Vedi Serbia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Serbia è un paese balcanico, modellato da un periodo di guerre che ne hanno segnato il destino e l’esistenza durante tutti gli anni Novanta. Formalmente indipendente solo dal 2006, quando il Montenegro decise in favore della dissoluzione dell’unione politica inaugurata tre anni prima con Belgrado, la Serbia è stata la più importante entità della Repubblica socialista federale di Iugoslavia (1943-92), guidata dal presidente Tito per gran parte della sua storia (1953-80). In seguito ha costituito il cuore della Repubblica federale di Iugoslavia. A partire dal 1992 la Iugoslavia ha subito costanti metamorfosi istituzionali e territoriali, causate dal riemergere dei sentimenti di appartenenza nazionale nelle diverse repubbliche. Sfociate spesso in conflitti violenti, le istanze separatiste hanno provocato un processo di frammentazione della federazione che è durato oltre un decennio. Tra il 1991 e il 1995 Slovenia, Macedonia, Croazia e Bosnia-Erzegovina hanno raggiunto una dopo l’altra l’indipendenza. Con la conclusione del processo di indipendenza del Montenegro, nel 2006, la Serbia ha perso anche l’ultimo accesso diretto al mare. La rilevanza della Repubblica serba all’interno della Iugoslavia è andata mutando in funzione delle vicissitudini storiche e politiche. Il presidente Tito era di origini sloveno-croate e anche per questo motivo cercò di limitare l’influenza dei serbi sulla federazione, creando due regioni autonome all’interno della Repubblica socialista serba (Vojvodina nel nord e Kosovo nel sud) e concedendo loro una forte autonomia. Dalla fine degli anni Ottanta i serbi, giunti infine a controllare le strutture nevralgiche della federazione, si posero come obiettivo rafforzare e centralizzare la Iugoslavia, mentre croati e sloveni si schierarono a favore del decentramento. Slobodan Milošević, leader del Partito socialista serbo, presidente della Serbia tra il 1989 e il 1997 e della Repubblica federale iugoslava tra il 1997 e il 2000, traghettò il paese fuori dal socialismo adottando metodi di governo autoritari e politiche fortemente nazionaliste tese a trattenere le repubbliche all’interno della federazione. Il processo a cascata delle dichiarazioni di indipendenza delle ex repubbliche socialiste generò, tra gli altri, due lunghi e sanguinosi conflitti che coinvolsero la Serbia: quello con la Bosnia-Erzegovina (1992-95) e quello con la regione secessionista del Kosovo (1998-99). Il livello di violenza toccato dal conflitto in Bosnia e la prossimità all’Europa occidentale sollecitarono l’intervento delle Nazioni Unite e, a seguito del parziale fallimento delle operazioni di peacekeeping, di una coalizione di paesi occidentali a guida Nato. Dopo la firma degli accordi di Dayton (1995) tra Serbia, Bosnia e Croazia, fu la Nato stessa a farsi garante dell’indipendenza bosniaca e a occupare dal 1999 la regione a maggioranza albanese del Kosovo, che si era dotata di un governo di fatto indipendente da Belgrado. La crisi del Kosovo non è ancora terminata: nel 2008 il parlamento della regione ha dichiarato l’indipendenza formale, che la Serbia non ha riconosciuto al contrario di molti e rilevanti attori della comunità internazionale (tra cui Francia, Germania, Stati Uniti e Italia). Una svolta nel processo di stabilizzazione e di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo sembra essere finalmente arrivata il 19 aprile 2013. Dopo mesi di trattative e nove round di incontri tra i due primi ministri (da un lato il serbo Ivica Dačić, dall’altro il kosovaro Hashim Thaçi) mediati dall’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea (Eu), Catherine Ashton, si è raggiunto a Bruxelles un accordo di 15 punti che affronta alcune delle questioni che hanno bloccato a lungo i negoziati: lo status e l’autonomia politica, culturale e giudiziaria del Kosovo settentrionale, abitato per il 94% da cittadini serbo-kosovari che non riconoscono il governo di etnia albanese e le condizioni dell’adesione di Priština alle organizzazioni internazionali. Sul primo tema l’accordo garantisce ampia autonomia all’associazione dei comuni serbi del Kosovo, i quali disporrebbero così di un proprio apparato di polizia che dovrebbe comunque agire nel quadro legale istituzionale del Kosovo, rispettando pertanto la sovranità di quest’ultimo. Per quanto riguarda invece l’adesione di Priština alle organizzazioni internazionali, l’accordo obbligherebbe le parti a non ostacolarsi nei rispettivi processi di integrazione europea. L’intesa ha altresì aperto la strada alla partecipazione della comunità serbo-kosovara del nord alle consultazioni amministrative del novembre 2013, consentendo di fatto l’apertura dei negoziati di adesione all’Eu da parte della Serbia – quantunque essa continui a non riconoscere l’indipendenza di Priština – e l’avvio dell’iter per la sigla dell’Accordo di stabilizzazione e associazione (Asa) da parte del Kosovo.
