto" anziché "concreto", comporta una crescente autonomia delle 'parti' rispetto al 'tutto', e lo sviluppo sociale è finalizzato all'instaurazione di una società nella quale l'individuo sarà finalmente sottratto al potere coercitivo dello Stato.
L'eredità dell'impostazione organicistica è presente nelle scienze sociali ogni qual volta si sono fatte valere, al loro interno, prospettive 'olistiche' intese ad affermare la subordinazione dei singoli fenomeni a un fenomeno di portata più vasta. Ancora Durkheim, per esempio, poteva concepire la società come un'entità trascendente rispetto agli individui che ne fanno parte, e tuttavia immanente ad essi, "perché può vivere soltanto in noi e mediante noi"; e proprio richiamandosi a Durkheim un filone dell'antropologia novecentesca - quello che fa capo a Bronislaw Malinowski e ad Alfred R. Radcliffe-Brown - ha analizzato le società primitive in termini di struttura e di funzioni, cioè utilizzando un modello di chiara derivazione biologica. Più ambivalente appare il ricorso alla teoria dei sistemi, quale è stata formulata da Ludwig von Bertalanffy. La nozione di sistema come un insieme di elementi che tendono a raggiungere uno stato di equilibrio dinamico attraverso il duplice processo di trasformazione dell'energia sottratta all'ambiente in attività, e di elaborazione dell'informazione ricevuta in altra informazione, ha una indubbia matrice biologica; anzi, essa utilizza al tempo stesso concetti tratti dalla termodinamica e dalla teoria dell'informazione. Ma la teoria dei sistemi, trasposta in sede sociologica, ha permesso di porre in luce la complessità dei sistemi sociali, il loro rapporto con l'ambiente e le loro relazioni reciproche, la loro capacità di autoregolazione in contrasto con le tendenze entropiche, e ha sottolineato l'importanza del disordine come sfondo su cui si colloca l'azione ordinatrice di ogni sistema.
A questa concezione delle scienze sociali se ne è contrapposta un'altra, che in polemica con le prospettive 'olistiche' prescinde dal concetto stesso di società. Secondo questa impostazione - a cui è stato dato il nome, per altro discutibile, di 'individualismo metodologico' - l'ambito oggettivo delle scienze sociali è costituito da fenomeni e processi i quali derivano da relazioni tra individui, oppure da istituzioni che hanno però anch'esse la loro origine nel comportamento (o nell'azione) individuale. Mentre le prospettive 'olistiche' sono largamente diffuse nella sociologia come nell'antropologia del secolo XIX, la tradizione prevalente nella scienza economica è - se si fa eccezione per la scuola storica tedesca - una tradizione 'individualistica'. Lo stesso modello di homo oeconomicus, definito dallo sforzo di massimizzare i beni che può ottenere attraverso la produzione e lo scambio, poggia sul presupposto di un mercato nel quale agisce una pluralità di soggetti economici in competizione reciproca. È stato però Carl Menger, in polemica con l'impostazione organicistica della scuola storica, a far valere fin dagli anni ottanta del secolo scorso una visione dei fenomeni sociali come prodotto dell'azione di individui che costituiscono (com'egli li chiamava) gli "atomi" della società. Anche per Vilfredo Pareto, la cui opera si colloca sullo spartiacque tra economia e sociologia, i fenomeni sociali sono il risultato di azioni - siano esse 'logiche' oppure 'non logiche' - di soggetti individuali.A questa impostazione, e in particolare all'analisi di Menger, si è rifatto esplicitamente anche Max Weber nel definire l'oggetto della sociologia "comprendente". L'agire a cui questa si riferisce è - com'è detto all'inizio di Wirtschaft und Gesellschaft - un agire fornito di 'senso', a cui cioè gli individui agenti attribuiscono un 'senso' soggettivo riferito all'atteggiamento di altri individui; da questo agire, che può essere di vario genere (razionale rispetto allo scopo, razionale rispetto al valore, affettivo, tradizionale), derivano le relazioni sociali, che sono appunto forme di comportamento di più individui orientate sulla base di aspettative reciproche. E relazioni sono sia la comunità che la società, al pari del gruppo sociale e dei suoi diversi tipi. Questa definizione dell'oggetto della sociologia può valere, pur con le indispensabili precisazioni, per ogni altra scienza sociale: può valere in maniera immediata quando esse si occupano di microfenomeni sociali, e in maniera indiretta quando studiano invece fenomeni complessi e processi di lungo periodo, siano essi il mutamento culturale o lo sviluppo economico. In una prospettiva del genere anche la nozione di sistema si svincola dalla pretesa di designare la società come un 'tutto' organico: nella teoria di Parsons, ad esempio, i sistemi sono costituiti da interazioni tra individui, poggiano cioè sulle azioni e sulle aspettative reciproche degli 'attori' individuali. Lungi dall'essere intesa in termini di totalità, la società si presenta quindi come una molteplicità di sistemi di diverso tipo - sistemi di interazione in senso stretto, sistemi di organizzazione, sistemi funzionali - che assolvono funzioni di adattamento all'ambiente, di orientamento verso scopi specifici, di integrazione e di mantenimento di modelli latenti.
Nel loro sviluppo le scienze sociali si sono venute sempre più distaccando dalle prospettive 'olistiche' prevalenti nell'Ottocento, per adottare di preferenza modelli esplicativi che si propongono di ricondurre i fenomeni sociali a comportamenti di individui e a relazioni tra individui o - se vogliamo esplicitare il riferimento al 'senso' che la definizione weberiana contiene - a comportamenti e relazioni che hanno come 'soggetto' degli individui umani. La stessa impostazione sistemica appare non soltanto compatibile, ma complementare a un'analisi di carattere 'individualistico': quando si parla di sistema sociale, oppure di un sistema specifico come quello economico o politico o culturale e via dicendo, non si postula affatto che esso rappresenti una realtà di ordine superiore, e neppure un tutto coerente; e neppure si assume che ogni sistema sia deputato in maniera esclusiva allo svolgimento di determinate funzioni, e non possa trovare dei sostituti funzionali oppure avere, d'altra parte, delle funzioni latenti. Su questo punto la critica di Robert K. Merton al funzionalismo antropologico ha segnato una svolta decisiva.
