Urbanistica
di Edoardo Detti e Paolo Sica
Urbanistica
sommario: 1. Introduzione. 2. Le proposte per la città all'inizio del secolo. 3. Urbanistica e pianificazione nel ventennio fra le due guerre: a) il Movimento moderno; b) le teorie comunitarie; c) la gestione urbanistica delle città; d) esperienze di pianificazione territoriale; e) altre ricerche teoriche. 4. Urbanistica e pianificazione nel secondo dopoguerra: a) i problemi e i risultati della ricostruzione; b) dal quartiere alla città; c) i centri storici. 5. Le ricerca sulla città e sulla pianificazione nel secondo dopoguerra: a) l'evoluzione del dibattito internazionale; b) il caso italiano; c) i problemi dell'urbanistica. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Dall'inizio di questo secolo, e per via di approfondimenti e allargamenti successivi, si è giunti oggi a intendere l'urbanistica come una disciplina che studia nelle loro interrelazioni dinamiche e nei loro processi di evoluzione i complessi insediativi, ai fini della messa a punto e applicazione di tecniche, norme e progetti, per modificare e indirizzare, orientando l'azione politico-amministrativa, le trasformazioni delle città e del territorio, e in ultima analisi per dare corpo, forma e struttura allo spazio delle attività umane.
Le difficoltà di una definizione più lineare e sintetica - come, più in generale, l'impossibilità di costruire una scienza dell'urbanistica come disciplina autonoma, o anche di assicurarle un corpus organico di nozioni e di strumenti - derivano dal riverberarsi sugli aspetti più tradizionali dell'arte urbana, quale viene ancora concepita agli inizi del XIX secolo, di nomenclature e apparati scientifici, di tecniche e pratiche reali che attingono a settori diversi dell'organizzazione umana, come l'economia, la geografia, la sociologia, la stessa politica. La proliferazione di termini specialistici, avvenuta nel corso degli ultimi ottant'anni, basterebbe da sola a dare un'idea efficacissima dell'accelerazione e della crescente complessità delle dinamiche urbane e territoriali, e delle riflessioni critiche che a questa evoluzione si sono accompagnate. D'altra parte non potrà essere sottovalutata la conoscenza sempre più scientifica e documentata - dopo la consapevolezza empirica, o indiretta (quale quella derivante dalle prime enunciazioni marxiane) - degli effetti sociali, ideologici, economici, che le politiche urbane e territoriali (delle quali è parte la politica urbanistica, con la sua presenza o la sua assenza) concorrono a determinare, distribuendo nello spazio fisico persone e cose, gerarchie e ‛segni' diversi, favorendo l'accessibilità e l'uso delle risorse, dei mezzi di produzione e dei prodotti, e consentendo quindi la valorizzazione di diverse forme di capitale.
Per quanto riguarda l'evoluzione della cultura urbanistica dall'inizio del secolo ai nostri giorni, gioverà riassumerne alcuni dati caratterizzanti: a) la duplice natura dell'attività urbanistica, da un lato come studio e lettura dei fenomeni insediativi, e dall'altro come prefigurazione dei sistemi materiali e funzionali delle città e dei territori, e della loro trasformazione; b) l'ampliarsi, in rapporto agli stessi sviluppi dell'urbanesimo, dell'oggetto della disciplina dalla città (matrice iniziale ancora rispecchiata etimologicamente) fino a includere il territorio naturale e/o civilizzato (da cui l'adozione di formule divulgative, e in parte ambigue, come ‛città-regione', ‛città-territorio', ‛regione urbanizzata', ‛continuum urbanizzato', ecc.); c) la distinzione, sia sul piano delle analisi che su quello della prefigurazione progettuale, di ‛scale' diverse di riferimento, che in prima approssimazione possiamo riportare alle due categorie dell'urbanistica e della pianificazione territoriale: la prima concettualmente legata come esito al ‛disegno della città' e financo all'‛architettura della città', la seconda orientata alla definizione dei ruoli degli aggregati urbani nei loro rapporti fisico-geografici e socio-economici, esplicitando la propria coerenza con obiettivi e parametri della programmazione e pianificazione economica.
Se questa articolazione può costituire campi di osservazione orizzontali dei più scottanti confronti metodologici, non va dimenticato che l'urbanistica appare compenetrata nel vivo di ogni situazione storica specifica, segnata dai caratteri disparati degli assetti e degli impegni politici, dei sisterni economici, dei regimi di proprietà dei suoli, degli apparati dell'amministrazione pubblica (centralizzazione o decentramento decisionale), degli sviluppi tecnologici, dei processi sociali e dei fatti del ‛costume' civile. Alle problematiche che spesso, con modalità analoghe, assillano i paesi più avanzati al pari di quelli sottosviluppati si contrappongono abissali differenze di contesto.
Un'esposizione antologicamente completa della materia che, nei limiti che ci sono consentiti, pretendesse di rendere conto dell'estrema varietà delle posizioni culturali e teoriche non farebbe che togliere spazio alla trattazione, sia pure sintetica, di alcuni dei temi piu vivi aperti dagli sviluppi contemporanei. È opportuno allora ricostruire nei suoi aspetti essenziali il percorso segnato dalla disciplina durante questo secolo, rinviando invece per un'informazione complementare ad altri articoli di questa enciclopedia (v. architettura; città; edilizia e costruzioni; progettazione; territorio, pianificazione e sistemazione del).
2. Le proposte per la città all'inizio del secolo
Alla fine del XIX secolo vengono a mutarsi profondamente nei centri urbani maggiori dei paesi più avanzati le motivazioni storiche che avevano determinato la formazione originaria della città industriale. A un sistema capitalistico che si incammina verso forme di organizzazione del tutto nuove, caratterizzate dalla presenza sempre più invadente dei monopoli, corrisponde anche una problematica inedita delle concentrazioni urbane e delle articolazioni territoriali.
Lo scenario sul quale operano la riflessione e la sperimentazione urbanistica all'inizio del secolo è caratterizzato dall'apparizione della grande città, della metropoli, al cui centro nuove funzioni direzionali e di comando, pubbliche e private, chiedono spazio nel loro incessante processo di concentrazione; dove, nella corona periferica, si distribuiscono centrifugamente le residenze (delle classi borghesi, sollecitate da nuovi consumi sociali, e della classe operaia, dislocata dagli intensi processi di trasformazione dei tessuti più antichi); dove la mobilità e le nuove fonti energetiche fanno intravvedere una parziale indifferenza di alcune localizzazioni rispetto alla centralità tradizionale; dove si aggravano a un tempo i problemi ‛urbani' di antica data e di nuova emergenza, mentre si ampliano i conflitti sociali che oppongono fra loro gruppi e classi.
Alla crisi dei vecchi sistemi di controllo spaziale, tipici della prima fase dell'urbanizzazione industriale, si cerca di porre riparo da un lato modificando e potenziando la gestione del territorio, dall'altro elaborando teorie, metodologie e tecniche specifiche di formalizzazione e costruzione dello spazio fisico.
Possiamo distinguere due sostanziali direzioni di questo sforzo: a) gli approcci che, dando direttamente per scontato il modello vigente di crescita urbana, si muovono verso un allargamento e una sistematizzazione della disciplina, in vista di una sua applicazione razionalizzante agli organismi urbani e territoriali; b) l'ideazione di modelli urbani alternativi che, pur lasciando impregiudicato nelle sue linee strutturali il sistema economico dominante (dopo l'insuccesso delle ipotesi espresse nella prima metà del secolo dai teorici ‛utopisti', che collegavano le soluzioni urbanistiche alla teoria sociale e alla critica della società capitalistica industriale), tentano di modificarne le ‛forme' spaziali.
Al primo filone danno corpo soprattutto le elaborazioni sistematiche maturate nella Germania guglielmina, che si avvale di un consistente apparato di tecnici e ingegneri in posizione di responsabilità diretta nella pianificazione urbana. La ristampa a Stoccarda, nel 1907, con ampie rielaborazioni e integrazioni, dell'enciclopedico Der Städtebau. Handbuch der Architektur (prima edizione, Darmstadt 1890) pubblicizza con il suo inesauribile apparato illustrativo la posizione verso la progettazione urbana di J. Stübben, che in un certo modo integra e concilia le ricerche della scuola tedesca dell'ultimo quarto di secolo (W. Baumeister, C. Sitte), semplificandone procedure e modelli e selezionando un gran numero di sistemazioni urbane tipiche ed esemplari, nelle quali le regole classiche e l'impianto della spazialità, assunti al di fuori del loro contesto storico e apprezzati per le loro qualità armoniche e visuali, si dimostrano ricettivi delle più pressanti problematiche della metropoli di fine secolo, in particolare delle infrastrutture dei trasporti.
Ma dalla scuola tedesca sono emersi anche una serie di concetti base, che in gran parte non fanno che rendere espliciti, misurabili e utilizzabili in proiezione propositiva i dati dello sviluppo urbano della seconda metà dell'Ottocento, ma nella loro formulazione tecnicistica sono destinati a durare tenacemente (e nella maggior parte dei casi sono rimasti finora insostituibili sul piano pratico, anche se superati su quello concettuale). Nascono le nozioni di ‛lottizzazione' (divisione di un terreno in lotti di diversa possibile pezzatura e aggregazione), di ‛zonizzazione' (specificazione della città da pianificare per zone a funzioni diverse: residenziale - in varie accezioni -,industriale, commerciale, per servizi collettivi, ecc.), di ‛indici' (di superficie o volumetrici, atti a porre in rapporto le superfici o i volumi dei corpi da edificare con le superfici su cui questi insistono), di ‛tipologia' (dal villino isolato agli immeubles de rapport per le tipologie residenziali), atta a garantire - rispetto a una certa dimensione e tessitura dei lotti - peso insediativo e grana del tessuto edilizio, di ‛re ti di urbanizzazione' (servizi ‛a rete', legati all'impianto stradale: dalle canalizzazioni di smaltimento o afflusso delle acque, alla rete dell'energia elettrica e dei cavi telefonici, agli impianti dei trasporti), di ‛attrezzature' (servizi puntiformi, per specifiche funzioni pubbliche o sociali, spesso delegate a un determinato manufatto architettonico tipico o atipico: chiese, scuole, ospedali, centri sociali e commerciali, ecc.). Questo aggregato di classificazioni concettuali-operative può tradursi in atti di programmazione urbana di dimensioni variabili, ma già prefigura nei teorici tedeschi l'idea del ‛piano regolatore' (Stadtplan) come strumento interessante il nucleo urbano, i sobborghi e finanche il territorio di gravitazione o l'ambito aniministrativo, con il quale si tenta di sintetizzare e risolvere nelle loro relazioni le tensioni mutanti che nascono dalle nuove dimensioni, in prospettiva, della città, orientandole positivamente verso un modello più organico ai rapporti sociali dati e al sistema produttivo.