Sul versante delle relazioni internazionali, durante la Guerra fredda la Iugoslavia adottò un modello politico-economico di stampo socialista, ma prese rapidamente le distanze dall’Unione Sovietica, ponendosi alla testa del ‘Movimento dei paesi non allineati’ e inaugurando un periodo di mitigato isolamento internazionale. Per tutti gli anni Novanta la federazione si ritrovò in guerra e diplomaticamente sempre più isolata, trovando un partner diplomatico soprattutto nella Russia post-sovietica, autrice di un riavvicinamento verso Belgrado dopo i dissidi del periodo titino. Dall’estromissione di Milošević nel 2000, tuttavia, Belgrado ha assunto posizioni sempre più favorevoli all’ingresso nell’Eu e ha scelto di collaborare con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia. Gli arresti nel 2011 dell’ex colonnello serbo Ratko Mladić e dell’ex presidente della Repubblica serba di Krajina Goran Hadžić hanno rafforzato la collaborazione tra la Serbia e la giustizia internazionale e rappresentano un passo avanti nel processo di adesione all’Eu. Nel marzo 2012 la Serbia ha difatti ottenuto lo status di paese candidato e il 21 gennaio 2014 si è svolta la prima conferenza intergovernativa per l’avvio delle trattative per l’ingresso nello spazio comunitario. Nonostante tale percorso di avvicinamento alle strutture europee, la Russia resta il paese con cui la Serbia intrattiene buone relazioni sia dal punto di vista politico (Mosca non riconosce l’indipendenza del Kosovo) sia economico a causa degli ingenti flussi di investimenti e progetti di collaborazione specialmente nel campo energetico: oltre alla joint venture con South Stream, le principali compagnie energetiche russe sono state coinvolte nel processo di privatizzazione di aziende serbe del settore. Questa relazione speciale è stata peraltro suggellata nel 2013 con la firma della Dichiarazione di partnership strategica.
Con la nuova Costituzione, adottata nel 2006, la Serbia si è dichiarata indipendente dall’unione politica con il Montenegro e ha scelto la forma del governo parlamentare. Malgrado ciò, il presidente resta eletto a suffragio popolare diretto. Fino al 2012 la carica è stata ricoperta da Boris Tadić, esponente del filo-europeo Partito democratico (Ds) e già presidente della Serbia e Montenegro tra il 2004 e il 2006. Dalle elezioni presidenziali del 2012 è invece uscito vincitore Tomislav Nikolić, leader del Partito progressista (Sns), che ha anche ottenuto la maggioranza relativa nelle votazioni per il parlamento. Sns, nata come formazione di ispirazione nazionalista, col tempo si è spostata su posizioni più conservatrici – e si è alleata col Partito socialista (Sps) di Ivica Dačić, che è stato primo ministro fino al marzo 2014, prima di lasciare l’incarico al suo alleato di coalizione Aleksandar Vučić nelle elezioni legislative anticipate del 16 marzo 2014. In queste consultazioni Vučić è diventato il nuovo premier, mentre Dačić ha assunto la carica di ministro degli esteri. Il voto anticipato si era reso necessario nel duplice tentativo di porre un limite alla litigiosità all’interno dei partiti della coalizione di governo e dello stesso Sns di Vučić.