Rimane a questo punto da chiederci quali siano le scienze sociali. Ma se queste rappresentano, come si è detto, non un insieme unitario ma una 'famiglia' di discipline, la risposta non può che essere elencativa, e fare riferimento allo sviluppo dei campi disciplinari che costituiscono tale famiglia. Le prime scienze sociali a costituirsi sono state, tra Sei e Settecento, l'economia politica e la scienza politica: ma, se la prima si è ben presto configurata in forma autonoma, dandosi un oggetto determinato, l'autonomia della seconda sarà poi messa in questione dal sorgere della sociologia, con la sua pretesa di valere come scienza onnicomprensiva della società. Tipicamente ottocentesche, anche nel ricorso a prospettive organicistiche, sono state invece la sociologia e l'antropologia, sia essa culturale o sociale. Altre discipline (e sotto-discipline) si sono venute costituendo ancora tra Otto e Novecento, spesso sulla base del rapporto con corpi dottrinali preesistenti o dall'incontro con le scienze naturali. La determinazione dell'ambito oggettivo delle scienze conduce perciò, inevitabilmente, a considerarne anche i confini e il modo in cui questi si sono venuti spostando nel corso del tempo.
Un posto a sé in questo quadro occupa la scienza giuridica. E ciò in quanto il suo oggetto è rappresentato non tanto da comportamenti quanto piuttosto da norme e da rapporti tra norme. Più precisamente, essa si riferisce a un tipo particolare di norme, cioè a quelle che un gruppo sociale organizzato politicamente - sia esso una tribù o lo Stato o qualsiasi altra formazione politica - ritiene vincolanti per i suoi membri, e di cui esige l'osservanza ricorrendo, se occorre, all'uso della forza per imporla. La scienza giuridica ha un'origine remota: essa risale, nel mondo europeo, allo sforzo di interpretazione e di raccolta compiuto dai giuristi romani di età imperiale, culminato nel Corpus giustinianeo; e il suo sviluppo ha trovato un supporto decisivo - dopo la ripresa della tradizione romanistica interrotta dalla diffusione dei diritti germanici - nel tentativo di delineare un diritto comune, comprendente sia il diritto romano sia quello canonico. Lo studio del diritto ebbe un ruolo importante nelle controversie per la supremazia tra papato e impero, e i giuristi fornirono argomenti in sostegno delle pretese di entrambi. Decisivo fu però l'incontro con le esigenze di unificazione del diritto e della giurisdizione di cui erano portatrici le monarchie assolute e - ove queste mancavano - i principati territoriali. Le scuole giuridiche vennero così integrate, al pari della nascente burocrazia, nel sistema dello Stato moderno, diventando su tutto il continente europeo lo strumento di un'opera di 'fissazione' del diritto che, attraverso le prime codificazioni settecentesche, mise capo al Codice napoleonico e poi ai numerosi codici ottocenteschi, mentre nel mondo anglosassone esse garantivano la continuità della common law, cioè di una giurisprudenza fondata sulle sentenze delle corti.
Formazione del diritto e sviluppo della giurisprudenza appaiono quindi strettamente legati. In ogni caso, e prescindendo dalle dispute dottrinali sulla natura del diritto che tanta parte hanno avuto in essa nei due ultimi secoli, rimane il fatto che la scienza giuridica si è occupata soprattutto di norme e della loro interpretazione, della costituzione di un corpo normativo coerente e organizzato in forma sistematica. Questo processo di 'razionalizzazione' del diritto ha avuto come termine di riferimento soprattutto lo Stato moderno, che attraverso la lotta vittoriosa contro il particolarismo feudale ha conquistato il monopolio dell'uso della forza legittima all'interno del proprio territorio; e anche quando esso ha lasciato sussistere, accanto alla propria legislazione, altre fonti di diritto, le ha collocate in una posizione subordinata e ne ha condizionato l'esistenza al proprio riconoscimento. In tal modo, tramontata la teoria del diritto naturale e venuta meno la sua funzione di criterio di legittimità del diritto positivo, questo si è configurato, in maniera più o meno esclusiva, come diritto statale o come giurisdizione particolare autorizzata dallo Stato stesso.In virtù di questo sviluppo le norme giuridiche si sono venute sempre più distinguendo da altri tipi di norme, come quelle del costume o della morale. E il criterio di distinzione è stato individuato nel carattere coattivo delle norme giuridiche, nell'esistenza di un apparato che ne garantisce l'osservanza e di sanzioni che colpiscono i comportamenti vietati. A questa impostazione si è richiamato Hans Kelsen nel costruire una 'dottrina pura' del diritto, fondata sulla distinzione (comune anche a Weber) tra validità normativa (ideale) e validità empirica (reale) delle norme giuridiche, oggetto rispettivamente della scienza giuridica e della sociologia giuridica. In tal modo Kelsen si proponeva di sottrarre la scienza giuridica a ogni elemento estraneo concependo il diritto come un ordinamento autonomo, costituito da norme in rapporto gerarchico tra loro fino a una 'norma fondamentale' da cui tutte le altre derivano. Questa concezione rigorosamente formalistica del diritto, che tanto successo ha avuto nei decenni centrali del Novecento, escludeva dalla scienza giuridica la considerazione del rapporto tra norme e comportamenti, e quindi del grado di efficacia delle norme e dell'ordinamento nel suo complesso. Ed essa rimandava a un altro tipo di considerazione, quella sociologica (o, per i diritti primitivi, antropologica). In questo spazio lasciato scoperto dalla scienza giuridica si sono collocate sia la sociologia sia l'antropologia del diritto, la prima dedicandosi allo studio della capacità delle norme giuridiche di influenzare il comportamento dei membri della società e, reciprocamente, di recepire le esigenze che emergono dal processo di trasformazione di una società, la seconda prendendo come oggetto sistemi giuridici non fondati sull'azione normativa dello Stato. In realtà, entrambe erano sorte ben prima che emergessero i limiti del formalismo giuridico, anzi ben prima della formulazione della teoria di Kelsen. La sociologia del diritto risale per lo meno a Weber, mentre l'antropologia giuridica ha compiuto i primi passi già a metà Ottocento, con il tentativo compiuto da Henry Sumner Maine in Ancient law (1861) di delineare un'evoluzione dei sistemi giuridici come passaggio dallo status al contratto.
