Umanesimo
Tornare agli antichi per diventare moderni
Le opere del passato sono come i fiori da cui le api traggono il nettare per fare il miele: questa immagine di Petrarca, uno dei più grandi poeti del Trecento, illustra bene quale sarà lo spirito degli umanisti, ossia di quei pensatori e di quegli artisti che – nel corso del Quattrocento – hanno realizzato la ‘riscoperta’ della cultura classica latina e greca. Ma tale riscoperta non li ha condotti a imitare gli antichi, bensì a trovare una nuova identità, a rinascere come moderni. Questa straordinaria fioritura della cultura occidentale ebbe il suo centro in alcune città italiane (soprattutto Firenze e Napoli) per poi diffondersi nei principali paesi europei
Il primo a usare il termine Umanesimo per indicare un periodo storico-culturale ben preciso – ossia l’epoca che, dalla fine del Trecento a tutto il Quattrocento, fu caratterizzata dalla riscoperta del mondo classico – fu, nel 1859, lo storico tedesco Georg Voigt. Ma se Umanesimo è una parola recente, il termine umanista risale proprio al Quattrocento: creato in analogia con termini come artista e giurista, humanista indicava colui il quale coltivava le humanae litterae, cioè quelle discipline classiche (letteratura, grammatica, retorica, poesia, storia, filosofia) che erano definite humanae perché concorrevano alla formazione dell’uomo. Il termine usato dai Romani per indicare il processo educativo, infatti, era humanitas (da homo «uomo») e implicava lo studio della letteratura, della retorica e della filosofia. Secondo i Romani le opere dei poeti, dei drammaturghi e degli storici avrebbero ammaestrato i giovani sulle passioni degli uomini e sulle loro vicende; la retorica li avrebbe preparati alla vita politica, insegnando loro l’arte di comunicare; la filosofia (in particolare la filosofia morale, incentrata sui problemi etici e politici) li avrebbe introdotti alle forme più alte del sapere.
Coloro i quali, a partire dal Quattrocento, vengono definiti umanisti sono insofferenti verso il sapere ereditato dal Medioevo – la filosofia speculativa della scolastica e le indagini naturalistiche – e cercano un rinnovamento della cultura tornando al mondo classico. Essi non solo leggono gli autori latini e greci con rinnovato fervore e ne riscoprono testi sconosciuti vagando per le biblioteche d’Europa (la metà dei classici antichi di cui disponiamo è stata riportata alla luce nel Quattrocento); ma li studiano anche con occhi nuovi, perché non sovrappongono a essi – come era avvenuto durante il Medioevo – le proprie concezioni, ma cercano di riscoprirne la fisionomia autentica.
Se tra i precursori dell’Umanesimo spicca Francesco Petrarca – che in polemica con «lo stolto e rumoroso gregge» della scolastica invitava a riscoprire le humanae litterae di Cicerone – i suoi primi veri protagonisti furono personaggi minori della letteratura italiana, attivi a Firenze tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.
Costoro presero alla lettera l’invito petrarchesco a riscoprire i classici, riportando alla luce testi rimasti sconosciuti durante il Medioevo. Salutati riscoprì le Lettere familiari di Cicerone ed ebbe il grandissimo merito di riportare in Italia la conoscenza della lingua greca, che durante il Medioevo si era persa. A lui si deve infatti l’istituzione, nel 1397, della prima cattedra di greco a Firenze, che fu affidata al dotto bizantino Emanuele Crisolora. La riscoperta della lingua greca permise a Bruni, un discepolo di Salutati, di leggere in originale e di tradurre in latino numerose opere di Platone e di Aristotele, nonché di Plutarco e Senofonte. Quanto a Bracciolini, egli scovò nelle biblioteche dei monasteri svizzeri, francesi e tedeschi una serie di importantissime opere classiche di Quintiliano, di Stazio, di Cicerone e soprattutto il De rerum natura di Lucrezio (la cui riscoperta contribuì in modo decisivo alla rinascita moderna dell’epicureismo).
Questi umanisti non furono soltanto dei dotti: essi parteciparono attivamente alla vita civile e politica della loro città, ricoprendo incarichi pubblici di rilievo. Salutati, Bruni e Bracciolini furono infatti, in periodi diversi, cancellieri della Signoria o della Repubblica fiorentina. Tale orientamento pratico si rifletteva anche nella loro attività culturale. Bruni, per esempio, non tradusse le opere teoretico-logiche di Aristotele (come la Metafisica o la Logica) o quelle scientifiche (come la Fisica o la Storia degli animali), bensì i grandi trattati di filosofia pratica, come l’Etica nicomachea, l’Economica e la Politica.