Per il ruolo, molto importante, che la zonizzazione (zoning) si assicurerà a partire dai primi anni del secolo nella gestione urbanistica della città - caratterizzandola nei confronti di quella della prima fase industriale - vale la pena di approfondirne la natura. Recenti studi sulla nascita e sulla grande fortuna di questo strumento nella pianificazione urbana dell'ultimo secolo (v. Mancuso, 1978) hanno convincentemente esposto la tesi secondo cui la zonizzazione non è il ‟risultato di una elaborazione disciplinare autonoma, né è la semplice traduzione tecnica di una ipotesi architettonica o urbanistica corrispondente a una determinata idea di città", ma deriva invece da ‟una serie di azioni svolte all'interno delle amministrazioni municipali e sperimentate direttamente nel vivo della città prima ancora di essere codificate", allo scopo di regolamentare l'appropriazione del suolo da parte di attività economiche diverse, per attenuare la conflittualità sociale, per eliminare la congestione e la degradazione dell'ambiente fisico, per favorire cioè l'ordine produttivo, proprietario, sociale, amministrativo, fiscale, ecologico: in una parola, per far funzionare la città.
La grande diffusione operativa di questo strumento, generalizzatosi universalmente in diversissime situazioni istituzionali, si spiega col fatto che esso si presenta come un accettabile compromesso fra gli interessi economici divergenti delle forze dominanti (schematizzando: il profitto e la rendita), capace di restituire determinate certezze operative; e che d'altra parte fornisce uno strumento insostituibile di controllo sociale, proiettando nello spazio la divisione tecnica del lavoro, insieme a precise gerarchie sociali, dietro le apparenze di un ordine oggettivo e di una logica irreprensibile.
Per quanto riguarda il secondo filone indicato, il secolo si apre con una delle formulazioni ideologicamente più incisive dei tempi moderni, la prospettiva della città giardino esposta dall'inglese E. Howard nel 1902 in Garden cities of tomorrow (rielaborazione di Tomorrow, a peaceful path to reform, 1898).
Riprendendo una serie di concetti e modelli degli utopisti della prima età industriale, depurati dalle loro componenti di riforma sociale, ma anche interpretando diffuse aspirazioni culturali e politiche dell'età vittoriana, Howard contabilizza vantaggi e svantaggi, simmetricamente contrapposti, della città e della campagna, per derivarne la proposta di una urbanizzazione del territorio per insediamenti autonomi e programmati, le garden cities, di dimensioni controllate, funzionalmente miste, dotate delle attrazioni della città e delle amenities della campagna, e depurate dai rispettivi inconvenienti (congestione e insalubrità da un lato; bassi salari, livelli sociali e culturali depressi dall'altro). Le caratteristiche dimensionali di una garden city, secondo Howard, devono corrispondere a una popolazione di 32.000 abitanti, dei quali 30.000 insediati su un'area di 1.000 acri (circa 405 ha) corrispondenti al nucleo urbano, e 2.000 distribuiti in una cintura agricola di 5.000 acri (circa 2.035 ha). Al di là dei dati del modello fisico, Howard afferma in sostanza alcuni punti molto importanti: a) il decentramento pianificato di popolazione e industria dalla metropoli; b) la possibilità di concepire il decentramento come un sistema generale e universalizzabile per le trasformazioni urbane, con una procedura che consente di recuperare alla collettività i plusvalori delle aree; c) il ruolo imprenditoriale di una società cooperativa per azioni, del tipo non profit, responsabile di tutta l'operazione economica e urbanistica, e quindi di un livello collettivo molto alto di pianificazione e gestione integrata dell'intero sistema; d) la qualità specifica dell'ambiente urbano, nei suoi parametri di articolazione per quartieri, densità, tipologia, attrezzature, arredo.
Nonostante lo straordinario successo delle sue idee in tutto il mondo occidentale, Howard incontra invece difficoltà proprio in Inghilterra per la realizzazione della sua proposta, e nell'arco di vent'anni riesce soltanto a mettere in cantiere due esperimenti dimostrativi, nell'area di Londra, coronati da parziale successo (Letchworth, iniziata nel 1903, su progetto di R. Unwin e B. Parker, e Welwyn, iniziata nel 1920 su progetto di L. de Soissons). Eccezionale è invece a partire dai primi anni del Novecento e soprattutto, ma non solo, in ambiente anglosassone - la diffusione dei garden suburbs a bassa densità nelle periferie urbane, che sviluppa e allarga esperienze precedenti ed è resa possibile dal ramificarsi delle reti di trasporto su rotaia e dalla comparsa dell'auto privata. Di applicazioni di questo tipo è interprete raffinato in Inghilterra R. Unwin, che si pone il problema dell'integrazione di una crescita equilibrata attraverso sobborghi attrezzati e parzialmente autosufficienti, ad alto grado di identità urbana.
Accanto alla pubblicizzazione dell'idea della ‛città giardino', va segnalato, pur con la sua minore presa negli ambienti tecnici e imprenditoriali, il movimento per la ‛città lineare', una formulazione espressa dopo il 1880 dallo spagnolo A. Soria y Mata ma diffusa in Europa nei primi anni del secolo, tendente ad affermare un modello di crescita urbana strettamente correlato nel suo impianto e nel suo funzionamento ai sistemi di trasporti urbani e interurbani di massa. L'idea di Soria y Mata, anch'essa legata alle teorie dell'equalizzazione e del calmieramento della rendita fondiaria, si distingue sul piano più propriamente urbanistico per l'assenta necessità di rompere la logica del consueto accrescimento monocentrico delle città, anticipandò alcune ricerche successive.
A differenza della formulazione howardiana, immediatamente diffusasi in tutto il mondo, il metodo-modello di T. Garnier per la pianificazione di una moderna città industriale, elaborato fra il 1901 e il 1904, resta praticamente sconosciuto fino alla sua pubblicazione nel 1917. Garnier presenta un progetto completo di città, disegnato in tutte le sue parti e nei minimi dettagli, localizzato in un sito geograficamente descritto con precisione, e ispirato sul piano politico agli ideali di un ‛socialismo del lavoro', mentre riflette nelle soluzioni l'impostazione del razionalismo accademico della Ecole des Beaux Arts. Il suo lavoro - nell'insieme e nei singoli settori che lo compongono - assume un alto valore metodologico e sperimentale, di notevole influenza sugli sviluppi successivi (anche per lo stesso Garnier che a Lione, in una felice collaborazione con il sindaco radical-socialista E. Herriot, potrà applicarne alcuni presupposti).
Gli indirizzi seguiti dalla riflessione urbanistica che si svolge in Germania e in Inghilterra con una ricchezza, specialmente in quest'ultimo paese, che può essere solo accennata nell'ambito di questa sintesi (basterebbe pensare alle intuizioni di una personalità affascinante e complessa come quella dell'urbanista scozzese P. Geddes) - fanno sentire la loro influenza in altri paesi del mondo occidentale, anche là dove si muovono correnti di pensiero molto diverse. Negli Stati Uniti, per esempio, accanto alla teoria della città giardino (che alimenta la spinta verso i quartieri suburbani) comincia a penetrare anche l'esigenza di una razionalizzazione e di una scientificizzazione dei processi di controllo-produzione della città (city functional, city efficient), mentre ancora dà i suoi frutti nel primo quindicennio del secolo il movimento per la city beautiful (del quale una sintesi programmatica giungerà al chiudersi di questo ciclo operativo con il monumentale The American Vitruvius: an architect's handbook of civic art, di W. Hegemann e A. Peets, pubblicato a New York nel 1922), che denuncia componenti ideologiche e pratiche di altra natura (se pure insieme a certe consonanze con il classicismo haussmanniano e con la poetica di J. Stübben) nell'aspirazione al recupero di un'immagine ‛colta' e a un nuovo ruolo del capitalismo industriale e finanziario nell'organizzazione della grande città, con il superamento del laissez faire precedente.
Nel primo ventennio del secolo si devono registrare la nascita e la stabilizzazione degli strumenti di formazione e di diffusione della pratica urbanistica: dalla comparsa delle prime riviste specializzate in funzione di determinate tendenze operative o di un più generale approfondimento delle tematiche disciplinari (‟La ciudad lineal", 1897; ‟Der Städtebau", 1904; ‟Garden cities and town planning", 1904; ‟Town planning review", 1910; ecc.) ai concorsi internazionali per alcune grandi città (Barcellona 1903, Anversa 1910, Berlino 1910, Canberra 1911, Dublino 1912), ai congressi e alle esposizioni nazionali e internazionali (fra le più importanti quelle di Dresda 1903, Boston 1908, Berlino 1910, Londra 1910, Düsseldorf 1911-1912, Gand 1913), all'introduzione degli insegnamenti di urbanistica nei programmi universitari (cattedra di Civic design all'Università di Liverpool nel 1909, a Harvard nel 1909).
3. Urbanistica e pianificazione nel ventennio fra le due guerre
a) Il Movimento moderno
Il Movimento moderno nasce all'indomani del conflitto mondiale - nel diffuso senso della necessità di un rigenerante distacco dal passato - come precipitazione e convergenza di idee e programmi maturati nel densissimo dibattito del primo quindicennio del Novecento. La visione degli architetti moderni parte anzitutto da una nuova definizione dell'architettura e del suo campo d'azione. L'architettura non può essere concepita come una regola estetico-formale da sovrapporre al dato funzionale o tecnico-costruttivo (tradizionale dicotomia ingegneria/architettura), né può essere vincolata a scale e generi specifici; può - anzi deve, liberandosi dei modelli passati - assumere il significato più vasto di progettazione e ordinamento di tutto l'ambiente costruito. Da un lato, in questo ribaltamento ottico, essa può far propri i presupposti della ricerca scientifica - cioè essere controllabile su dati razionali, applicabile, trasmissibile, perfettibile per profondità di indagine e accumulazione di risultati -, dall'altro deve aderire - anche nel campo della produzione degli oggetti di consumo, dell'abitazione, e più in generale della città - all'esigenza di una domanda allargata - di massa - di manufatti e di servizi(v. anche architettura).
La scuola del Bauhaus, fondata da Walter Gropius nel 1919 a Weimar, poi trasferita a Dessau vicino a Berlino nel 1924, è il principale e più noto centro di elaborazione teorica e di diffusione del Movimento, con forti influenze ideologiche sulle élites professionali della Germania e di molti paesi europei. L'altro polo importante è costituito dall'opera eccezionale di Le Corbusier, che sin dall'inizio si muove su un'area problematica assai ampia, dalla cellula abitativa alla struttura urbana, e si arricchisce via via di nuove intuizioni e affermazioni: in essa il dogmatismo apodittico è l'altra faccia del rigoroso controllo dell'invenzione, e l'atteggiamento provocatorio si accompagna a una illimitata fiducia nella forza della ragione.
Le esperienze che caratterizzano, negli studi e nelle realizzazioni, gli anni venti-trenta non sono riducibili a una sigla unica, ma sono animate da una comune fiducia nelle capacità redentrici - per la città e la vita dell'uomo - della nuova architettura: ciò porta, nella fase cruciale per il Movimento, che si svolge fra il 1928 e il 1933, al tentativo di confrontare e valutare i diversi risultati acquisiti, e di unificare e diffondere il metodo, attraverso i raduni dei CIAM (Congrès Internationaux d'Architecture Moderne, inaugurati nel 1928 a La Sarraz), nei quali si prendono in considerazione successivamente le questioni relative all'alloggio (Francoforte 1929), al quartiere (Bruxelles 1930) e alla città (III Congresso - programmato a Mosca per il 1932, ma poi tenuto nel 1933 su una nave in viaggio da Marsiglia ad Atene - durante il quale viene redatto uno statuto di punti dottrinali e programmatici sull'urbanistica, fatto pubblicare nel 1943 da Le Corbusier con il titolo Charte d'Athènes).