L’azione del nuovo esecutivo sarà basata su una continuità di obiettivi: dalla normalizzazione dei rapporti con il Kosovo al prosieguo dei negoziati di adesione con l’Unione Europea, passando per il processo di riforme interno e per la lotta alla corruzione e alla criminalità, aspetti che Bruxelles sta monitorando attentamente per valutare l’andamento dell’iter di integrazione.
La composizione etnica della Serbia (escludendo il Kosovo) è divenuta sempre più omogenea nel corso degli anni Novanta: se nel 1991 la popolazione serba costituiva circa il 77% del totale, in base al censimento del 2011 questa era arrivata all’83%. La minoranza magiara costituisce invece circa il 3,5% del totale, ma supera il 14% degli abitanti nella regione settentrionale della Vojvodina. Proprio quest’ultima, sull’onda del voto referendario scozzese del settembre 2014, ha ufficialmente inviato una richiesta di maggiore autonomia al governo di Belgrado. Le appartenenze religiose rispecchiano quelle etniche: in Serbia l’85% degli abitanti è cristiano ortodosso, il 5,5% cattolico e il 3,2% musulmano; in Kosovo l’etnia albanese costituisce oggi il 92% del totale e la popolazione è in gran parte musulmana.
Le guerre degli anni Novanta hanno provocato un intenso flusso di rifugiati da e verso il paese. Il numero degli sfollati interni resta alto, attorno alle 220.000 unità. Ciononostante, sfollati e rifugiati sono gradualmente diminuiti negli ultimi anni: da circa 490.000 persone registrate dall’Unhcr nel 2005 si è scesi a 300.000 nel 2012. Sotto il profilo del welfare, la spesa sanitaria è tra le più alte al mondo (il 6,4% del pil), anche se nell’ultimo decennio il comparto si è dimostrato sempre meno efficiente. Allo stesso modo il sistema scolastico serbo, che nel periodo socialista aveva un’alta reputazione e concorreva con i migliori sistemi europei, ha subito un crollo negli anni Novanta e deve oggi sfruttare gli aiuti provenienti dall’Eu e diretti soprattutto verso l’istruzione secondaria.
Due piaghe sociali, infine, si sono andate parallelamente diffondendo nel corso degli anni Novanta. Un problema è la capacità di persuasione che il nazionalismo serbo più oltranzista esercita su ampie fasce della popolazione, e particolarmente sui giovani disoccupati. L’ultranazionalismo è alla radice di molti episodi di violenza nelle maggiori città del paese, inclusa Belgrado. Il secondo problema è costituito dalla criminalità organizzata locale che mantiene una presenza capillare in alcune regioni del paese. Il 12 marzo 2003 riuscì ad assassinare l’allora primo ministro Zoran Đinđić, colpevole di aver espresso il proprio impegno nella lotta al crimine organizzato e di aver istituito un tribunale speciale per i crimini di stampo mafioso. Le strutture delle organizzazioni criminali e quelle dei gruppi ultranazionalisti giungono talvolta a intrecciarsi, come dimostrano le collusioni (accertate giudizialmente) tra affiliati della polizia segreta serba ed esponenti di spicco delle organizzazioni criminali.