L'appartenenza della scienza giuridica alle scienze sociali risulta quindi per lo meno problematica. A rigore, anzi, l'impostazione formalistica implica che la scienza giuridica non sia una scienza sociale; essa si occupa - per esprimerci nel linguaggio neokantiano di Kelsen - non dell'"essere" ma del "dover essere" delle norme. Ma questa impostazione ha conosciuto, negli ultimi decenni, un graduale declino; e ad esso ha fatto riscontro la ripresa della tradizione della giurisprudenza sociologica, inaugurata all'inizio del secolo da Hermann Kantorowicz e da Eugen Ehrlich. Questa ripresa dev'essere collegata a due motivi fondamentali che trascendono l'ambito disciplinare del diritto: da un lato il mutamento sociale e il proliferare della produzione di norme ha reso sempre più difficile concepire l'ordinamento giuridico come un sistema coerente; dall'altro il processo di globalizzazione ha sempre più imposto il confronto tra norme appartenenti a ordinamenti diversi, e ha altresì favorito l'affermarsi di 'fonti' normative sovranazionali. Ciò ha condotto a considerare sempre più il diritto non tanto come un sistema normativo quanto come un fenomeno sociale, spostando al tempo stesso l'accento dal 'sistema' giuridico alla cultura giuridica: in questa maniera la scienza giuridica si è venuta accostando alle scienze sociali, e ha adottato approcci e modelli caratteristici di quest'ultime.
Altre scienze sociali sono sorte dall'esigenza di studiare i rapporti tra fenomeni sociali e fenomeni di altro genere, che tuttavia condizionano il comportamento degli individui e le loro relazioni. La prima di queste, che abbiamo visto essere considerata da Parsons una delle tre scienze sociali di base, è la psicologia sociale. Di per sé la psicologia non è propriamente una scienza sociale, e infatti essa è nata, nel corso dell'Ottocento, come studio dei rapporti tra corpo e 'mente', tra comportamento fisico e comportamento psichico dell'essere umano - estendendosi poi, in epoca più recente, anche a processi analoghi osservabili presso varie specie animali. Ma, dal momento che lo sviluppo dell'intelligenza e, in generale, degli atteggiamenti dell'individuo presuppone il rapporto con gli altri, la considerazione del processo di socializzazione si è imposta come elemento essenziale dell'indagine psicologica. A partire dai primi decenni del secolo XX si è così sviluppata, ad opera di Gordon W. Allport e di altri studiosi, la psicologia sociale come ramo della psicologia, ma al tempo stesso come disciplina appartenente all'ambito delle scienze sociali. Per fare soltanto un esempio, un'opera come The authoritarian personality di Theodor W. Adorno (1950) ha consentito di mettere in luce la struttura di un tipo di personalità correlato con l'ideologia "etnocentrica" e con tendenze antidemocratiche: così fenomeni come il conservatorismo o l'adesione al fascismo sono stati indagati nelle loro radici psicologiche 'profonde', con il ricorso anche a concetti di origine psicanalitica. Anche la psicanalisi, infatti, sorta con Freud come indagine sull'inconscio e sui suoi rapporti con l'Ego e con il Super-Ego, ha ben presto rivolto la sua attenzione alla dimensione sociale dello sviluppo della personalità. E negli ultimi decenni la scienza cognitiva, proponendo una concezione della mente come elaborazione di informazione, ha aperto nuove prospettive allo studio dell'intelligenza e quindi, indirettamente, anche dei rapporti tra intelligenza e vita sociale.
Un ulteriore gruppo di discipline è indirizzato allo studio dei rapporti tra fenomeni sociali e fenomeni di altro genere, per lo più oggetto di indagine da parte di scienze naturali. Una preoccupazione diffusa nel periodo di costituzione delle scienze sociali è stata quella di affermarne l'autonomia epistemologica e quindi di tracciare un confine netto nei confronti delle discipline che studiavano la 'natura' biologica dell'uomo o il suo condizionamento da parte dell'ambiente. Questa preoccupazione fu espressa soprattutto da Durkheim ne Les règles de la méthode sociologique (1895), attraverso il principio che i fatti sociali possono essere spiegati soltanto sulla base di altri fatti sociali. Ma anche l'antropologia contemporanea fece valere - ad opera di Franz Boas e di Robert H. Lowie - il principio dell'autonomia dell'evoluzione culturale rispetto ai processi biologici e psichici, fino a qualificare il livello della cultura come 'superorganico', distinto da quello della vita organica. Questo principio è stato ripreso a metà del Novecento, in connessione con la tendenza ad attribuire alla società la responsabilità dei comportamenti individuali, in particolare di quelli considerati devianti. Un'impostazione del genere appare oggi caduta in desuetudine; e si sono venute invece moltiplicando le discipline di confine, che prendono in esame per un verso il condizionamento che la 'natura' biologica o l'ambiente esercitano sulla vita sociale e per l'altro verso l'azione trasformatrice che le società umane hanno svolto, e stanno svolgendo, nei confronti di entrambi.