La ricerca razionalista è essenzialmente fondata su un procedimento analitico di smontaggio e rimontaggio delle componenti dell'architettura (soprattutto residenziale) e della città - componenti delle quali la funzione è parametro privilegiato - per muovere alla ricerca delle leggi di aggregazione nel passaggio dalle strutture edilizie semplici a quelle più complesse degli insiemi urbani.
Partendo dai dati oggettivi degli elementi che definiscono l'alloggio e dalle esigenze che ne qualificano l'abitabilità (superficie, componenti funzionali, ventilazione, illuminazione, soleggiamento, possibilità tecnico-costruttive) e mettendo a punto tipi ottimali, per passare poi ad aggregazioni successive (in verticale o in orizzontale), anch'esse tali da salvaguardare gli standard assunti, si giunge a verificare l'incompatibilità delle tipologie studiate con le modalità di formazione del tessuto urbano esemplificate dalla rue corridor, la strada ottocentesca chiusa da cortine di edifici, che accoglie promiscuamente nel suo spazio ogni tipo di funzione e di attività. Si viene a rompere in tal modo l'unità pratica di quelle associazioni - il rapporto fra l'isolato urbano e i lotti, e fra gli edifici e la strada - aprioristicamente fissate nella progettazione delle città e condizionanti impropriamente la progettazione edilizia, in particolare nel settore della residenza. Discendono da qui le ricerche relative alla disposizione degli edifici in un contesto più ampio, l'area residenziale o il quartiere, con il suo sistema di servizio viario interno (distinto cioè dalla viabilità primaria a servizio di tutta la città) e con le attrezzature di stretta pertinenza (raggiungibili pedonalmente senza interferenze con il traffico veicolare). E poiché ogni tipo residenziale e ogni attrezzatura sociale vanno calibrati su un loro proprio spazio-suolo, del quale non solo si possano stabilire le migliori condizioni da un punto di vista ambientale, ma anche le quantità medie o almeno minimali occorrenti, è possibile comparare diversi assetti morfologici e diverse densità edilizie in termini sia economici (costo delle costruzioni, del suolo, della manutenzione) sia funzionali (lunghezza dei percorsi, qualità degli spazi pubblici e privati, ecc.).
La limitatezza delle esperienze concrete, se ha coinciso con l'opportunità metodologica e pratica di una revisione della natura delle forme a partire dagli elementi semplici (cellula abitativa, tipi planimetrici ed edilizi), ha anche frenato lo sviluppo di un'ipotesi controllata sugli insiemi urbani. Tuttavia la revisione delle metodologie della progettazione architettonica e dei tipi che ne sono il prodotto implica la città come ambito nel quale tutti i passaggi e gli obiettivi precedenti devono comporsi in un insieme unitario e congruente a ogni livello con le ipotesi assunte.
L'autonomia della strada dagli edifici, la sistematizzazione delle gerarchie viarie in rapporto alle funzioni, la distinzione fra viabilità di scorrimento e viabilità di penetrazione, la separazione ed enucleazione delle funzioni, la dimensione e la posizione dei servizi collettivi, la crescita per ambiti controllati (quartieri) sono assunti che si cerca di determinare con grande rigore tecnico, accanto alla sistematica serialità e linearità delle tipologie edilizie, lasciando ai vincoli di ogni situazione urbana di determinare le configurazioni specifiche di ogni insieme. Il riconoscimento, poi, della ‛funzionalità' dello zoning ha la sua radice nella fiducia di un ipotetico ottimale equilibrio di tutti i fattori tecnici e sociali coinvolti, perseguibile con una più complessa e affinata articolazione di tutti i parametri normativi in gioco e sostanziato di ipotesi innovative (integrazione sociale, tecnicizzazione della città, decentramento, ecc.). ‟La zonizzazione - recita la Carta d'Atene - è quell'operazione fatta sulla pianta di una città al fine di assegnare a ogni funzione e a ogni individuo il suo giusto posto. Essa si basa sulla necessaria discriminazione tra le diverse attività umane che richiedono ognuna il proprio spazio particolare: locali per abitazioni, centri industriali o commerciali, sale e spazi aperti destinati allo svago". Per Le Corbusier la zonizzazione è fattore di misura e di grande ordine, che deve garantire un livello adeguato di infrastrutturazione degli insediamenti e dar corpo a un'armonica unità urbana che superi le distinzioni fra urbanistica e architettura, e anzi consenta a quest'ultima di porsi sulla scala propria della metropoli. È un assunto che le straordinarie intuizioni dei suoi ‛individui urbani' - la città per tre milioni di abitanti (1922), i piani di San Paolo (1929), di Algeri (1930-1934) ecc., vere e proprie lezioni di costruzione logico-formale della città - cercano di dimostrare, certo riconfermando l'incommensurabilità sul piano quantitativo e qualitativo fra le strutture studiate e realizzate sulla scala dell'architettura e quelle - solo ipotizzate concettualmente - che si riferiscono ai grandi organismi urbani, ma aprendo anticipazioni molto importanti sul recupero dei contenuti espressivi, che sembrano antitetici, o complementari, all'eliminazione di ogni esperienza individualizzante, in funzione di un principio generalizzante ed egualitario, fatta propria dall'insegnamento del Bauhaus. Espressioni come quella di L'urbanisme des trois établissements humains (1945) dimostrano il rapporto che Le Corbusier intende istituire fra categorizzazione funzionale, potenzialità formali e modelli strutturali complessivi. Il sistema dei tre insediamenti è costituito dalle unità di produzione agricole, dalla città lineare industriale e dalla città radiocentrica degli scambi. Nella città lineare il sistema delle comunicazioni è il cardine di un insediamento organizzato in rapporto all'utilizzazione produttiva delle risorse naturali: le fermes radieuses, unità cooperative di produzione, e gli ateliers industriali sono posti in una relazione organica con la residenza, mentre i nuclei esistenti divengono i poli accumulatori-diffusori di know how e di management, di cultura e informazione. L'opposizione fra città e campagna non è dissolta, ma è ripensata in una maglia di scala geografica nella quale si presentano le condizioni per la riduzione degli squilibri tradizionali del territorio, dei rapporti subalterni, delle alienazioni.
(Questa apertura può essere messa a confronto, utilmente, con la proposta di Broadacre City, studiata dal celebre architetto americano F. Ll. Wright intorno alla metà degli anni trenta, espressione di una ideologia anarchico-esistenziale, fondamentalmente agraria e antiurbana, attualizzata attraverso un impiego diffuso dei più aggiornati strumenti della tecnologia delle comunicazioni di massa).
Le esperienze di punta - che nascono come più diretta trasposizione e verifica, nella realtà produttiva, del potenziale teorico accumulato nei brevi anni dal 1917 al 1925 - si realizzano nelle operazioni urbanistiche delle quali sono protagonisti gli enti locali, che riescono ad affermarsi parzialmente - soprattutto, ma non solo, in Germania - come soggetti istituzionali della pianificazione della città, e tanto più là dove gli architetti moderni sono in posizioni ufficiali di responsabilità od operano a stretto contatto con le amministrazioni.
J. J. P. Oud, architetto della città di Rotterdam fin dal 1918, fa calare il linguaggio neoplastico che gli deriva dalla partecipazione ai movimenti d'avanguardia olandesi entro i tessuti compatti dei due complessi di Hoek van Holland (1924) e di Kiefhoek (1925). In Germania Gropius progetta nel 1926 il sobborgo di Törten a Dessau, nel 1928 il quartiere Dammerstock di Karlsruhe e, nel 1930, il quartiere Siemensstadt a Berlino; a Francoforte E. May adatta i presupposti della rivoluzione operata dal Bauhaus in un'esperienza di inconsueta intensità organizzativa, nella quale un modello per satelliti, derivante dalla sua formazione a contatto con l'inglese Unwin, si metamorfosa e si ricompone in un insieme armonico rispondente alle valenze del paesaggio, non senza richiami formali, in qualche soluzione architettonica, ad alcuni accenni espressionistici. Nel 1927 si apre il quartiere-esposizione del Weissenhof a Stoccarda, al quale collaborano quasi tutti gli architetti moderni europei, mentre in altre città tedesche confluiscono atteggiamenti più eterogenei, sia pure con risultati di rilievo. A Berlino, dove la municipalità è affiancata da numerose cooperative edilizie di pubblica utilità, si segnala l'opera di M. Wagner - prima direttore dell'ufficio tecnico della circoscrizione di Berlino-Schoneberg, e dal 1927 dell'amministrazione centrale berlinese per l'edilizia - e quella di B. Taut; ad Amburgo lavora come sovrintendente per l'edilizia F. Schumacher (quartieri di K. Schneider); a Magdeburgo sono attivi Taut e O. Göderitz.
Risultati parziali e isolati, come effetto della penetrazione delle idee del Movimento moderno, si colgono in altri paesi dell'Europa occidentale (Francia, Svizzera, Italia, Belgio, Spagna), mentre uno sviluppo singolarissimo, e per alcuni aspetti autonomo, è quello che interessa l'Unione Sovietica.
Qui i temi dell'avanguardia agitati dagli artisti e dagli architetti costruttivisti si rifanno direttamente ai contenuti della Rivoluzione del 1917 (è un atteggiamento opposto alla scelta di non compromissione politica del Bauhaus), prima per trasferire sulla scena materiale della città il pathos rivoluzionario che anima le masse popolari, e poi, fra il 1920 e il 1930, per tentare di tradurre nell'organizzazione fisica - attraverso una serie di modelli edilizi e urbanistici - i temi più vivi della società socialista: dai ‛condensatori' dei circoli operai alle ricerche sulla residenza (‛comuni d'abitazione'), fino alle proposte dei ‛disurbanisti' per la costruzione di agrocittà nastriformi appoggiate ai fasci infrastrutturali dell'energia e della mobilità, nelle quali si consuma il destino della città tradizionale capitalistica in una ritrovata unità di città e campagna.
Una vicenda dai connotati completamente diversi, che, pur indipendente dalle esperienze delle avanguardie storiche, non può essere ignorata in questa breve rassegna per il suo grande significato politico e ideologico, è quella maturata a Vienna sotto l'amministrazione socialista negli anni dal 1925 al 1930. I grossi complessi residenziali pubblici, su modelli edilizi tradizionali peraltro combinati con consistenti aliquote di servizi attrezzati, assumono il carattere di capisaldi urbani nei nodi della periferia urbana intermedia, con una forte caratterizzazione espressiva, che tocca toni epici e celebrativi nel celebre Karl Marx Hof (K. Ehn, 1927).
