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La Serbia è un paese balcanico, ultimo prodotto di un periodo di guerre che ne ha segnato il destino e l’esistenza durante l’intero arco degli anni Novanta. Formalmente indipendente solo dal 2006, quando il Montenegro decise in favore della dissoluzione dell’unione politica inaugurata tre anni prima con Belgrado, la Serbia è stata la più importante entità federata della Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia (1943-92) – guidata dal presidente Tito per gran parte della sua storia (1953-80) – e in seguito della Repubblica Federale di Iugoslavia. Dal 1992 la Iugoslavia è andata incontro a una costante metamorfosi istituzionale e territoriale, causata dal riemergere dei sentimenti di appartenenza nazionale nelle diverse Repubbliche federate. Sfociate spesso in conflitti violenti, le istanze separatiste hanno messo in atto un processo di frammentazione della Federazione proseguito per oltre un decennio. Tra il 1991 e il 1995 Slovenia, Macedonia, Croazia e Bosnia-Erzegovina hanno raggiunto una dopo l’altra l’indipendenza, scindendosi dal territorio federale. Con la conclusione del processo di indipendenza del Montenegro, nel 2006, la Serbia ha infine perso l’ultimo accesso diretto al mare che le era rimasto.
La rilevanza della Repubblica Serba all’interno della Iugoslavia è andata mutando in funzione delle vicissitudini storiche e politiche. Il presidente Tito era di origini sloveno-croate, e anche per questo motivo cercò di limitare l’influenza dei serbi sulla Federazione, creando due regioni autonome all’interno della Repubblica Socialista Serba (Vojvodina nel nord e Kosovo nel sud) e concedendo loro una forte autonomia. Dalla fine degli anni Ottanta i serbi, giunti infine a controllare le strutture nevralgiche della Federazione, si posero come obiettivo quello di rafforzare e centralizzare la Iugoslavia, mentre croati e sloveni si schierarono a favore del decentramento. Slobodan Milošević, leader del Partito socialista serbo, presidente della Serbia tra il 1989 e il 1997 e presidente della Repubblica Federale Iugoslava tra il 1997 e il 2000, traghettò il paese fuori dal socialismo adottando metodi di governo autoritari e politiche fortemente nazionaliste, tese a trattenere tutte le Repubbliche all’interno della Federazione. Il processo a cascata di dichiarazioni di indipendenza delle ex Repubbliche socialiste generò, tra gli altri, due lunghi e sanguinosi conflitti che coinvolsero la Serbia: quello con la Bosnia-Erzegovina (1992-95) e quello con la regione secessionista del Kosovo (1998-99). Il livello di violenza toccato dal conflitto in Bosnia e la prossimità all’Europa occidentale sollecitarono l’intervento delle Nazioni Unite e, a seguito del parziale fallimento delle operazioni di peacekeeping, di una coalizione di paesi occidentali a guida Nato. Dopo la firma degli Accordi di Dayton (1995) tra Serbia, Bosnia e Croazia, è la Nato stessa a essersi fatta garante dell’indipendenza bosniaca, mentre un’altra forza internazionale occupa dal 1999 la regione a maggioranza albanese del Kosovo, dotatasi di un governo di fatto indipendente da Belgrado. La crisi del Kosovo non è ancora terminata: nel 2008 il Parlamento della regione ha dichiarato l’indipendenza formale, che la Serbia non ha riconosciuto, al contrario di molti e rilevanti attori della comunità internazionale (tra cui Francia, Germania, Stati Uniti e Italia).
Sul versante delle relazioni internazionali, durante la Guerra fredda la Iugoslavia adottò un modello politico-economico di stampo socialista, ma prese rapidamente le distanze dall’Unione Sovietica, ponendosi alla testa del ‘Movimento dei paesi non allineati’ e inaugurando un periodo di mitigato isolamento internazionale. Per tutti gli anni Novanta, la Federazione si ritrovò in guerra e diplomaticamente sempre più isolata, trovando un partner diplomatico soprattutto nella Russia post-sovietica, autrice di un riavvicinamento verso Belgrado dopo i dissidi del periodo titino. Dall’estromissione di Milošević nel 2000, tuttavia, Belgrado ha assunto posizioni sempre più favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea (Eu) e ha scelto di collaborare con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia. L’arresto dell’ex colonnello serbo Ratko Mladić, avvenuto nel maggio del 2011, costituisce un tassello aggiuntivo alla collaborazione tra la Serbia e la giustizia internazionale e rappresenta un passo avanti all’interno del processo di adesione nell’Unione Europea. La Serbia ha tuttavia mantenuto importanti relazioni con la Russia, che sostiene il rifiuto di Belgrado di riconoscere l’indipendenza del Kosovo e rappresenta un rilevante partner energetico del paese.