La genetica non è certo, in quanto tale, una scienza sociale; tuttavia il contributo che essa sta dando allo studio delle società umane è ormai di grande rilievo, ed è destinato ad accrescersi. I comportamenti sociali dell'uomo e lo stesso linguaggio si rivelano sempre più dipendenti da fattori 'innati'. Un ramo specifico della genetica, la genetica delle popolazioni, si è dedicato alla ricostruzione dei processi di diffusione della specie umana sul globo terrestre, pervenendo a risultati che hanno trovato conferma nella ricerca paleoantropologica. Non meno importante è il ruolo assunto dalla demografia, la quale indaga processi sociali che hanno la loro base in fenomeni biologici come la nascita, la crescita, l'invecchiamento, la morte, e si presenta ormai come una disciplina 'ponte' tra scienze sociali e scienze biologiche. Sul versante opposto, quello dello studio dell'azione trasformatrice che le società umane esercitano nei confronti dell'ambiente - dall'ambiente ristretto che costituisce l'habitat di una società primitiva all'intero pianeta -, un'altra disciplina si è venuta sviluppando soprattutto negli ultimi decenni: l'ecologia. Essa si è affiancata a una disciplina più tradizionale come la geografia umana, spesso sovrapponendosi ad essa nello studio delle relazioni tra gli organismi viventi, compreso l'uomo, e i diversi tipi di ambiente. Anche l'ecologia è, al pari della genetica, una scienza naturale; ma essa si è sempre più trasformata in una scienza sociale in seguito all'emergere - nella seconda metà del Novecento - di una duplice preoccupazione: quella relativa alla progressiva riduzione delle risorse, soprattutto alimentari, in rapporto al ritmo di accrescimento della popolazione mondiale, e quella riguardante la minaccia che lo sviluppo industriale e postindustriale reca all'ecosistema complessivo del pianeta. Prospettive e proposte come quelle dei 'limiti dello sviluppo' o dello 'sviluppo sostenibile' hanno trovato la loro base proprio nei risultati della ricerca ecologica.
Se tutte queste discipline si collocano sullo spartiacque che separa le scienze sociali dalle scienze non sociali, altre ancora hanno avuto una ricaduta importante su di esse. È il caso soprattutto dell'etologia. Mentre la genetica e la demografia hanno mostrato la correlazione tra processi sociali e processi biologici, l'etologia ha reso problematico il confine tra comportamento umano e comportamento animale. Ne è derivata una correzione importante rispetto all'antropologia tradizionale, la quale aveva fatto della cultura - e del linguaggio - un attributo esclusivo dell'uomo. L'etologia ha infatti mostrato come molti comportamenti umani trovino riscontro in varie specie animali, e che le differenze tra uomo e animale rivestano carattere quantitativo piuttosto che qualitativo. Non diversamente dall'uomo, anche gli animali entrano in relazione tra loro, hanno una condotta che si può qualificare come sociale, hanno dei loro 'costumi', e quindi una cultura. L'etologia ha così generato una sotto-disciplina, l'etologia umana, che è oggi una scienza sociale a pieno titolo.
Il panorama delle scienze sociali si presenta quindi assai complesso, né deve stupire che esso continui ad arricchirsi di nuove discipline, come avviene soprattutto nello studio dei processi di comunicazione. Se l'impatto dell'informatica è ancora prevalentemente di carattere strumentale, il ricorso all'analogia tra intelligenza e calcolatore ha rappresentato il punto di partenza per studiare in una nuova prospettiva i processi dell'intelligenza artificiale; e forse i modelli di origine informatica sono destinati a prendere il posto che, nel secolo XIX, avevano i modelli biologici. Discipline come la semiotica forniscono una teoria generale dei segni e dei simboli, mentre la sociolinguistica studia il linguaggio come processo di comunicazione tra 'parlanti' e le sue trasformazioni in quanto condizionate dall'appartenenza a gruppi sociali diversi. Ma da questo panorama un fatto emerge in maniera inequivocabile: che i confini delle scienze sociali sono diventati sempre più mobili, che la loro 'famiglia' continua ad arricchirsi di nuovi membri, e che questo processo è lungi dall'essere concluso.
Del tutto diverso è il rapporto tra le scienze sociali e la storiografia. Quando le prime muovevano ancora i primi passi, la storiografia era ormai se non una disciplina in senso proprio, certamente un'attività coltivata da secoli; e nel corso del Seicento aveva conosciuto un affinamento tecnico rilevante, investendo anche il dominio della 'storia sacra' ed estendendosi alla storia ecclesiastica. Nel corso del secolo XVIII, poi, la storiografia illuministica aveva formulato un quadro complessivo della storia dell'umanità all'insegna dell'idea di progresso, allargando l'orizzonte storico oltre i confini del mondo europeo e spostando l'interesse dalla storia politica (e politico-militare) alla storia dei 'costumi', e quindi al processo di incivilimento. Se fino a tutto il Settecento lo sviluppo della storiografia e la nascita delle scienze sociali rappresentano fenomeni paralleli che non interferiscono tra loro - soltanto la cultura scozzese fece ricorso a categorie sociologiche in senso lato nell'interpretare la storia - in seguito le cose vennero a cambiare. Le scienze sociali mettevano infatti in questione il monopolio che la storiografia aveva tradizionalmente detenuto per quanto riguarda la conoscenza delle vicende umane. La scuola storica tedesca, con la sua aspirazione a dar vita a un edificio scientifico su base storica che abbracciasse tutti gli aspetti della vita sociale e ne cogliesse le 'tendenze' evolutive, costituisce in larga misura una reazione alla minaccia rappresentata dal sorgere di discipline indipendenti, che si proponevano di scoprire le 'leggi' della società e del suo sviluppo.