Di fronte a tante realizzazioni che non travalicano mai l'orizzonte del quartiere urbano di piccole e medie dimensioni, è stata possibile una sola applicazione dei principi della moderna urbanistica alla scala di un'intera città. È questo il caso del piano di Amsterdam, elaborato negli anni centrali del periodo fra le due guerre (1928-1935, fra l'inizio degli studi e la redazione) nelle condizioni favorevoli offerte da una prassi e da un costume di guida dell'espansione urbana da tempo radicati, che hanno consentito la chiara formulazione degli obiettivi, la precisa finalizzazione delle indagini, una fondata impostazione delle soluzioni progettuali e una rigorosa gestione tecnico-amministrativa. Il piano di Amsterdam, affidato all'architetto C. van Eesteren per le soluzioni architettoniche e urbanistiche, supera la settorialità e la parzialità dei risultati acquisiti nella Germania di Weimar, pur assumendone l'impostazione metodologica, attraverso una distribuzione/continuità temporale e spaziale degli interventi, dimensionati e cadenzati nelle loro complesse interrelazioni e in rapporto ai fabbisogni presenti e in proiezione; rifiuta l'agnosticismo dei piani di allineamento generalizzati nella prassi, in favore di scelte morfologiche contestualmente specificate; di più, afferma senza esitazioni, di fronte alle applicazioni dei quartieri giardino - più evasive che rassicuranti, velate da una sottile ideologia antiurbana - il dovere e la possibilità di fare i conti con l'eredità della metropoli industriale e con i suoi sviluppi futuri.
b) Le teorie comunitarie
Alla concezione del Movimento moderno, di una frattura storica radicale, implicata dalla rivoluzione industriale, e di un altrettanto radicale rinnovamento della teoria e della pratica (rifiuto o sospensione della continuità storica che è tipico, secondo la classificazione di comodo proposta da F. Choay, dell'etica ‛progressista'), continua a contrapporsi, con ulteriori approfondimenti, il modello ‛culturalista' già fatto proprio da Howard e da Unwin, che si sforza di assicurare al quadro ambientale e all'organizzazione sociale della città moderna l'unità organica della città preindustriale.
Dalla sistematizzazione delle prime esperienze del garden suburb nascono le teorie del neighborhood planning, cui non sono estranee le tematiche di certa sociologia americana dell'inizio del secolo (e, in proiezione storica, le correnti della sociologia tedesca della fine dell'Ottocento, per le quali può essere richiamato il nome di F. Tönnies). La tesi centrale di queste teorie individua nella famiglia l'unità di base che struttura i raggruppamenti umani e costituisce l'elemento naturale di controllo sociale in un ambito più vasto localizzato nel ‛vicinato' (neighborhood). C. Perry (v., 1928) amplia questi contenuti sociologici, collegandoli a una serie di concetti tecnico-funzionali, quali il rapporto fra struttura del traffico e residenza, e fra quest'ultima e le attività collettive. Le dimensioni del vicinato saranno individuate dalle ‛funzioni sociali' localizzate che possono definirsi in relazione alle necessità della vita giornaliera familiare (scuola elementare, attività sociali e ricreative, negozi commerciali di prima necessità); la viabilità esterna e quella di penetrazione saranno dimensionate per il traffico previsto; le attrezzature collettive saranno raggiungibili pedonalmente dalle abitazioni, evitando rigorosamente ogni interferenza con il traffico meccanizzato; l'organismo urbano si amplierà per successiva ramificazione di autonome unità di vicinato secondo un modello nucleare gerarchico (più unità primarie costituiscono un nucleo secondario; a loro volta, più nuclei secondari costituiscono un nucleo di terzo grado).
In questo principio teorico e metodologico di organizzazione ‛ad albero' della città gli urbanisti della scuola anglosassone vedono la più efficace risposta pratica al gigantismo e all'inefficienza della metropoli industriale. L. Mumford ne analizza le possibilità in funzione del decongestionamento delle grandi aree urbane e del decentramento di alcune funzioni terziarie; altri ne propongono l'impiego anche nella riqualificazione e ristrutturazione delle aree degenerate all'interno della città.
Ma di fronte a operazioni meno disaggregabili e alle differenziazioni più complesse di scala e di funzione della metropoli questo strumento mostra le sue difficoltà operative, mentre là dove può essere più facilmente impiegato, cioè nella crescita residenziale suburbana, resta sempre esposto - risucchiato dalla logica produttiva - a un'utilizzazione ‛segregante', sia sul piano più strettamente di classe o di status, sia agli effetti dell'integrazione nella città. I risultati migliori si ottengono negli Stati Uniti (Radburn, New Jersey; alcuni quartieri a New York) nella realizzazione di complessi abitativi, soprattutto per la coesione ambientale perseguita attraverso l'accurato studio delle attrezzature e degli spazi aperti, nella tradizione anglosassone del landscape.
Nei suoi sviluppi ulteriori, però, anche l'etica culturalista, attenuate le preoccupazioni ‛ambientali', può sedimentare proprie conseguenze metodologiche, avvicinandosi in certo modo ad alcune ipotesi del funzionalismo. La ricerca di grandezze ottimali (o ‛conformi', come avrebbe detto Le Corbusier) per gli insiemi insediativi verrà estesa a individuare unità di aggregazione superiori al vicinato o al quartiere, mentre l'idea di una neutralizzazione della proliferazione inorganica o ripetitiva sarà proiettata in modelli di contenimento dimensionale della metropoli, attraverso ‛cinture' di verde agricolo attrezzato, e di enucleazione della crescita per ‛satelliti' autonomi.
c) La gestione urbanistica delle città
Ponendo attenzione alla gestione urbanistica nel ventennio compreso tra le due guerre non si fa fatica a constatare nella pratica corrente la limitata penetrazione dei nuovi indirizzi, dei quali si tende ad assorbire preferibilmente le tendenze verso la normazione e la tipizzazione, snaturandone i fondamenti, mentre persistono equivoci dottrinali, scorie idealistiche e, nei regimi autoritari, pesanti ipoteche ideologiche.
Il piano regolatore si afferma come uno strumento sostanzialmente impermeabile al progetto edilizio e l'urbanistica si consolida come tecnica separata dall'architettura. Ciò avviene però in termini ulteriormente riduttivi: organizzazione della viabilità e del traffico, sistemazione del reticolo stradale-insediativo quale combinazione di ammagliature non qualificate, da saturare sulla base di un rudimentale regolamento edilizio, e di episodi di decoro urbano affidati alla connotazione di qualche attrezzatura pubblica, e dello zoning come determinazione funzionale e talvolta tipologica. Occasionalmente, per le capitali e le grandi città, si pongono ancora in essere programmi di ascendenza ottocentesca, con ampio uso di sventramenti, creazione di assi monumentali o commerciali, sostituzione di interi tessuti urbani (Roma nel periodo fascista, Madrid, ecc.).
Pochi sono i piani elaborati con metodi scientifici (si è già citato il caso di Amsterdam, eccezione esemplare), anche se gradualmente tendono ad affermarsi nella preparazione professionale e nelle procedure amministrative i primi presupposti di un'analisi degli elementi potenzialmente incidenti sullo sviluppo della città (demografia, innanzitutto, economia urbana, traffico, impianti tecnici). Si approfondiscono le modalità atte a regolare i rapporti fra il privato e la pubblica amministrazione e si profila la distinzione fra il livello del piano generale - concepito come indipendente da scadenze temporali, elemento di coordinamento nei tempi lunghi dello sviluppo di tutta la struttura urbana, che proietta tendenze quantitative in termini spaziali - e il livello dei piani di dettaglio, cui dovrebbe essere demandata l'attuazione puntuale dello sviluppo. Ma l'applicazione di questi concetti è disuguale e incoerente, e la gestione degli strumenti disattende gli obiettivi che li avevano informati.
Un forte limite è ovunque costituito, sul piano pratico, dalla configurazione dell'ambito territoriale su cui deve incidere programmaticamente il piano (ambito che si limita al nucleo urbano, dove si manifestano i fenomeni di trasformazione fisica), mentre il territorio extraurbano è concepito piuttosto ‛in negativo' rispetto alla città. Nelle situazioni maggiormente dinamiche tutto questo porta a un vuoto di potere, entro il quale si scaricano iniziative prese al difuori di qualsiasi forma di controllo. Più importante però, in prospettiva, è la pesante eredità concettuale che il modo d'intendere il territorio agricolo - come non città, in attesa di divenire città - lascerà anche nei piani che includono la totalità dell'ambito amministrativo (come avviene in Italia in seguito alla legge n. 1150 del 1942).
La legge urbanistica italiana del 1942 è un'espressione matura di articolazione di strumenti di varia scala, che adombrano nel loro insieme una posizione tendenzialmente dirigistica e impositiva, corrispondente al delinearsi all'interno del regime fascista nei suoi ultimi anni di vita di una pervasiva ideologia del piano. Un elemento di forte contraddizione, peraltro, stava nel non casuale silenzio a proposito dell'appropriazione della rendita nella formazione del piano e nella costruzione della città, che prefigurava il dissidio - perdente per l'urbanistica - fra obiettivi della legge e regime liberistico della proprietà privata dei suoli garantito dalla legislazione generale italiana in materia.
d) Esperienze di pianificazione territoriale
Negli anni trenta si attuano negli Stati Uniti e in Europa esperienze e programmi di pianificazione regionale, che nascono da situazioni assai diverse fra loro, in cui un mutevolissimo peso banno di volta in volta le motivazioni ideologiche, politiche e produttivistiche.
Negli Stati Uniti, sullo sfondo della crisi economica, questa possibilità è offerta dal nuovo ruolo di uno Stato divenuto pubblico imprenditore, a copertura dei vuoti lasciati nel sistema dal capitale privato e a sostegno di quest'ultimo. La Tennessee Valley Authority (TVA), un ente federale creato dal presidente Fr. D. Roosevelt per la pianificazione dell'intero bacino del Tennessee, su un'area di 40.000 miglia quadrate (pari a 4/5 dell'Inghilterra), dà vita di fatto, sia pure come correlata sommatoria di una serie di piani settoriali (controllo idrogeologico attraverso un sistema di dighe, navigazione fluviale, distribuzione dell'energia elettrica, bonifica dei suoli, afforestazione, rete della viabilità ordinaria e ferroviaria, insediamenti industriali e residenziali) a una vera e propria operazione di pianificazione regionale, che ricompone in ultima analisi un territorio sottosviluppato in una più equilibrata geografia fisica e sociale.
In Olanda, potenziando e razionalizzando in un rigoroso piano attuativo la tradizionale spinta del paese verso la conquista di nuove terre, si prosciuga a partire dal 1927 il grande bacino dello Zuiderzee (quasi 250.000 ha di superficie) richiudendolo con una grande diga di oltre 32 chilometri, posta fra la Frisia occidentale e la Frisia orientale. Il piano prevede l'insediamento dei coloni nei quattro grandi polders del bacino, a partire da quello di nord-ovest (Wieringermeer, inizio 1930) seguito da quello di nord-est (inizio 1937), con la creazione - a sostegno dell'appoderamento sparso - di una rete di piccoli centri abitativi, fra i quali il maggiore di quelli costruiti prima della guerra (Emmeloord, nel polder di nord-est) raggiunge i 10.000 abitanti (dopo la guerra si inizieranno le opere per i nuovi polders di Oostelijk Flevoland, 1957, e Zuidelijk Flevoland, 1968, con un ben diverso impegno nella progettazione di nuove città).
Nell'Unione Sovietica, contestualmente alla stabilizzazione del potere staliniano, si attua una statalizzazione-centralizzazione dell'economia, che esprime nel 1928-1933 un primo piano quinquennale, seguito da un secondo per il periodo 1933-1937. I prevalenti contenuti economici dei due piani si collegano però a significativi aspetti più propriamente territoriali, che hanno il loro fulcro nella colonizzazione e industrializzazione di nuovi territori a partire dalla regione degli Urali (estensione della rete ferroviaria, costruzione di nuovi insediamenti programmati, come Stalino, Makeevka, Karaganda, Magnitogorsk, ecc., dove sono attivi decine di architetti centroeuropei, fra i quali E. May e M. Stam).