Il Tribunale per l’ex Iugoslavia è il primo tribunale penale speciale istituito dopo i tribunali militari di Norimberga (1945-46), creati per giudicare i crimini dei gerarchi nazisti. A differenza di Norimberga, la pena massima che il Tribunale può erogare è l’ergastolo e non la pena di morte. Tradizionalmente, la giurisdizione dell’azione penale in merito a crimini internazionali compete ai tribunali nazionali dello stato nel quale il crimine è stato commesso. La decisione di costituire un tribunale speciale da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha avuto come principale obiettivo quello di sopperire alle inefficienze e alla frequente riluttanza ad agire da parte delle corti nazionali. La collaborazione del singolo stato rimane tuttavia necessaria, quantomeno per la cattura e la consegna al Tribunale degli imputati latitanti.
Dei 161 individui accusati dal Tribunale tra il 1994 e la fine del 2010, 100 hanno raggiunto il termine del procedimento che li vede coinvolti e 48 di questi sono stati giudicati colpevoli. Tra i processi più importanti è da annoverare quello imbastito nei confronti di Slobodan Miloševi´c: iniziato nel 2002, il dibattimento non è potuto giungere al termine a causa della morte in cella dell’ex presidente serbo, a pochi mesi dalla prevista sentenza di primo grado. Con la cattura di Karadži´c nel luglio 2008 e di Ratko Mladi´c nel maggio del 2011, rimane latitante solo Goran Hadži´c.
Ai lavori del Tribunale hanno preso parte alcuni importanti giuristi italiani; tra questi, Antonio Cassese è stato il primo presidente del Tribunale (1993-97), carica in seguito ricoperta anche da Fausto Pocar (2005-08).
Con la nuova Costituzione, adottata nel 2006, la Serbia si è dichiarata indipendente dall’unione politica con il Montenegro e ha scelto la forma di governo parlamentare. Malgrado ciò, il presidente resta eletto a suffragio popolare diretto. Attualmente la carica è ricoperta da Boris Tadić, già presidente della Serbia e Montenegro tra il 2004 e il 2006. Dalle elezioni parlamentari del 2008 primo ministro è invece Mirko Cvetković, leader della coalizione di governo composta dal partito Per una Serbia europea (Zes) e dal Partito socialista (Sps), sostenuto da una esigua maggioranza di 128 seggi su 250. Il nazionalista Partito radicale (Srs), che si oppone all’ingresso in Europa, resta tuttavia la seconda formazione per forza elettorale nel paese.
L’ultimo censo effettuato sul territorio serbo risale al 2002, quando il paese era ancora unito al Montenegro e comprendeva anche il Kosovo. I dati permettono tuttavia di concentrarsi esclusivamente sulla Serbia attuale. La composizione etnica della Serbia (escludendo il Kosovo) è divenuta sempre più omogenea nel corso degli anni Novanta: se nel 1991 la popolazione di etnia serba costituiva circa il 77% della popolazione, nel 2002 tale percentuale era salita al 82% e toccava punte del 90% nella regione della Serbia centrale. La minoranza magiara costituisce invece circa il 4% della popolazione totale, ma supera il 14% degli abitanti nella regione settentrionale della Vojvodina. Le appartenenze religiose rispecchiano quelle etniche: in tutta la Serbia – escluso il Kosovo – l’85% degli abitanti è cristiano ortodosso, il 5,5% cattolico e il 3,2% musulmano.
L’omogeneità etno-religiosa della popolazione serba contrasta notevolmente con la composizione della regione del Kosovo, dove nel 2002 l’etnia albanese costituiva l’87% della popolazione e quella serba solo il 7%.
Le guerre degli anni Novanta sono state all’origine di una considerevole quantità di rifugiati da e verso il paese. Allo stesso modo l’attuale numero di sfollati interni resta alto, stimato attorno alle 220.000 unità. Ciononostante, il totale di sfollati e rifugiati nel paese è gradualmente diminuito nel corso degli ultimi anni: le circa 490.000 persone registrate dall’Unhcr nel 2005 sono scese a 330.000 nel corso del 2011.
Sotto il profilo del welfare, la spesa sanitaria è tra le più alte al mondo (quasi il 10% sul pil), anche se nell’ultimo decennio il comparto sanitario si è dimostrato sempre meno efficiente. Allo stesso modo il sistema scolastico serbo, che nel periodo socialista godeva di un’alta reputazione e concorreva con i migliori sistemi europei, ha accusato un tracollo negli anni Novanta e oggi beneficia di aiuti provenienti dall’Eu e diretti soprattutto verso l’istruzione secondaria.