Diventa così chiaro il motivo per il quale scienze sociali e storiografia hanno per lungo tempo avuto rapporti antagonistici, quando pur ne avevano. Per un verso, infatti, anche le scienze sociali si riferivano a un materiale storico, seppure riguardante per lo più la contemporaneità; si riferivano ai processi dello sviluppo capitalistico o al funzionamento della monarchia assoluta o, più tardi, alla formazione di una società industriale. Tuttavia la limitazione alla contemporaneità non era affatto costitutiva della loro impostazione: se le 'leggi' della produzione e della distribuzione della ricchezza erano cercate attraverso lo studio dello sviluppo inglese assunto come esemplare, se l'analisi delle forme di governo traeva lo spunto dalle differenze tra l'assetto politico inglese e quello francese, già l'interpretazione della nascente società industriale guardava all'indietro, e poggiava sul suo confronto con un altro tipo di società organica, il 'sistema cattolico' poggiante su una base militare e teologica, che si era affermato nel corso del Medioevo. Dopo metà Ottocento, poi, l'antropologia risalirà agli inizi della storia greca e romana, avvalendosi di essa per comprendere lo sviluppo della cultura umana al suo emergere dallo stato selvaggio. E proprio l'antropologia tardo-ottocentesca perveniva a mettere sullo stesso piano, in uno sforzo di integrazione reciproca, la documentazione storica e la documentazione etnografica: basti pensare ad Ancient society di Lewis H. Morgan, pubblicata nel 1877. Per l'altro verso, però, scienze sociali e storiografia sembravano non soltanto distinte, ma irrimediabilmente divergenti nel loro orientamento metodologico. Mentre le scienze sociali andavano in cerca di regolarità, elaborando quindi 'tipi' di organizzazione sociale o determinando correlazioni di carattere causale o anche soltanto statistico tra processi sociali diversi, la storiografia si proponeva di ricostruire ogni fenomeno storico nella sua individualità, ossia in ciò che lo differenzia anche da fenomeni ad esso (apparentemente) simili. Il postulato della scuola storica secondo cui ogni popolo ha un proprio 'spirito', un proprio carattere nazionale, e ogni epoca ha anch'essa - secondo il paradigma rankiano - una fisionomia peculiare che la distingue da qualsiasi altra, agiva da spartiacque tra scienze sociali e storiografia. Al rapporto tra scienze sociali e storiografia fu così applicato il criterio di distinzione che Wilhelm Windelband aveva fatto valere tra scienze naturali e scienze storiche, fondato sull'orientamento "nomotetico" delle prime e su quello "idiografico" delle seconde.
In realtà, la cultura positivistica tentò di attenuare questa distanza, estendendo anche alla storiografia quel compito di ricerca di 'leggi' che avrebbe dovuto elevarla a dignità di scienza; ma questo tentativo non approdò a risultati consistenti. Più significativo fu lo sforzo del marxismo di dare alla ricerca storica una base sociologica, studiando i processi storici in termini di rapporti tra classi sociali; ma la teoria a cui esso faceva riferimento, cioè la teoria della società formulata da Marx, appariva sempre più distante dalle direzioni in cui la sociologia si andava sviluppando già a fine Ottocento. Soltanto più tardi, all'inizio del Novecento, la ricerca storica si propose di stabilire un rapporto positivo con le scienze sociali: ne sono testimonianza la proposta, da parte di Henri Berr, di una 'sintesi' storica in grado di procedere al di là della semplice raccolta di fatti fino alla formulazione di leggi generali, o la new history di Charles A. Beard e di James H. Robinson. E ad esse fece seguito lo sforzo compiuto dalla scuola delle "Annales" per attuare un'integrazione delle più diverse scienze sociali - oltre che della geografia - sotto l'egida della storiografia. Così per gran parte del Novecento si può osservare, nel panorama della ricerca storica, una spaccatura tra il paradigma storicistico, predominante soprattutto in ambito tedesco (e italiano), spesso pregiudizialmente ostile alle scienze sociali e soprattutto alla sociologia, e altri paradigmi, presenti sia nella storiografia francese che in quella anglosassone, i quali aspiravano a impiegare i modelli elaborati dalle nuove discipline ponendosi quindi sul loro stesso terreno.
Già Max Weber, all'inizio del secolo, aveva posto le basi metodologiche per realizzare questo nuovo rapporto. Le scienze sociali hanno per lui una funzione strumentale in vista della comprensione dei singoli processi storici nella loro individualità; ma da questo presupposto Weber non traeva affatto la conclusione dell'irrilevanza del sapere nomologico per la storiografia. Al contrario, se questa vuol essere conoscenza - allo stesso titolo delle scienze naturali, anche se in maniera diversa - deve avvalersi di concetti e di 'leggi', cioè di regolarità empiricamente determinate, per stabilire relazioni tra i fenomeni storici e cioè per 'spiegarli'. Ma questi concetti generali e queste 'leggi' sono offerti, appunto, dalle scienze sociali, dalla teoria economica come dalla teoria sociologica. Pur nell'autonomia reciproca che Weber riconosceva ad esse, il rapporto con le scienze sociali diventava così la condizione della scientificità della storiografia.A questo movimento dalla storiografia verso le scienze sociali ha fatto riscontro, nella seconda metà del Novecento, un movimento in senso inverso. Se fin dall'inizio l'antropologia aveva intrattenuto uno stretto rapporto con la storia, altre discipline si sono venute svincolando in misura crescente dal riferimento esclusivo alla contemporaneità: con Joseph A. Schumpeter, ad esempio, la teoria dei cicli economici ha cercato di offrire una spiegazione di processi plurisecolari, e anche la demografia è andata in cerca di tendenze di lungo periodo. Un caso a sé è rappresentato dalla sociologia, caratterizzata nella prima metà del secolo dall'interesse prevalente per processi sociali in corso che potevano essere osservati empiricamente, dai processi migratori dall'Europa in America allo sviluppo urbano e ai rapporti di classe nella società statunitense. Proprio all'interno della sociologia si è determinato, parallelamente all'esaurirsi dell'impostazione parsonsiana, la tendenza verso una sociologia 'storica', che facesse uso di materiale storico e che fosse orientata verso l'analisi di processi sociali di più lunga durata. Lo studio dei processi di modernizzazione condotto, a partire dagli anni Settanta, da autori come Reinhart Bendix, Barrington Moore jr., Theda Skocpol sembrava richiedere la determinazione delle diverse vie alla 'modernità' percorse dai singoli paesi, e degli esiti a cui avevano condotto sul terreno politico. La sociologia storica promosse perciò la comparazione tra contesti nazionali differenti, e si trasformò in 'storia comparata'. La storia comparata ha rappresentato, negli ultimi decenni, il terreno d'incontro tra scienze sociali e storiografia, in una prospettiva metodologica che si richiama assai più a Weber (ma anche al marxismo) che non alle pretese imperialistiche della scuola delle "Annales" e ai suoi troppo vaghi tentativi di concettualizzazione. La comparazione tra regimi totalitari e regimi democratici, sviluppata con particolare riguardo alla via autoritaria alla 'modernità' prevalsa in paesi come la Germania e il Giappone, ha comportato infatti l'integrazione tra ricerca storica e metodi di indagine propri delle scienze sociali. Ciò non vuol dire che si sia addivenuti a una 'fusione' e neppure a un'assimilazione di queste con la storiografia: le scienze sociali hanno mantenuto le loro caratteristiche epistemologiche, ma la distanza che le separava in passato dalla ricerca storica appare ormai largamente ridotta. Da parte sua la storiografia, svincolata dal paradigma storicistico, ha spesso rivendicato la sua natura di scienza, e precisamente di 'scienza sociale storica'.