Nell'Italia fascista con la bonifica e la colonizzazione dell'Agro pontino il fascismo realizza la sua opera più rilevante di trasformazione territoriale sotto controllo pubblico, nell'ottica della formazione di quella piccola proprietà contadina che fa parte del programma sociale del partito. L'ONC (Opera Nazionale Combattenti) è l'ente preposto alla bonifica e all'appoderamento delle Paludi pontine, alle porte di Roma; più direttamente legata all'iniziativa personale di Mussolini è la fondazione delle ‛città' dell'agro (Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia), sulla cui carica figurativa fa soprattutto conto la propaganda del regime. Riforma agraria e rilancio produttivo dell'agricoltura restano comunque traguardi mancati dell'impresa pontina, condizionata molto pesantemente dai prevalenti interessi ideologici e politici.
e) Altre ricerche teoriche
Guardando oltre la pratica concreta degli interventi operati sulle città e sul territorio e al di là dell'impostazione teorica degli architetti del Movimento moderno, si devono indicare nel periodo fra le due guerre mondiali una serie di contributi di settore di importanza tutt'altro che trascurabile per l'allargamento dei fondamenti e degli strumenti dell'urbanistica.
Negli Stati Uniti vanno registrati nel corso degli anni venti gli apporti che provengono dalla cosiddetta ‛scuola ecologica' di Chicago. Applicando al campo degli studi sociologici una serie di concetti sviluppati dall'ecologia animale e vegetale (Darwin e Haeckel), R. E. Park individua nelle città una serie di ‛aree naturali' omogenee, che sono definite dalla presenza di determinati gruppi sociali e sono il risultato di un processo di competizione per l'uso delle risorse fisiche. E. W. Burgess, a sua volta, illustra il sedimentarsi di questo processo con un modello di distribuzione della popolazione e delle attività in un centro urbano, rappresentandolo secondo un diagramma ad anelli concentrici, che partono dal nocciolo centrale, formato dalle aree commerciali pregiate, e costituiscono, muovendo verso l'esterno, un'area di transizione, occupata da imprese commerciali e piccole industrie, un'area residenziale di tipo operaio, un'altra area residenziale di livello più elevato, e infine aree residenziali suburbane o nuclei satelliti di ‛pendolari'. Di questo diagramma Burgess riscontra un esempio molto fedele nell'organizzazione metropolitana di Chicago.
Le teorie della scuola ecologica di Chicago hanno promosso un importante messe di lavori di sociologia urbana e al tempo stesso hanno alimentato gli studi sui modelli organizzativi e funzionali della città. Già nel 1939 H. Hoyt, contrapponendosi a Burgess, elabora una propria teoria dello sviluppo urbano per settori, giungendo alla conclusione che le aree industriali tendono a costituirsi secondo gli assi di comunicazione e che in rapporto a questa distribuzione le aree residenziali si dispongono secondo settori di cerchio, in particolare vicino ai centri commerciali è all'interno di questi settori che si produce il fenomeno della stratificazione-mobilità verso l'esterno delle classi di maggior reddito. Nel 1945 C. D. Harris ed E. L. Ullman nelaborano le osservazioni precedenti giungendo a una teoria dello sviluppo per nuclei di funzioni specializzate (residenza, commercio al minuto e all'ingrosso, amministrazione, ricreazione, ecc.).
Alcuni di questi contributi si inseriscono già nel filone delle teorie della localizzazione e dell'economia spaziale, che affinano i propri strumenti a partire da studi e indagini condotti sui fattori di localizzazione degli insediamenti industriali e commerciali.
Sulla traccia di un primo importante lavoro di Alfred Weber (v., 1909), si sviluppa in Germania la teoria della localizzazione industriale, con i contributi di A. Predhol (1925), di H. Ritschl (1927), e soprattutto di A. Lösch (v., 1939). Mentre altri autori avevano dedicato la loro attenzione al problema della localizzazione industriale, W. Christaller (v., 1933) si volge invece a studiare la posizione delle città in relazione alle funzioni assunte e ai rapporti che si instaurano con il territorio circostante, giungendo a individuare i parametri che giustificano determinate ricorrenze nel formarsi delle ‛gerarchie urbane' (teoria delle località centrali). Negli Stati Uniti le teorie e i modelli di Christaller danno luogo agli studi di M. Jefferson, E. Ullman e G. K. Zipf.
4. Urbanistica e pianificazione nel secondo dopoguerra
L'immediato dopoguerra segna una forte ripresa dei temi della pianificazione sui quali, nelle nazioni colpite dalla guerra, pesano i problemi della ricostruzione fisica ed economica, e in qualche caso l'idea di un nuovo corso politico e sociale (alcuni paesi comunisti, i paesi usciti dalla dittatura e in seguito i paesi del Terzo Mondo). Il raggio d'azione dell'urbanistica sembra ampliarsi, aprendo la strada in molti paesi a prospettive di pianificazione ai vari livelli amministrativi e nei vari settori, che si intrecciano a forme di pianificazione economica ai livelli regionale e nazionale.
Questo ottimismo non regge alla prova dei fatti, mettendo a nudo - in forma più o meno drammatica, ma tale da coinvolgere anche alcuni dei paesi dotati di una più affermata tradizione e coscienza dei problemi urbani - i fondamenti teorici ancora immaturi della disciplina, la disorientante impreparazione degli urbanisti, la labile consistenza di tante certezze precostituite, ma anche le difficoltà di una visione unitaria dei problemi, le resistenze a un atteggiamento di paziente verifica delle ipotesi, la separatezza/conflittualità fra tanti corpi amministrativi dell'apparato pubblico.
Le deficienze si misuravano già sul piano tecnico, nella natura dei piani regolatori concepiti più come ‟somma di iniziative possibili" che come ‟insieme di operazioni da compiere" (G. Astengo), e pertanto strumenti di regolazione tecnica e non di coordinamento spazio-temporale. Le conseguenze si misuravano sul piano pratico, nel corpo stesso delle città, con la rapina e la degradazione della qualità ambientale e delle risorse (storiche e naturali), con l'abusivismo imprenditoriale, con i gravi scompensi fra iniziativa pubblica e privata, con il sottodimensionamento dei servizi, con le code e le strozzature dovute allo sviluppo ipertrofico di certi settori rispetto all'asfittica presenza di altri, con le altissime densità edilizie, con il prevalere ultimo, sulle politiche concertate, degli effetti e dell'azione del mercato. Con l'accelerazione dei mutamenti sociali e il cambiamento di scala dei fenomeni aumentava, anziché ridursi, il divario fra l'assetto del territorio come portato fondamentale dell'azione delle forze dominanti (anzitutto economiche) e come risultato di un reale controllo da parte dell'urbanistica. Quest'ultima finiva per caratterizzarsi spesso come semplice strumento di legittimazione delle trasformazioni in atto o al massimo come fattore di mediazione degli interessi delle varie forze in campo.
A parte alcune eccezioni significative - come l'inghilterra e l'Olanda, nelle quali si rivelano, oltre alla consapevolezza della pianificazione, anche le effettive capacità di correlazione in pratiche istituzionali operanti fra settori e scale d'intervento, fra programmi economici e piani urbanistici - è più facile, nella generalità dei casi, annoverare riuscite realizzazioni singole dovute a circoscritte o settoriali operazioni di piano.
a) I problemi e i risultati della ricostruzione
Le distruzioni dell'ultima guerra hanno portato molte città europee a dover affrontare con la ricostruzione i problemi, non solo organizzativi ma anche teorici, dell'intervento nei centri storici, con risultati - sui due piani - generalmente diversificati in base alla diversa capacità di un'efficace presenza a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica.
A Coventry, in Inghilterra, per esempio, la ricostruzione è stata occasione per l'applicazione di un rigoroso modello di centralità controllata, con la creazione di un nucleo di servizi e attrezzature di livello urbano, pedonalizzato, ma con alto grado di accessibilità mediante una ristrutturazione del sistema della viabilità radiale. A Rotterdam il piano per la ricostruzione è stato avviato già sotto l'occupazione tedesca e realizzato attraverso l'esproprio di tutta la zona centrale, utilizzando forme di rigorosa perequazione dei diritti dei proprietari privati con cessione di nuovi terreni anche diversamente ubicati. La redazione definitiva del piano, diretta da C. Van Traa e approvata nel 1946, contempla il consolidamento delle funzioni direzionali a nord della Mosa, ma le coordina con un vasto piano regolatore d'insieme; nel centro emerge fra le diverse realizzazioni il complesso Lijnbaan, di negozi e abitazioni. Un punto di vista quasi antitetico è stato invece seguito a Varsavia, con una puntualissima resurrezione in pristino dell'intero centro distrutto - quasi un modello in scala reale dell'organismo precedente - realizzata in seguito a una scelta sulla quale hanno certo pesato motivazioni affettive e ideologiche. In Germania la ricostruzione filologica dei centri distrutti si limita in genere a qualche elemento monumentale (un'eccezione è costituita da una serie di case sul lungofiume di Colonia), mentre prevalgono in genere ricostruzioni superficialmente moderne, che ripetono dilatandolo l'impianto precedente, delle quali non va sottovalutato tuttavia l'impegno tecnico-amministrativo. A Berlino assistiamo alla marcata contrapposizione fra le esperienze portate avanti nella zona occidentale (dove spicca il pretestuoso Hansa Viertel) e quelle della zona sotto controllo sovietico (caratterizzata dalla monumentale e più compatta sequenza della Stalinallee). In Unione Sovietica, nell'ambito di un'organizzazione rigidamente centralizzata, costante è stato il riferimento a canoni stilistici locali e regionali, combinato con l'adozione di progetti-tipo e la ricerca di capisaldi monumentali. In Francia l'episodio di maggior evidenza è la ricostruzione della parte distrutta di Le Havre, su progetto di Gustave Perret concepito come un'architettura a grande scala impostata sulla normalizzazione e prefabbricazione degli elementi costruttivi - piuttosto che come organizzazione di diverse e più complesse presenze - il piano di Le Havre appare il risultato di una lunga e nobile tradizione classico-razionalista, già sistematizzata da Garnier collegandola alle tematiche più vive dello sviluppo urbano.