Le guerre balcaniche hanno avuto un forte impatto sull’economia serba. Il prodotto interno lordo (calcolato in dollari costanti del 2000), che toccava gli 11 miliardi di dollari nel 1990, crollò a 5 miliardi nel 1993 per poi risalire molto lentamente. La nuova crescita del pil ha conosciuto una notevole accelerazione soltanto nel periodo 2003-07, a un tasso del 6% circa l’anno, trascinata dall’espansione della domanda interna. Attualmente il pil serbo è arrivato a 44,3 miliardi di dollari.
La transizione verso un’economia di servizi è avvenuta in tempi più lenti rispetto agli altri paesi balcanici. Industria e agricoltura restano ancora importanti nell’economia serba (assieme compongono il 38,3% del pil). Le politiche fiscali serbe si sono inoltre dimostrate generalmente lassiste, dando origine a una costante crescita del debito pubblico che ha raggiunto quasi il 70% del pil.
Un ruolo importante è giocato dagli aiuti internazionali e dalle rimesse. L’Eu ha contribuito nel 2012 con oltre 250 milioni di dollari di aiuti, mentre la Russia ha fornito prestiti agevolati per un totale di un miliardo di dollari. Al contempo, la Serbia sta negoziando con il Fondo monetario internazionale un nuovo sostegno finanziario che dovrebbe rinforzare la stabilità macroeconomica. Le prospettive dell’economia serba restano tuttavia strettamente collegate all’evoluzione nell’area euro.
L’economia serba risente della mancanza di competitività delle proprie imprese sui mercati internazionali e soprattutto a livello europeo, e della propensione della domanda interna, che è piuttosto sostenuta, a rivolgersi a prodotti di importazione. Per tali motivi, il governo sta provvedendo allo sviluppo di programmi di contenimento del deficit di bilancia commerciale, che mira a portare sotto il 5% del pil. Parallelamente, gli investimenti diretti esteri, pari a diversi miliardi di dollari negli anni Duemila, si sono fortemente contratti nel 2012 (emblematico il caso dell’acciaieria di Smederevo, ceduta dalla Us Steel al governo serbo per 1 dollaro). Un’inversione di tendenza è prevista per i prossimi anni, grazie soprattutto agli investimenti provenienti dalla Russia.
Sul versante energetico, la Serbia fa affidamento in misura preponderante sull’estrazione e sul consumo di carbone (che rappresenta il 54% del mix energetico nazionale), mentre le importazioni di gas e di petrolio provengono in massima parte dalla Russia. Diversamente da quanto avviene tra la Russia e gli altri paesi dell’est europeo, le relazioni tra Belgrado e Mosca continuano a essere buone e per questo anche il business energetico tra i due paesi ad oggi non ha creato problemi. A fine 2008 il Parlamento serbo ha ratificato un accordo di vendita a Gazprom (compagnia energetica statale russa) di una quota azionaria del 51% della compagnia petrolifera nazionale serba. Per i prossimi anni è inoltre previsto un aumento delle forniture di gas russo da trasportare nei Balcani dal gasdotto South Stream. Il progetto – fortemente contestato dall’Eu che chiede a Belgrado di interrompere i lavori alle pipeline, dopo che Bruxelles e Washington hanno emesso nuove e più stringenti sanzioni contro Mosca in merito alla crisi ucraina – dovrebbe essere completato nei prossimi circa due anni e la sua realizzazione dovrebbe dare lavoro a 20.000 persone, nonché permettere l’afflusso di circa 2 miliardi di dollari di investimenti.
Dal primo gennaio del 2011 la Serbia ha abolito la leva obbligatoria, dando avvio alla totale professionalizzazione delle forze armate. Tale decisione fa parte delle direttive di modernizzazione della difesa tracciate dal governo Cvetković, in cooperazione con la Commissione europea e la Nato. Nel 2007 ha preso avvio uno studio delle forze di difesa serbe, che due anni più tardi ha condotto all’adozione di una nuova strategia di sicurezza nazionale e di difesa. Oltre alla professionalizzazione delle forze armate, i documenti governativi individuano l’esigenza di ridurre il numero dei militari nell’esercito serbo, oggi primo per dimensioni nella regione balcanica occidentale. Allo stesso tempo, Belgrado è incoraggiata ad adottare misure per ricondurre l’esercito sotto il controllo del potere civile.