A ciò facevano riscontro altri due fenomeni: da un lato il riconoscimento sempre più esplicito della storicità delle 'leggi' formulate dalle scienze sociali, dall'altro il rilievo che all'interno di parecchie discipline, soprattutto dell'economia, hanno assunto gli approcci di tipo dinamico. Lungi dall'enunciare regolarità di comportamento 'astratte', fornite di una validità atemporale, le 'leggi' economiche o sociologiche si sono rivelate valide limitatamente a un particolare ambito storico, cioè a uno specifico sistema economico o a una data società. D'altra parte, le scienze sociali si sono venute interessando in misura crescente non di equilibrio ma di mutamento e di 'fattori' del mutamento: la teoria schumpeteriana dello sviluppo economico ha trovato un pendant, dopo Parsons, nella ricerca delle modalità di trapasso dalle società tradizionali alle società moderne, delle condizioni che rendono possibile lo sviluppo sociale e la trasformazione delle strutture politiche. Il 'tempo' storico ha così riacquistato, dopo la caduta delle prospettive macrostoriche della sociologia e dell'antropologia ottocentesche, pieno diritto di cittadinanza nelle scienze sociali.
Non diversamente dalla moderna scienza della natura, anche le scienze sociali sono sorte con un esplicito intento conoscitivo, ossia con l'intento di conoscere la struttura della società e le sue 'leggi'. Ad esso si congiungeva però, fin dall'inizio, uno scopo pratico, che troviamo infatti presente nel programma dell'economia politica settecentesca e poi chiaramente enunciato da Comte con il suo richiamo a Bacone: la previsione fondata sulle 'leggi' deve rendere possibile l'intervento consapevole sul corso delle cose, rivolto a indirizzarlo verso determinati fini. Che poi questi fini venissero presentati come corrispondenti allo sviluppo oggettivo della società, cioè allo sviluppo della divisione del lavoro e all'accrescimento della "ricchezza delle nazioni" oppure al completamento della società industriale, ha un'importanza tutto sommato secondaria. Rimane il fatto che alle scienze sociali è stata fin dall'origine attribuita anche una funzione pratica.
Tuttavia il rapporto tra conoscenza scientifica dei fenomeni sociali e impiego dei risultati delle scienze sociali si è ben presto rivelato tutt'altro che univoco; e ciò in quanto i fini che la ricerca si proponeva di conseguire, lungi dall'essere dipendenti da quei risultati, condizionavano fin dall'inizio il suo orientamento. Soprattutto nella cultura tedesca le scienze sociali furono, per tutto l'Ottocento, concepite in funzione della politica 'nazionale' - e non a caso la political economy della scuola classica si trasformò in Nationalökonomie; anche la politica sociale che veniva proposta su tale base, per esempio dai "socialisti della cattedra", aveva come scopo ultimo quello di garantire, attraverso l'integrazione delle classi lavoratrici, le condizioni necessarie per il perseguimento degli obiettivi di potenza dello Stato.
La conseguenza di tale impostazione era il riconoscimento dei 'giudizi di valore' come elemento integrante delle scienze sociali, dalla cui ricerca ci si attendeva di poter trarre indicazioni di carattere scientifico non soltanto sui mezzi da adottare, ma anche sugli obiettivi da perseguire in sede politica. Ad essa si è però contrapposta la tesi weberiana della Wertfreiheit, cioè del necessario carattere 'avalutativo' delle scienze sociali. Max Weber ammetteva che la conoscenza della realtà sociale è sempre vincolata a presupposti 'soggettivi', e quindi a valori che presiedono alla selezione del dato empirico; ma riteneva che questa relazione di valore - com'egli la chiamava impiegando il linguaggio neokantiano - non fosse di ostacolo alla possibilità di pervenire a una 'verità' oggettivamente valida, a condizione però che non si traducesse nella formulazione di giudizi di valore. Egli faceva perciò valere una netta distinzione tra scienza empirica e determinazione di norme o direttive per la prassi. Al pari delle scienze naturali, anche le scienze sociali procedono - o, almeno, devono procedere - alla determinazione di rapporti causali tra i fenomeni a cui si riferiscono, cioè ne offrono una spiegazione. Che il tipo di spiegazione sia differente (così come differente è la funzione del sapere nomologico) non vuol dire che l'intento esplicativo sia proprio soltanto delle scienze naturali. Una volta definito - sulla base di uno specifico 'punto di vista' che esprime appunto la relazione a determinati 'valori' - l'ambito e la direzione della ricerca, questa può (e deve) procedere in base a regole metodiche che ne assicurano l'oggettività, così come fanno le scienze naturali. Weber ammetteva inoltre che i valori possono essere oggetto di indagine per quanto attiene alle condizioni e ai mezzi della loro realizzazione, cioè alla loro coerenza con i mezzi impiegati per realizzarli e alla loro compatibilità reciproca; ma riteneva che questa critica 'tecnica' non comportasse affatto un giudizio sulla 'validità' dei valori, il quale esula dall'ambito dell'indagine empirica ed è invece questione di fede, oppure oggetto di riflessione filosofica.La tesi weberiana dell'avalutatività delle scienze sociali ha rappresentato un ideale metodico largamente condiviso, in quanto permetteva di salvaguardare l''oggettività' delle scienze sociali pur riconoscendo la molteplicità (e la relatività) dei 'punti di vista' da cui la ricerca muove, e quindi il suo legame con una particolare situazione storica. Essa si è però scontrata con la tendenza a istituire un più stretto legame tra teoria e prassi, facendo delle scienze sociali uno strumento di trasformazione della società in vista di precisi obiettivi politici. Questa tendenza ha assunto, nel corso del Novecento, forme molteplici che possono però essere ricondotte a due varianti principali, corrispondenti alla diversa modalità del processo di trasformazione: da un lato una variante rivoluzionaria e dall'altra una variante riformistica. La prima variante si trova soprattutto nei tentativi di collegare scienze sociali e marxismo, facendo di esse il veicolo di una concezione della società fondata sulla prospettiva della transizione dal capitalismo a una società senza classi. La seconda variante, prevalente soprattutto nella cultura anglosassone, concepisce invece le scienze sociali come strumento per il miglioramento graduale delle condizioni materiali di vita degli uomini e per la diffusione del benessere. Alla prima alternativa corrisponde uno stretto rapporto tra scienze sociali, concezione del mondo e 'utopia' (anche quando questa viene presentata come scientificamente fondata); alla seconda corrisponde invece la loro finalizzazione a un'opera di 'ingegneria sociale'.