In Italia, infine, deludenti sono i risultati delle ricostruzioni operate su insiemi urbani, come a Firenze (Borgo S. Jacopo e Por Santa Maria), dove la morfologia si irrigidisce in un pastiche pseudomimetico in cui il fiorentinismo deteriore dell'immagine copre la prepotenza degli interessi fondiari che hanno pesantemente condizionato il risultato definitivo.
b) Dal quartiere alla città
Nell'immediato dopoguerra, dopo le esperienze della ricostruzione - mentre si riprende e si va specificando in molti paesi un'articolazione più precisa della pianificazione urbanistica soprattutto a livello urbano (piano regolatore come strumento inteso a dare coerenza alle spinte e alle tensioni disparate provenienti dai diversi gruppi sociali) - le realizzazioni pianificate ruotano dapprima intorno alla dimensione del quartiere, come minima unità progettuale ed esecutiva, equilibrata rispetto a una serie di servizi primari e in grado di garantire effetti di comunità organizzata. Le esperienze migliori si attuano nell'Europa settentrionale, fra gli anni 1945-1955, soprattutto nell'ambiente anglosassone e nei paesi scandinavi. Oltre ai quartieri inglesi soprattutto di Londra, in parte derivanti da ricostruzioni interne alla città, come Pimlico, o in siti di nuova urbanizzazione come il famoso Roehampton progettato dal London County Council, notissimi sono i quartieri svedesi di Gröndal (1946), Råcksta (1948), Blackeberg (1948), Danvikslippan (1948), nei pressi di Stoccolma, e il complesso Baronbackarna a Örebro (1954), degli architetti S. Backström e L. Reinius: tutti di notevole importanza per la loro influenza su alcuni coevi progetti italiani, nei quali la ‛cultura' del quartiere e le teorie del vicinato da un lato parevano una risposta appropriata a mediare l'impatto metropolitano di una popolazione rurale che si andava travasando nelle città, dall'altro corrispondevano alle dimensioni operative poste in essere dai due piani Fanfani per l'edilizia popolare (INA Casa, responsabile dell'edificazione di quasi due milioni di vani dal 1949 al 1963). Il quartiere Tiburtino I a Roma resta l'esempio estremo, di antologica evidenza, di quel ‛neorealismo populista' con cui gli architetti italiani interpretavano questa fase di sviluppo della città, soprattutto nel centro e nel Meridione; a esso si contrapponevano nell'Italia settentrionale realizzazioni più vicine agli esempi europei (quartieri Cesate e Harrar a Milano, Falchera a Torino, Villa Bernabò Brea a Genova, tutti del 1951, quartiere Bellavista a Ivrea del 1958).
Fin dall'inizio, tuttavia, una divaricazione va messa in luce nell'evoluzione delle politiche urbanistiche attuative delle più avanzate nazioni europee e del nostro paese. In Olanda, in Inghilterra, nei paesi scandinavi, in Francia, i piani regolatori urbani impostano e sostengono, nel quadro di un controllo ormai maturo della crescita urbana, esperienze realizzative più articolate e complesse.
Di massimo rilievo in questo senso è la situazione inglese, per la coerenza, l'ampiezza e la vitalità delle iniziative, per la capacità di attualizzare e valorizzare la propria tradizione, per la pazienza sperimentale. Si pensi, ad esempio, al piano della Grande Londra (1944), studiato da Patrick Abercrombie, nel quale vengono a confluire in una sintesi originale: a) gli orientamenti espressi dalle indagini governative sullo stato generale del paese, eseguite dal 1940 al 1941 (rapporti Barlow, Scott e Uthwatt, rispettivamente riguardanti la situazione delle città e dei territori del Regno Unito, lo stato delle aree rurali e le soluzioni da adottare per una regolamentazione più aggiornata del regime dei suoli); b) la cultura della garden city, su una linea di pensiero che attraverso molti epigoni risale fino a Howard, ma qui proiettata su un programma di realizzazione di città nuove (new towns) in funzione del decongestionamento dell'area londinese; c) l'organizzazione interna della città esistente e delle nuove città mediante una struttura per nuclei del tipo della neighborhood unit definita da C. Stein. Con il New towns act del 1946 (che si accompagnava a una serie di altre misure coordinate, studiate dal governo laburista e interessanti l'edilizia, l'industria, le infrastrutture e la legislazione urbanistica) la pianificazione delle new towns può decollare, applicandosi non solo a Londra, ma anche alle aree metropolitane maggiori del paese. Fra il 1946 e il 1956, nella sola area londinese, sono in costruzione 14 new towns: dalle prime esperienze di Stevenage (1946), Crawley (1947), Harlow (1947) intorno a Londra, fino a Cumbernauld (progetto 1956) nell'area metropolitana di Glasgow, attraverso una forte evoluzione dei criteri di progettazione si giunge a una maggiore compattezza dei centri della vita associata e, in parte, degli insiemi residenziali.
In Svezia il piano regolatore della Grande Stoccolma, redatto nel 1952 sotto la direzione di S. Markelius, prevede una crescita organizzata per centri satelliti parzialmente autonomi (Vällingby, Farsta, Skärholmen), collegati al centro metropolitano da trasporti veloci e organizzati al loro interno in nuclei attrezzati di grande vitalità, intorno ai quali si dispongono gli insiemi residenziali, abilmente inseriti nel paesaggio naturale e variati nelle loro espressioni tipologiche e morfologiche.
Anche in Danimarca il piano per la capitale è stato inizialmente impostato su una stretta interrelazione fra sistema dei trasporti e sviluppi urbanistici ed edilizi (piano cosiddetto ‛delle cinque dita', del 1947). Fra gli insiemi abitativi, generalmente di dimensioni più ridotte rispetto a quelli svedesi, emerge il grande quartiere di Albertslund.
Anche il piano del 1960 per Helsinki, ispirato allo schema di Stoccolma, si avvale della previsione di centri pianificati satelliti, come la città giardino di Tapiola, uno degli esempi più riusciti di equilibrata composizione ambientale, e quella più recente di Kivenlahti. Nel contesto misurato dell'urbanistica finlandese, e nel quadro dei programmi che il piano fa emergere, può prodursi un'opera come il progetto di A. Aalto per l'area centrale della capitale (1961), certo uno dei risultati migliori di disegno urbano di questi anni per l'equilibrio fra creazione e interpretazione del paesaggio, fra singolarità degli oggetti architettonici e coralità dell'insieme, per il sapientissimo trattamento dei dati funzionali e tecnologici, ugualmente lontano da esaltazioni e rimozioni.
In Olanda si persegue con altissima coerenza nelle maggiori città la strada aperta dal piano di Amsterdam, che viene completato e arricchito secondo l'impostazione del 1935, sempre con risultati di una rigorosa qualità media e una perfetta complanarità fra realizzazione di residenza e attrezzature, elementi di arredo e sistemazioni paesaggistiche (il grande lago Sloterplas e il bosco di quasi 1.000 ettari). Con la stessa fedeltà di principî, anche se incrementando le dimensioni delle operazioni, si completa la bonifica e la colonizzazione interna dell'antico Zuiderzee.
I risultati che andiamo elencando non sono importanti soltanto per la loro qualità intrinseca, ma anche per la loro portata teorica. In gran parte queste realizzazioni proseguono le riflessioni già iniziate negli anni venti a proposito della dimensione conforme degli insiemi residenziali e della loro aggregabilità, spingendone progressivamente la soglia verso l'alto (almeno fino al profilarsi, verso la metà degli anni settanta, della crisi economica che investe le nazioni occidentali, quando alcuni dei programmi subiscono una battuta d'arresto). La ricerca sull'unità massima di aggregazione, per usare la terminologia di L. Benevolo, già fissata intorno ai 30.000 abitanti da Howard, si aggira fra i 50.000 e i 60.000 abitanti per le prime 14 new towns inglesi, sale a 70-100.000 abitanti con i progetti per Cumbernauld e Hook (entità paragonabili a quelle delle città satelliti svedesi e finlandesi: Farsta, Vällingby, Tapiola, Kivenlahti, con 80.000 abitanti, e ad alcuni grands ensembles francesi: Aulnay-sous-Bois e Toulouse le Mirail con 70.000 e 100.000 abitanti), per portarsi intorno ai 300.000 abitanti e oltre nelle esperienze più recenti (la proposta Pampus di J. B. Bakema e J. Van den Broek per l'ampliamento di Amsterdam, 360.000 abitanti; il programma di Milton Keynes, 250.000 abitanti; le villes nouvelles della regione parigina: Cergy-Pontoise con 300.000 abitanti, Val de Marne con 550.000, Evry con 450.000). Da un lato si ha la possibilità di una superiore concentrazione e complessità dei servizi e delle attrezzature collettive, dall'altro tende a riproporsi un modello subordinato alla centralità terziaria e inficiato dalla dispersione moltiplicata delle zone produttive (con un irrisolto rapporto fra residenza e lavoro, analogamente a quanto avviene nella città commerciale-industriale di tipo tradizionale).
Alle città nuove residenziali, che costituiscono una piattaforma sperimentale di prim'ordine (perché danno modo di verificare sia una serie di aggregazioni e combinazioni sempre più complesse, sia il funzionamento del modello città centrale/città nuove), si aggiungono nell'ultimo dopoguerra un paio di occasioni in cui la committenza pubblica e un preciso programma mettono i progettisti nelle condizioni di controllare nelle sue fasi più importanti di progettazione e attuazione tutto il processo di piano, sino alla costruzione delle singole architetture. Intendiamo parlare di due nuove capitali: Brasilia e Chandigarh.
Quando nel 1955 il presidente del Brasile J. Kubitschek imposta la costruzione di una nuova capitale del paese, punto di partenza di un grande programma di colonizzazione dell'interno, sono da tempo conosciuti gli indirizzi del Movimento moderno, e in particolare la lezione di Le Corbusier (della quale, per esempio, è espressione molto fedele il nuovo centro di S. Antonio, progettato nel 1948 da E. A. Reidy). Il progetto per la nuova Brasilia, prescelto in seguito a un concorso internazionale e dovuto a L. Costa (1956), nasce dall'intersezione di due assi, l'uno d'impianto residenziale, l'altro a supporto degli edifici direzionali e amministrativi della capitale, attingendo a una scala gigantesca chiaramente leggibile, nelle intenzioni del progettista, attraverso le ritmiche ripetizioni delle supercuadras residenziali e il plastico rilievo dei pezzi monumentali progettati da O. Niemeyer, il più illustre interprete della scuola brasiliana, e culminanti nella piazza triangolare dei tre poteri. Il mutamento delle condizioni politiche e il riflettersi anche a Brasilia delle pesanti condizioni economiche e sociali del paese (con la comparsa, anche in questa città-modello, di incoercibili agglomerati di edilizia abusiva) interrompono questa esperienza senza consentire una probante convalida dei suoi presupposti.
Il piano che Le Corbusier elabora nel 1951 per Chandigarh, la nuova capitale del Punjab voluta dal governo indiano, prevede una crescita fino a 150.000 abitanti (con possibilità di espansione fino a mezzo milione). Il piano nasce su un impianto a maglie ortogonali nella consueta impostazione analitico-funzionale (settori insediativi, gerarchia stradale, classificazione di tipi residenziali), per generare però nei punti di massimo coagulo - e segnatamente nel gruppo degli edifici rappresentativi, progettati da Le Corbusier - elementi di suggestiva e densa espressività (Corte di Giustizia, Segretariato, Palazzo del Parlamento), perentorio e forse sconcertante ritorno, al livello simbolico e formale, a una fortissima e individualizzante immagine di centro urbano su grande scala.
c) I centri storici
A fronte delle impetuose accelerazioni della crescita e della dimensione urbana, i centri delle città sono stati sottoposti a una serie di tensioni anche contraddittorie (degrado, aumento vertiginoso della rendita fondiaria, terziarizzazione, innovazione tecnologica). Gradualmente, rispetto a quei progetti che identificavano il rinnovo urbano con la demolizione degli slums ed erano perseguiti per via di operazioni autonome e in sé concluse, l'ottica degli interventi è andata via via spostandosi verso: a) un più consapevole coordinamento e una globalità delle scelte di piano; b) l'idea della salvaguardia fisica ed ecologica, in presenza di un patrimonio di valore ambientale e storico.