Sebbene la Serbia ritenga che una parte del suo territorio – il Kosovo – sia occupata in maniera illegittima da forze internazionali, nel settembre 2006 l’allora presidente Tadić ha firmato con gli Stati Uniti uno storico accordo sullo status delle forze militari (Sofa) che riconosce e regola la presenza di soldati Usa in Kosovo. Le parti si sono inoltre impegnate ad una maggiore cooperazione militare. Nello stesso anno la Serbia è entrata a far parte del programma Partnership for Peace della Nato. Malgrado ciò, l’opinione pubblica serba rimane fortemente ostile ad un eventuale approfondimento dei rapporti con l’Alleanza atlantica, accusata di aver illegittimamente sostenuto l’istanza indipendentista kosovara e di aver bombardato il paese durante la campagna militare del 1999. Inoltre, nel settembre 2012, il presidente Tomislav Nikolić, in occasione di un incontro con l’omologo russo Vladimir Putin, ha dichiarato che la Serbia non entrerà mai a far parte dell’Alleanza atlantica, ribadendo una volta di più la special relationship esistente tra i due paesi.
Il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia è un organo delle Nazioni Unite, istituito all’Aia nel maggio del 1993 per giudicare e perseguire gravi violazioni del diritto internazionale (crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio) commesse da singoli individui nel corso delle guerre iugoslave degli anni Novanta. Si tratta dunque di un tribunale ad hoc, la cui giurisdizione è limitata nelle competenze, nello spazio e nel tempo. Il Tribunale ha cominciato a operare effettivamente tra il 1994 e il 1995, con la messa in stato d’accusa di ventidue ufficiali serbo-bosniaci. Dato il suo status non permanente, si è impegnato a completare tutti i processi in primo grado entro la metà del 2011 e a esaurire gli appelli entro il 2013, con l’eccezione dei dibattimenti iniziati da poco, che vedono coinvolti Radovan Karadžić (presidente della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina tra il 1992 e il 1996) e Ratko Mladić. Quest’ultimo è stato chiamato nel dicembre 2013 a testimoniare nel processo contro Karadžić a sua difesa. Il tribunale per l’ex Iugoslavia è il primo penale speciale istituito dopo quelli militari di Norimberga (1945-46), creati per giudicare i crimini dei gerarchi nazisti. A differenza di Norimberga, dove agli imputati fu impartita la pena di morte, la condanna massima che il tribunale può erogare è l’ergastolo. Tradizionalmente, la giurisdizione dell’azione penale in merito a crimini internazionali compete ai tribunali nazionali dello stato nel quale il crimine è stato commesso. Il principale obiettivo della decisione presa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di costituire un tribunale speciale era quello di sopperire alle inefficienze e alla frequente riluttanza ad agire da parte delle corti nazionali. La collaborazione del singolo stato rimane tuttavia necessaria, quantomeno per la cattura e la consegna al tribunale degli imputati latitanti. Dei 161 individui accusati dal tribunale tra il 1994 e la fine del 2010, cento hanno raggiunto il termine del procedimento che li vede coinvolti e di questi quarantotto sono stati giudicati colpevoli. Tra i processi più importanti figura certamente quello contro l’ex presidente serbo Slobodan Milošević: iniziato nel 2002, non è giunto a termine per la morte in cella dell’imputato a pochi mesi dalla prevista sentenza di primo grado. Ai lavori del tribunale hanno preso parte alcuni importanti giuristi italiani. Antonio Cassese è stato il primo presidente del tribunale (1993-97), carica in seguito ricoperta anche da Fausto Pocar (2005-08).