Entrambe queste tendenze affondano le loro radici nella fase iniziale di sviluppo delle scienze sociali. Il carattere utopico è fortemente presente nella sociologia positivistica, come del resto - nonostante la pretesa di fondare un socialismo 'scientifico' - nella marxiana scienza della società; mentre l'economia politica si è configurata piuttosto come una tecnologia sociale, come un insieme di indicazioni strumentali per il conseguimento di fini prefissati. Ma, con il venir meno dell'aspirazione a costituire la scienza onnicomprensiva della società, anche la sociologia ha dismesso la propria originaria tendenza utopica per trasformarsi in ingegneria sociale, cioè nella proposta di indicazioni per affrontare e risolvere problemi specifici. A differenza dell'utopia, che si propone di realizzare una società 'ideale' più o meno alternativa allo stato di cose esistente, l'ingegneria sociale ha di mira la correzione dei mali della società e la ricerca del benessere.
Anche l'ingegneria sociale è, in realtà, una forma di intervento ispirata a presupposti di valore; lo è in quanto essa aspira non soltanto a individuare i problemi sociali, ma a darne una soluzione che si ritiene scientificamente corretta, o la migliore possibile. Essa non è quindi neutrale rispetto ai fini da perseguire; non si limita a fornire una serie di indicazioni sulle vie da percorrere per la realizzazione dell'una o dell'altra soluzione. Lo scienziato sociale impegnato in un'attività 'ingegneristica' è portatore di valori, cioè di una linea politica che può coincidere, ma che non coincide necessariamente, con quella del governo o dell'organizzazione committente. Ciò apre tutta una serie di questioni - che sono state largamente dibattute nel corso degli anni Sessanta e Settanta - sul ruolo dell'economista o del sociologo, e sul compito 'critico' che, in quanto intellettuale, è chiamato ad assolvere. Questo compito, infatti, si presta a sua volta a una duplice interpretazione. Da una parte esso può venir inteso nel senso che la conoscenza della realtà sociale assolve, in quanto tale, una funzione demistificante rispetto al modo in cui essa viene presentata da parte di determinate posizioni ideologiche, quale che sia poi la base sociale o l'orientamento di queste; dall'altra si è presentata con una più esplicita caratterizzazione politica, cioè come critica delle implicazioni ideologiche che, in maniera più o meno esplicita, sottostanno alla stessa analisi delle scienze sociali. Nella prima di queste due accezioni il compito critico attribuito alle scienze sociali non contrasta con il postulato della 'avalutatività'; nella seconda, invece, la scienza sociale orientata criticamente si propone di svolgere una critica dell'assetto sociale presente, e quindi delle strutture di potere sulle quali esso riposa.
Come tutte le discipline scientifiche, anche le scienze sociali hanno conosciuto, soprattutto nel corso dell'ultimo secolo, un processo di crescente specializzazione. Non soltanto le scienze sociali nel loro insieme, ma ognuna di esse si presenta ormai come una 'famiglia' di discipline o - se vogliamo - di sottodiscipline. Questo processo s'inquadra nel più generale fenomeno della divisione del lavoro scientifico e dell'istituzionalizzazione della ricerca, comune a tutte le scienze. Ma esso ha anche un'altra origine più specifica: la complessità della società contemporanea, che ha generato - e viene generando - nuovi oggetti di studio, ai quali necessariamente si rivolge l'attenzione degli studiosi di scienze sociali. In un'epoca di continuo mutamento le scienze sociali si vedono costrette ad affrontare problemi prima sconosciuti, a spiegare fenomeni che non rientravano nel loro tradizionale campo di indagine, a metterli in relazione con fenomeni già noti. E ciò richiede anche il ricorso a nuove tecniche di ricerca. Così non soltanto l'ambito oggettivo, ma anche i quadri teorici delle scienze sociali si vanno sempre più articolando; né si può ipotizzare un ritorno all'indietro.
Al fenomeno della specializzazione scientifica rivolse la sua attenzione già Comte, che vi scorgeva un pericolo per il compito 'sintetico' da lui attribuito alla 'filosofia positiva' - un pericolo in qualche maniera parallelo a quello della specializzazione del lavoro industriale, generatrice di conflitti tra le classi. E la storia successiva delle scienze sociali è piena di analoghe preoccupazioni, che si manifestavano nell'appello a un'unità perduta da ricostituire. Da ciò ha preso l'avvio la tendenza all'unificazione delle scienze sociali, sia considerate come un edificio teorico autonomo, sia ricondotte a una costruzione unitaria che trovava il suo modello in qualche disciplina ad esse estranea. La stessa sociologia era stata del resto concepita, in origine, come una 'fisica sociale', mentre concetti e schemi esplicativi desunti dalla biologia furono largamente impiegati per tutto l'Ottocento: ancor oggi, del resto, metafore di stampo organicistico fanno parte del lessico delle scienze sociali.