Il primo atteggiamento può essere esemplificato dal progetto di V. Gruen per il centro di Fort Worth (1954), o attraverso il piano di E. N. Bacon e O. Stonorov per il centro storico di Filadelfia (1947-1960); su una scala più contenuta si può indicare il progetto per il nuovo centro di Boston (piano del 1958 e progetti degli anni immediatamente seguenti). Si tratta peraltro di operazioni che comportano la concentrazione di attività terziarie (uffici privati e pubblici, grande distribuzione commerciale) e nelle quali l'intervento pubblico ha l'effetto di scardinare - su un'ipotesi di nuovo ordine spaziale e di un'immagine di modernità - la rigidità fisica ereditata dai precedenti modi di produzione.
Il secondo tipo d'intervento muove da interessi quasi opposti a quelli che motivano le operazioni precedenti, e cioè dalla coscienza della vitalità culturale dell'ambiente preindustriale, nel suo insieme, come struttura edilizio-ambientale complessa. La consapevolezza di questa scelta varia da contesto a contesto, da un limite inferiore nel quale si appoggia a valutazioni più limitate, nel segno di un patriottismo localistico, fino a una più avvertita consapevolezza, in cui la prospettiva culturale della salvaguardia e del recupero si compenetra con obiettivi di politica urbanistica e sociale (diverso equilibrio nel piano urbano fra nuova crescita e riciclaggio dell'usato; verifica di ipotesi più specifiche a livello locale, come la pedonalizzazione di certe parti del tessuto; mantenimento nei loro ambienti originali di classi e gruppi sociali minacciati di espulsione; abbattimento della rendita parassitaria; collegamento con il problema della casa; avvio di processi di coinvolgimento decisionale dell'utenza; criteri di comparazione di costi fra vecchio e nuovo).
Realizzazioni di questo tipo, con diversa portata, sono state attuate episodicamente in alcuni paesi europei, come il Belgio, l'Olanda, la Gran Bretagna. In Italia alcune amministrazioni locali - Modena, Brescia, Como, Gubbio, Ancona, Taranto - hanno avviato programmi di recupero e restauro di parti del centro storico. A Bologna - a fronte dei gravi ritardi accumulati in altre città maggiori - si è avuta l'iniziativa politicamente, tecnicamente e culturalmente più matura e avanzata, con il ripristino, fra l'inizio e la fine degli anni settanta, di un intero isolato urbano, attraverso il recupero funzionale della tipologia originaria, l'introduzione di servizi sociali, la centralizzazione dei servizi tecnici.
Nonostante che, sia attraverso questa e altre esperienze pilota, sia attraverso un vasto movimento di opinione pubblica, la questione dei centri storici sia ormai culturalmente acquisita, permangono nei paesi capitalistici difficoltà inerenti al generalizzarsi delle politiche di ripristino e riuso sociale del centro antico - e più in generale delle aree di degrado - quanto più la competizione per lo spazio si fa acuta, soprattutto nelle maggiori aree urbane. Valgano per tutte le vicende del centro di Parigi negli anni settanta, dove al trapianto nell'area delle Halles di un gigantesco nodo di infrastrutture di trasporto (con la demolizione dei padiglioni ottocenteschi di V. Baltard), e alla costruzione, a qualche isolato di distanza, del pubblicizzatissimo Centre Pompidou (Beaubourg), si sono accompagnati, nelle zone circostanti, pesanti interventi di pseudorisanamento operati da grandi combinazioni finanziario-imprenditoriali, con la manipolazione distruttiva delle strutture edilizie (mantenimento, e parziale, della sola ‛pelle' esterna degli edifici), e con l'espulsione della popolazione esistente.
5. La ricerca sulla città e sulla pianificazione nel secondo dopoguerra
Si sono indicati così, in un sintetico consuntivo, alcuni dei più significativi prodotti di urbanizzazioni pianificate, punti conclusivi, a volte, di una faticosa maturazione concettuale e di strumenti operativi - attraverso ostacoli e diffidenze - e origine di incessanti riflessioni sull'attualità e fecondità dei criteri che li hanno ispirati.
Senza disconoscere questi risultati - e anzi considerandoli come punta emergente, e conclusione più concretamente visualizzabile, di un tessuto molto più fitto di iniziative di pianificazione a vari livelli e in vari settori - non si potrà non indicarne la limitatezza nei confronti delle dimensioni straordinarie dei fenomeni che a livello mondiale interessano il quadro fisico dell'urbanizzazione. Una porzione relativamente circoscritta dei centri urbani (e dei loro territori) è oggetto di una corretta azione di pianificazione. La grande maggioranza di essi sono invece oggetto di politiche discontinue di interventi settoriali, che non aprono mai condizioni più generali di quelle determinate dal loro ristretto campo d'azione, spostando i conflitti su altri settori e su problemi di correlazione. Una ragguardevole percentuale non è pianificata affatto.
I sintomi di una ‛crisi urbana', che si manifestano in forme esplosive e con altissimi costi sociali nei paesi sottosviluppati, non sembrano risparmiare le metropoli tradizionalmente ‛pianificate' delle società a capitalismo maturo. Se il prevalere di fortissimi interessi terziari e di comando diretti verso le aree centrali delle città ha provocato una dicotomia ricorrente fra residenza esterna e luoghi di lavoro per una popolazione che vieppiù si trova impiegata nei servizi (con insorgenza di corposi fenomeni di migrazione giornaliera: pendolarità), la presenza sempre più invadente dell'auto privata ha imposto rilevanti trasformazioni nell'apparato tecnico-organizzativo di servizio alla mobilità (delle quali è specchio la città nordamericana) senza tuttavia conseguire stabili equilibri ‛fisiologici' (per l'effetto di ulteriore concentrazione determinato dall'offerta di una migliore accessibilità), e anzi ingenerando anche pericolose conseguenze ecologiche. Ma ben più preoccupanti, nel loro insieme, sono già gli effetti collaterali di questi processi su alcune aree metropolitane degli Stati Uniti (e in parte anche dell'Europa settentrionale), prima nuclei trainanti del sistema territoriale e ora investite da fenomeni di depauperamento economico e sociale (perdita di attività produttive, abbandono di fasce di popolazione a medio reddito, invecchiamento degli abitanti, divario sempre più grave fra bisogni espressi e gettito fiscale, scollamento fra potere costituito e utenti, esplosione di conflitti sociali), cui corrisponde un incalzante degrado del patrimonio edilizio e dei servizi pubblici. Nei paesi latino-europei tendono a profilarsi processi di sviluppo simili, anche se in parte ritardati o modificati dalla presenza di modelli culturali di tipo diverso (per esempio per quanto riguarda il permanere della centralità residenziale per le classi medie). E anche se in molti di questi paesi si è assistito negli anni recenti al ristagno demografico e a una sostanziale stasi della popolazione urbana, non per questo ne risultano calmierate l'urgenza e l'ampiezza dei problemi, acuiti dalla domanda di nuovi consumi (aumento del numero dei nuclei familiari a parità di popolazione, diffusione della seconda casa, richiesta di spazi sempre maggiori per funzioni terziarie, ecc.). Alle strategie di lunga portata, qualche volta adottate in passato utilizzando mezzi ed energie anche molto consistenti (che, sia pure nell'ambito di una visione prevalentemente tecnicistica dei problemi, puntavano a integrare in un programma unitario la sfuggente segmentazione degli aspetti organizzativi delle città), sembrano sostituirsi ora misure settoriali e di breve periodo.
Ancora più gravi sono le difficoltà in cui si trovano immersi i paesi latino-americani e del Terzo Mondo, nei quali l'accelerazione della crescita urbana, sulla quale giocano ancora l'incremento del tasso di natalità e l'immigrazione rurale, procede a un ritmo molto superiore a quello dei paesi industrializzati nella fase del loro decollo (l'urbanizzazione - o iperurbanizzazione, come è stata chiamata - e quindi una variabile indipendente dall'industrializzazione e dallo stesso sviluppo economico). Le conseguenze urbanistiche si risentono nei forti squilibri interni all'agglomerazione urbana, nelle prestazioni dei servizi, nel livello ambientale, nel rafforzarsi di fenomeni di segregazione spaziale, nello sviluppo di un'urbanizzazione ‛irregolare' e irrefrenabile accanto alla città regolare.
Mentre le ragioni dello sviluppo tecnologico, sempre più penetranti, instaurano un irreversibile processo di unificazione del genere umano (si rifletta all'invasione ovunque incontrastata del mezzo di trasporto individuale, mai arginata da scelte più meditate), le radici particolari di ogni cultura tendono ad annullarsi, oppure sono fatte strumenti di situazioni amministrate da configurazioni verticistiche di potere. Ne è una dimostrazione l'imposizione nelle culture del Terzo Mondo di modelli urbanistici derivati dall'esperienza occidentale, non solo culturalmente alieni (e quindi, perché più ‛forti', distruttivi delle ecologie locali), ma anche socialmente squilibranti, in quanto impiegati in un uso di classe: essi si applicano infatti agli apparati istituzionali, alle capitali per esempio, sempre più distaccate dalle realtà dei rispettivi paesi, o ai quartieri delle classi dominanti, non a tutto il resto della popolazione, cui lasciano i peggiori effetti indotti dell'urbanesimo al livello dei più elementari bisogni non soddisfatti. Per di più le carenze della politica internazionale o nazionale - e in molti casi la stessa regionalizzazione - accentuano gli effetti di dipendenza, di isolamento, e quindi di debolezza delle aree più sfavorite rispetto a quelle più ricche ed equilibrate.
a) L'evoluzione del dibattito internazionale
Un comune punto di riferimento hanno trovato dalla metà degli anni cinquanta a oggi tutti quegli apporti che, muovendo da diverse ottiche parziali, si sono riconosciuti nell'istanza di contrapporre una più ricca idea di città all'empirica burocratizzazione della pratica urbanistica e agli asettici stereotipi tecnico-formali derivati dalle premesse del razionalismo.
Il crescente distacco della disciplina dai processi di costruzione formale della città veniva sostanziandosi, secondo un condiviso atteggiamento critico, nello zoning come strumento che, incasellando le singole attività in un proprio spazio, ne irrigidisce e impoverisce i rapporti, e in ogni caso sanziona l'indifferenza della crescita rispetto a una ‛forma' complessiva della città; nella lottizzazione (complementare allo zoning), come dispositivo che rende parcellare e autonoma ogni costruzione edilizia, non congruente in un ‛tessuto' continuo e collettivo; nell'articolazione legislativa e giuridica, impostata su contenuti che privilegiano l'efficienza amministrativa e la certezza erga omnes della norma, in ordine soprattutto al controllo quantitativo del suolo e agli aspetti funzionali o igienico-sanitari, anche qui al di fuori di ogni intenzionalità formale.
Analisi delle qualità ambientali e dell'arredo, scatti dimensionali, esaltazione delle immagini figurative, nuove ipotesi tipologiche e morfologiche, ricerca sui codici linguistici e sulla pratica della fruizione: sono solo alcune delle direzioni aperte alla ricerca di nuovi sistemi di valori, che si sviluppano riverberando le une sulle altre tangenze e opposizioni.
I primi segni si colgono all'interno stesso del Movimento moderno, con la fondazione nel corso del CIAM di Dubrovnik (1956) del gruppo Team X, i cui membri (J. B. Bakema, G. Candilis, A. e P. Smithson, A. Van Eyck e G. De Carlo fra i più noti) saranno poi impegnati a rinnovare linguaggio e temi della ricerca architettonica e urbanistica.