Due piaghe sociali, infine, si sono andate parallelamente rafforzando nel corso degli anni Novanta. La prima di esse è generata dal forte potere di seduzione che il nazionalismo serbo più oltranzista esercita su ampie fasce della popolazione, e particolarmente sui giovani disoccupati. L’ultranazionalismo si è reso responsabile di costanti episodi di violenza nelle maggiori città del paese, inclusa Belgrado. Il secondo problema è costituito dalla mafia serba, che continua a mantenere una presenza capillare in alcune regioni del paese: nel marzo 2003 l’organizzazione giunse ad assassinare l’allora primo ministro Zoran Đinđić, colpevole di aver espresso il suo impegno nella lotta al crimine organizzato e di aver istituito un Tribunale speciale per i crimini di stampo mafioso. Le maglie della mafia e quelle dell’ultranazionalismo giungono talvolta a intrecciarsi, come dimostrano le collusioni (accertate giudizialmente) tra membri della polizia segreta serba che abbracciano ideali radicali ed esponenti di spicco delle organizzazioni criminali.
Le guerre balcaniche hanno avuto un forte impatto sull’economia serba. Il prodotto interno lordo (calcolato in dollari costanti del 2000), che toccava gli 11 miliardi di dollari nel 1990, si abbatté a 5 miliardi nel 1993 per poi risalire molto lentamente nel tempo. A tutt’oggi, il valore reale dell’economia serba resta inferiore a quello del 1990. La crescita del pil ha conosciuto una notevole accelerazione soltanto nel periodo 2003-07, quando questo aumentò di circa il 6% all’anno, trascinato dall’espansione della domanda interna.
La transizione verso un’economia di servizi è avvenuta in tempi decisamente più lenti rispetto ad altri paesi balcanici, e il peso dell’industria e dell’agricoltura resta ancora importante (assieme contribuiscono per il 42% al pil del paese). Le politiche fiscali serbe si sono inoltre dimostrate generalmente lassiste, dando origine a una costante crescita del debito pubblico – che tuttavia si mantiene a tutt’oggi entro livelli contenuti (36% del pil).
L’economia serba risente della mancanza di competitività sui mercati internazionali delle proprie imprese, soprattutto a livello europeo, e della propensione della forte domanda interna a rivolgersi a prodotti di importazione. Per tali motivi, il deficit di bilancia commerciale del paese è ampio (attorno al 22% del pil del paese nel 2008). Nello stesso periodo gli investimenti diretti esteri in entrata nel paese sono cresciuti notevolmente, toccando un picco di 5,6 miliardi di dollari nel 2006. Ciò è dovuto principalmente alle recenti privatizzazioni di imprese statali, andate ad aggiungersi alla liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni.
Sul versante energetico, la Serbia fa affidamento in misura preponderante sull’estrazione e il consumo di carbone (51% del mix energetico nazionale nel 2008), mentre le importazioni di gas e di petrolio provengono in massima parte dalla Russia. Diversamente da quanto si verifica tra la Russia e altri paesi dell’est europeo, le relazioni tra Belgrado e Mosca continuano a essere buone, e per questo l’interdipendenza energetica tra i due paesi ad oggi non ha dato adito a problemi. A riprova dei buoni rapporti che intercorrono tra Russia e Serbia sul fronte energetico, a fine 2008 il Parlamento serbo ha ratificato un accordo di vendita a Gazprom (compagnia energetica statale russa) di una quota azionaria del 51% della compagnia petrolifera nazionale serba.
Dal primo gennaio del 2011 la Serbia ha abolito la leva obbligatoria, dando avvio alla totale professionalizzazione delle forze armate. Tale decisione fa parte delle direttive di modernizzazione del settore della difesa tracciate dal governo, in cooperazione con la Commissione europea e la Nato. Nel 2007 ha infatti avuto inizio un periodo di valutazione delle forze di difesa serbe, che due anni più tardi ha condotto all’adozione di una nuova strategia di sicurezza nazionale e di una strategia di difesa.
Oltre alla professionalizzazione delle forze armate, i documenti governativi individuano l’esigenza di ridurre il numero dei militari nell’esercito serbo, oggi primo per dimensioni nella regione balcanica occidentale. Allo stesso tempo, Belgrado è incoraggiata ad adottare misure volte a ricondurre l’esercito sotto il saldo controllo del potere civile.
Sebbene la Serbia ritenga che una parte del suo territorio – la regione del Kosovo – resti a tutt’oggi occupata in maniera illegittima da forze internazionali, nel settembre 2006 il presidente Tadić ha firmato con gli Stati Uniti uno storico Accordo sullo status delle forze militari (Sofa) presenti nel paese, che riconosce e regola la presenza di soldati americani in Kosovo e attraverso il quale le parti si impegnano a una maggiore cooperazione militare. Nello stesso anno la Serbia è inoltre entrata a far parte del programma Partnership for Peace della Nato. Malgrado ciò, l’opinione pubblica serba rimane marcatamente ostile a un eventuale approfondimento dei rapporti con l’Alleanza atlantica, accusata di aver illegittimamente sostenuto l’istanza indipendentista kosovara, bombardando il paese durante la campagna militare del 1999.