In questa scelta emergeva con nettezza la convinzione, tipicamente umanistica, della superiorità della vita attiva su quella contemplativa. «Tu rimani pure pieno di contemplazione – aveva scritto Salutati, rivolgendosi a un ipotetico interlocutore del suo tempo – [...] che io, invece, sia sempre immerso nell’azione [...]: che ogni azione giovi a me, alla famiglia, ai parenti e, ciò che è ancor meglio, che io possa essere utile agli amici e alla patria e possa vivere in modo da giovare all’umana società con l’esempio e con le opere».
Un ruolo particolare, nello svilupparsi dello spirito umanistico, spetta alla filologia, cioè all’insieme delle discipline (grammatica, epigrafia e altre) che servono a leggere, comprendere e interpretare correttamente i documenti letterari. Mentre gli studiosi del Medioevo leggevano le opere degli antichi come se fossero ‘contemporanee’ – e quindi sovrapponevano a esse le loro concezioni, intervenendo direttamente sui testi, interpretandoli e talora correggendoli – gli umanisti vedono in queste opere documenti di un’altra epoca e di un’altra cultura, di cui occorre rispettare la fisionomia originale e comprendere il significato autentico.
L’applicazione della filologia nello studio dei classici permette così agli umanisti di acquisire una prospettiva storica, così come la scoperta della prospettiva ottica, nello stesso periodo, permette agli artisti una rappresentazione corretta del paesaggio esterno. In entrambi i casi, umanisti e artisti dimostravano di aver acquisito la capacità di cogliere la distanza che separa l’osservatore dalle cose osservate: dimostravano, in altre parole, di aver acquisito il senso dell’individualità e della storicità.
Lo spirito filologico dell’Umanesimo trovò il suo più grande interprete nel letterato romano Lorenzo Valla (15° secolo), che esaminando il testo della Donazione di Costantino, documento sul quale la Chiesa di Roma fondava la legittimità del suo potere temporale, dimostrò che si trattava di un falso. Valla si dedicò anche all’analisi filologica del Vangelo, con l’intento di ripulirne il testo dalle incrostazioni che col tempo si erano depositate su di esso. Egli condusse infine una serrata polemica contro l’ascetismo, sia nella sua versione laica (ispirata alla filosofia dello stoicismo), sia nella sua versione religiosa (ispirata al modello monastico). Contro queste diverse forme di rinuncia al mondo egli rivalutò le istanze del piacere in tutte le sue espressioni (da quelle sensibili a quelle intellettuali e spirituali), intese come manifestazione della mirabile bontà di Dio. Egli riprese quindi la tematica epicurea del piacere e tentò di conciliarla con la religione cristiana.
Il personaggio che meglio incarnò lo spirito dell’Umanesimo fu Leon Battista Alberti. Animato da una straordinaria curiosità per il vasto spettacolo del mondo, fu un fine letterato e un acuto pedagogista, un teorico della pittura e della scultura e un grandissimo architetto. In tutti questi ambiti egli portò il suo amore per i Romani, presi a modello non per ripetere ma per innovare. Tutta l’opera e la vita di Alberti sono pervase dalla convinzione che il destino dell’uomo è nelle sue mani e che viene forgiato dalla sua virtù, cioè dalla sua energia, intelligenza e impegno. La fortuna, ossia il destino, «tiene giogo solo a chi gli si sottomette»: questa è la frase che meglio di ogni altra esprime lo spirito di Alberti e che troveremo, qualche decennio più tardi, nelle opere di Machiavelli, a conferma del fatto che Umanesimo e Rinascimento costituiscono fasi diverse di un medesimo processo, quello della rinascita dello spirito dell’uomo.
Una delle caratteristiche del periodo umanistico fu la riscoperta del pensiero di Platone, dovuta anche alla traduzione in latino di molti dialoghi rimasti sconosciuti durante il Medioevo. La preferenza accordata dagli umanisti a Platone – rispetto ad Aristotele – aveva varie motivazioni: anzitutto, in Aristotele si vedeva il maestro della scolastica, ossia della principale scuola filosofica del Medioevo; in secondo luogo, la filosofia aperta e problematica di Platone si adattava meglio, rispetto alle filosofie sistematiche di Aristotele e Tommaso d’Aquino, allo spirito curioso e inquieto degli umanisti; infine, la spiritualità che pervade l’opera platonica era più vicina alla religiosità degli uomini del 15° secolo.