L'esigenza di pervenire all'unificazione delle scienze sociali ha infatti una duplice matrice. Essa trae origine, in primo luogo, dalla consapevolezza che ogni scienza sociale è in grado di cogliere soltanto un aspetto particolare della vita sociale, che la sua capacità di spiegazione è limitata, oppure - all'opposto - dalla pretesa di una particolare disciplina di valere come modello per le altre. Particolarmente significativo è, sotto questo duplice profilo, il caso della scienza sociale più formalizzata, cioè della scienza economica. Da una parte essa si trova costretta, per spiegare processi di lungo periodo, a far ricorso a 'fattori' non economici, e quindi a teorie desunte dalla sociologia o dalla scienza politica o, più semplicemente, dalla ricerca storica. Dall'altra essa si è proposta (o è stata proposta) come modello epistemologico per tutte le scienze sociali, sulla base del presupposto che ogni individuo agisce sempre, in tutti i campi, in base al principio di economia, e che quindi la scienza economica è in grado di fornire l'apparato teorico indispensabile per spiegare anche il comportamento politico o altri tipi di comportamento. La teoria della 'scelta razionale', elaborata in sede economica, si è così venuta diffondendo anche in altre discipline, a partire dalla scienza politica. La seconda matrice della tendenza all'unificazione delle scienze sociali è da ricercarsi invece nel confronto con le scienze naturali, nella convinzione che condizione della scientificità delle scienze sociali sia l'adeguamento ai procedimenti e al linguaggio di altre scienze che siano pervenute a un più elevato grado di sviluppo.
Questa seconda matrice si trova soprattutto nel programma neopositivistico dell'unità della scienza, che rivela un'esplicita ispirazione fisicalistica. Se Comte pensava a una sociologia fondata su un sistema di leggi analogo a quello della fisica e dipendente, pur nella sua autonomia, dai sistemi di leggi delle discipline che la precedono nell'enciclopedia del sapere positivo, il neopositivismo si è proposto invece di 'ridurre' il linguaggio della sociologia - e, con esso, quello di qualsiasi scienza, sociale o no - al linguaggio della fisica, assunto come paradigmatico in virtù della possibilità di ricondurlo a enunciati di carattere osservativo. L'unificazione linguistica rappresentava così la contropartita di un programma di ricerca radicalmente empiristico, fatto valere contro la dicotomia epistemologica tra scienze sociali e scienze naturali. In realtà, questo programma ebbe scarsa incidenza sul lavoro effettivo delle scienze sociali, e fu ben presto abbandonato già nel corso degli anni Cinquanta; anche la sua riproposizione sotto forma di un modello unico di spiegazione, adottato (o da adottare) da qualsiasi scienza, non resistette alle critiche che gli furono rivolte. Insieme alla fisica, l'altra disciplina a cui le scienze sociali hanno spesso guardato come al loro modello è la biologia; e ciò quando la società venne concepita come un organismo da studiare nelle sue 'funzioni', e le sue istituzioni vennero equiparate a organi che dovevano assolvere ognuno determinate funzioni vitali necessarie alla vita del tutto. Anche se il funzionalismo sociologico e antropologico si è, nel corso del tempo, depurato dei suoi presupposti organicistici, il programma di una riduzione delle scienze sociali alla biologia è tutt'altro che tramontato. Ancora di recente Edward O. Wilson lo ha riproposto come condizione affinché le scienze sociali possano rientrare in quella che egli chiama la "sintesi moderna": una sintesi fondata sull'estensione alla vita sociale della teoria dell'evoluzione e, in particolare, della selezione naturale. Non più la fisiologia del primo Ottocento, ma una sociobiologia di impostazione evoluzionistica, collegata ai progressi della genetica e delle neuroscienze, è diventata così la base per una nuova versione del programma di unificazione delle scienze sociali. E c'è più di un indizio che fa supporre che all'informatica possa, in futuro, essere attribuito un compito 'unificante' analogo a quello della fisica o della biologia.
La tendenza all'unificazione delle scienze sociali non ha però dato finora il risultato che i suoi sostenitori si erano prefissi. Diverso è il caso della tendenza all'integrazione, che lasciando da parte qualsiasi pretesa di costruire una scienza unitaria della società punta piuttosto a combinare tecniche di ricerca e risultati di discipline diverse - di più scienze sociali oppure tra scienze sociali e scienze naturali o tra scienze sociali e ricerca storica. Se la tendenza all'unificazione poggia sul postulato che ogni disciplina fa parte di un tutto unitario, il processo di integrazione presuppone piuttosto che nessuna scienza sociale sia autosufficiente, e che l'articolazione in discipline sia il prodotto di una divisione del lavoro scientifico storicamente determinata, e quindi destinata anch'essa a modificarsi. Dal processo di integrazione sono sorte - come si è visto - e continuano a sorgere nuove direzioni di ricerca, destinate a dar luogo a nuove discipline o sotto-discipline. Lungi dal produrre un sistema di scienze ordinato gerarchicamente, esso ha piuttosto aperto vie inesplorate alla conoscenza dei fenomeni sociali, dei loro rapporti reciproci e del loro condizionamento da parte di fenomeni di altro genere. (V. anche Antropologia ed etnologia; Demografia; Diritto; Ecologia; Econometria; Economia; Epistemologia delle scienze sociali; Etologia; Genetica; Geografia umana; Giurisprudenza; Metodo e tecniche nelle scienze sociali; Politica: scienza della politica; Psicanalisi; Psichiatria; Psicologia sociale; Semiotica; Sociobiologia; Sociologia; Statistica applicata alle scienze sociali; Storia comparata).
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