La riscoperta di Platone non fu ‘filologicamente’ pura, sia perché la conoscenza del greco era ancora recente, sia perché i ‘materiali’ platonici provenivano dalle biblioteche del mondo bizantino. Intorno alla metà del Quattrocento, infatti, vi fu un grande afflusso di dotti bizantini in Italia, a seguito del Concilio di Ferrara e Firenze (tenutosi nel 1438-39, con lo scopo di riconciliare la Chiesa greca con la Chiesa di Roma) e alla caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453). Questi dotti riportarono in Italia non soltanto la lingua greca, ma – per il tramite delle loro ricche biblioteche – quella complessa cultura bizantina nella quale si erano stratificate le dottrine del periodo ellenistico (in primo luogo, il neoplatonismo), le tradizioni ermetico-magiche del mondo orientale e la teologia cristiana. Tutti questi fermenti si incontrarono felicemente con la curiosità degli umanisti e con la loro concezione vitalistica dell’Universo: di qui lo svilupparsi di un pensiero filosofico che vide intrecciarsi – sullo sfondo di un’ispirazione religiosa – dottrine di derivazione platonica e concezioni ermetico-magiche (incluse la cabala ebraica e l’astrologia).
A sfruttare nel modo più ampio il ricco materiale portato in Italia dai Bizantini fu il fiorentino Marsilio Ficino (15° secolo), che tradusse le Enneadi di Plotino (il maggiore filosofo del neoplatonismo) e vari scritti ermetici e magici. Ma egli si dedicò soprattutto alla traduzione dell’intera opera platonica: ed è per compiere questo grande lavoro che Cosimo il Vecchio de’ Medici, signore di Firenze, gli donò nel 1426 una grande villa, che poi sarebbe diventata la sede dell’Accademia platonica. Qui possiamo cogliere una significativa evoluzione del ruolo dell’umanista: da letterato-cancelliere – impegnato nella vita civile e politica, come nel caso di Salutati, Bruni e Bracciolini – a letterato-cortigiano, dedito esclusivamente alla cultura e al servizio di un principe. I principi e i signori (come Lorenzo il Magnifico) finanziavano generosamente imprese culturali e artistiche, per prestigio dinastico e politico, dando luogo al fenomeno del mecenatismo (da Mecenate, nobile romano vissuto nel 1° secolo a.C., che proteggeva letterati e artisti).
Ficino si propose il compito di saldare filosofia e religione, elaborando una docta religio (una religione colta) imperniata sulla dottrina dell’anima umana come centro del mondo – punto intermedio tra la realtà fisica e la realtà divina e, proprio per questo motivo, partecipe di entrambe – e sulla dottrina dell’amore, come forza che permette all’uomo di elevarsi dal mondo sensibile sino a Dio.
L’altro protagonista della filosofia umanistica fu il fiorentino Pico della Mirandola, che si propose di raggiungere una sintesi tra le dottrine più diverse, non solo di ispirazione cristiana e pagana, ma anche di derivazione ebraica e araba e senza escludere il lascito della filosofia medievale. Questo desiderio di una sintesi universale del sapere, che avrebbe dovuto portare alla rigenerazione spirituale dell’uomo, spinse Pico a convocare a Roma una grande riunione tra dotti provenienti da ogni parte del mondo, i quali avrebbero dovuto discutere un documento articolato in 900 tesi.
La discussione non si poté tenere, perché alcune di quelle tesi furono ritenute eretiche, ma Pico poté pubblicare, nel 1486, l’Orazione sulla dignità dell’uomo, che avrebbe dovuto inaugurare il congresso. In questo testo – che può essere considerato il ‘manifesto’ dello spirito umanistico-rinascimentale – Pico immagina che Dio si rivolga ad Adamo nei seguenti termini: «Ti posi nel mezzo del mondo perché di là tu scorgessi meglio tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto». A differenza di tutti gli altri esseri del creato, l’uomo è dunque libero: sta a lui degradarsi nelle cose inferiori oppure innalzarsi alle cose superiori.