Pur senza costituire un gruppo monolitico di tendenza, gli architetti del Team X sono portavoce, attraverso i loro scritti e i loro progetti, di concetti come quelli di recupero del ‛luogo', di identità, di cluster (grappolo di edifici, determinante e metafora della densità urbana e sociale), del rifiuto delle funzioni semplici, della stratificazione dei significati, che reintegrano nella pratica una dimensione antropologica precedentemente censurata. Gli Smithson rigettano le frustrazioni del master plan per concentrarsi sugli elementi agglutinanti della città: l'urban design, che fa propria l'estemporaneità e l'immediatezza dei fini, emerge come l'abito di progettazione che può essere caricato di significati e di simboli e delle possibilità stesse concesse dall'ambiguo e dal contraddittorio. Bakema e Van den Broek teorizzano l'unità abitativa mista, in cui si utilizzano combinazioni edilizie più tradizionali accanto a tipi speciali, e in cui ‟a ciascuna tipologia è assegnato uno specifico ruolo nella definizione dei differenti ambienti che ospitano le funzioni della vita associata" (v. Benevolo e altri, 1977, p. 112). Su questa linea della complessificazione del tessuto edilizio - si pongono numerosi indirizzi di ricerca nei vari paesi.
Negli Stati Uniti l'aderenza del progetto al luogo, alla sua formazione (place making) e all'identità delle culture locali è espressa da alcuni gruppi attivi nelle Università di California e di Yale, non indifferenti alle definizioni di S. Langer e agli studi di C. Norberg-Schulz. R. Venturi inverte il tradizionale rapporto forma-funzione, affermando la reattività dell'architettura innanzitutto agli stimoli che le provengono dal contesto urbano (ivi compresi i segni della pubblicità e della cultura di massa) piuttosto che dalle funzioni interne che istituzionalmente è chiamata a controllare. Partendo dalla sua formazione matematica, e passando attraverso una fase di parametrazione rigorosa degli elementi del progetto su varie scale, C. Alexander (v., 1965) insiste sulla complessità strutturale e multisistemica degli organismi urbani.
In un metastorico recupero di morfemi compositivi classici si muove l'opera di L. J. Kahn, del quale sono conosciuti, intorno al 1960, gli studi per il centro di Filadelfia, un ‛cuore' difeso da una selva fitta di torri, che riportano a un'immagine megalitica e - coerentemente con il senso di recupero sociale e umano attribuito al downtown - simbolicamente e funzionalmente agiscono come il limite difensivo di una multiforme agora centrale (funzionano infatti come autosilos che arrestano i flussi di penetrazione).
La memoria storica è però soltanto uno dei dati messi esplicitamente in circolazione dal progetto di Kahn per Filadelfia. L'altro è la scala cui vengono portati gli elementi monumentali, che indica in un'estrapolazione dimensionale le prospettive di un controllo dell'immagine urbana e del superamento dell'ordine bidimensionale dello zoning. Si tratta di una strada che convoglia alcuni degli interessi più pressanti del dibattito urbanistico.
In uno studio sperimentale condotto a Boston con gli studenti del Massachusetts Institute of Technology, l'architetto giapponese K. Tange elaborava nel 1959 (non senza riprendere alcune anticipazioni espresse nel suo paese) il modello accuratamente studiato di una grande struttura urbana impostata su un traliccio infrastrutturale a sezione triangolare, internamente cava per accogliere servizi urbani e fasci di comunicazioni, come supporto di gradinature di piani diversi destinati ad abitazioni e a uffici. Una nuova versione dei presupposti del progetto di Boston veniva proposta - applicandola su scala gigantesca - per la città di Tokio, a costituire un sistema urbano innestato al disopra della grande baia di fronte alla città. Questo progetto resta certamente come la più sensazionale performance della modellistica morfologica degli anni sessanta. In questa versione si arricchivano le gerarchie viarie e le espressioni tipologiche (edifici-ponte su torri per il terziario, sezioni a tenda per la residenza).
Nasceva, con queste due opere, il concetto di ‛megastruttura' (che aveva senz'altro un antenato nella macroforma del progetto lecorbusieriano per Algeri), che conoscerà per alcuni anni una travolgente quanto passeggera esplosione - ben presto in chiave francamente utopica - ma le cui prime motivazioni stavano nella volontà di travalicare i limiti dello zoning e recuperare alla scala sua propria l'immagine urbana, mediante strutture esaltate dimensionalmente e funzionalmente complesse, vere e proprie invenzioni tridimensionali di ‛suolo artificiale', pertanto indefinitamente ampliabili, e in ogni caso dotate di larghi margini di resistenza funzionale-formale di fronte al mutarsi incessante della metropoli. Si possono ricordare, fra le altre espressioni di questo indirizzo, le visionarie immaginazioni del gruppo giapponese Metabolism, ben presto inequivocabilmente proiettate oltre la soglia di una sia pur tenue credibilità metodologica; le proposte di Y. Friedman, che si risolvono nell'invenzione di un reticolo spaziale sollevato al disopra del tessuto urbanizzato da strutture puntiformi e da colonne montanti, a configurare un'aerea duplicazione della città esistente; o le fantasie, a metà fra ironia e provocazione, del gruppo inglese Archigram, che integra nelle sue utopie urbane elementi della civiltà tecnologica più avanzata - calcolatori, frammenti di macchine - e richiami della imagerie fantascientifica, per giocare poi sui temi della mobilità e dell'effimero.
Sebbene in una scala e in una veste più dimessa, un'idea simile a quella della megastruttura si presentava nella teorizzazione del ‛contenitore': un edificio sostanzialmente indifferente alle destinazioni d'uso (cioè polifunzionale, aperto a combinazioni di funzioni da precisare), quanto invece esplicito nella sua carica figurativa, tale da riscattare, con la sua presenza polarizzante, la dissipazione morfologica della periferia moderna e da misurarsi con infrastrutture tecnologiche, prima di tutte quelle del traffico (anche il rapporto Buchanan sul traffico urbano, redatto in Inghilterra nel 1963, chiede un'‛architettura del traffico', cioè una progettazione spazialmente contestuale dei canali viabili e degli edifici).
Un altro filone di studi parte dall'osservazione della città contemporanea così com'è, nei suoi aspetti ambientali e formali, sottoponendola a un preciso vaglio analitico, per derivarne leggi interpretative e pratiche di intervento. Riallacciandosi, dalle colonne della rivista ‟Architectural review , alla tradizione del landscape inglese, G. Cullen ne orienta i presupposti in funzione critica degli sviluppi più amorfi e dequalificati degli abitati diffusi, anche pianificati (sobborghi a bassa densità, periferie delle prime new towns). Al townscape, secondo Cullen, spetta la costruzione dell'ambiente urbano, sulla base della visione dinamica seriale (che evidenzia e drammatizza i rapporti spaziali) e dell'identificazione del luogo mediante una penetrante articolazione dello spazio e della tessitura dei materiali. La stratificazione e l'enucleazione di questi elementi nel paesaggio urbano e la loro ragionata densità di fruizione e d'informazione hanno il compito di creare anche negli insiemi minori quella sostanza ambientale che ne rende possibile l'appropriazione.
Lasciando da parte, o in sottordine, la consueta analisi funzionale, K. Lynch ha cercato di approfondire lo studio del paesaggio urbano - soprattutto alla macroscala - rifacendosi alle teorie della psicologia della forma e in parte alla linguistica, e al tempo stesso dando rilievo alla percezione valorizzante degli abitanti, alla loro ‛memoria collettiva'. Secondo Lynch, gli elementi emergemi di figurabilità (imageability) della metropoli - i percorsi, i margini, i nodi, le aree, i riferimenti - possono divenire per la loro singolarità nel contesto, per la continuità, per la chiarezza di connessioni, la struttura di decodificazione e di apprezzamento dell'ambiente.
Le modalità del ‛consumo' della forma urbana da parte dell'utente sono viste qui sotto la specie della fruizione dinamica, tipica del movimento meccanico, contrapponendosi in tal modo alle forme di appercezione tipiche del ‛localismo' di Cullen e della sua townscape philosophy. I limiti di queste indagini, che pure arricchiscono la lettura dell'organizzazione formale e spaziale della città moderna, consistono nella loro difficoltà - e illegittimità teorica - a tradursi in un metodo generale progettuale-previsionale.
Su un fronte che più direttamente si rifà agli strumenti della linguistica e dello strutturalismo (Saussure e altri), R. Barthes ha tentato un'analisi dei ‛segni' che costituiscono il ‛discorso' della città, giungendo peraltro a escludere la possibilità di una corrispondenza ricorrente e comunque immobile fra significanti e significati, e rinviando a un sistema di volta in volta ridefinibile di correlazioni, che implica un'operazione periodicamente necessaria di decodificazione. F. Choay, analizzando il quadro urbano della città contemporanea sotto la specie di sistema semiologico, ne rileva la ‛riduzione semantica', la sua natura ‛iposignificante' (il sistema costruito non riflette la totalità del comportamento culturale, proprio perché all'origine l'unico criterio determinante è stato quello dell'efficienza economica). Ma, cercando di delineare una pratica dello spazio, la Choay non va oltre l'idea di una costruzione spaziale che cerchi di rendere complanari e sovrapposti i due sistemi di temporalità nei quali è imbrigliato l'abitante della società industriale: una cronia rapida, espressa dalla mutazione continua delle nostre istituzioni sempre più sostenute dall'informatica, e una cronia lenta, corrispondente a modi di comportamento ‛neoarcaici', più stabili, ancora legati allo spazio simbolico.
Negli anni settanta, dalle critiche che si muovevano dapprima entro l'ipotesi del ‛razionalismo tradito' si sviluppano poi capi d'accusa che individuano nello statuto stesso del Movimento moderno l'espressione di un ragionamento tecnocratico e totalizzante, che deriva il suo ordine dall'inflessibilità logica della razionalità industriale, e il suo mandato ideologico dalla presunzione di trasformare il dato sociale attraverso l'intervento spaziale. Né mancano denunce espresse ai margini del campo degli addetti ai lavori (pensiamo ai saggi della Jacobs e del Mitscherlich) che godono di amplificate risonanze.
Si può assistere così, nel decennio 1970-1980, anche a seguito di influenze esercitate da posizioni maturate nel dibattito del nostro paese (v. sotto), a una serie di studi e proposte che, delineando un percorso a ritroso, sconfessano esplicitamente il dettato funzionalista e reintroducono nella composizione urbana elementi più tradizionali tali da non ingenerare fratture con la città antica - come l'isolato a corte, la strada definita da cortine edilizie, la reintegrazione e commistione nel tessuto di tutte le attività e funzioni della vita urbana, l'ampliamento dei registri decorativi dell'architettura. Le motivazioni oscillano fra quelle più direttamente riferite all'architetto (recupero della creatività individuale del progettista) e quelle psico-sociologiche riferite al singolo utente (bisogno di autoidentificazione attraverso la decodificazione dell'ambiente) o a gruppi sociali (recupero dell'identità culturale negata dall'internazionalismo architettonico), fino a quelle interessanti la salvaguardia delle ‛differenze' dei luoghi.
Una serie di studi analitici hanno cercato di svelare la logica della città antica, di quella ottocentesca e di quella di statuto modernista, registrando gli effetti urbani e i comportamenti sociali indotti dalle scelte tecniche e metodologiche. Le proposte spaziano su piani diversi: dal riuso, in senso lato, di tutte le espressioni della città storica - da organizzare per frammenti che si costituiscono in relazioni dinamiche con l'insieme (O. Ungers) oppure da comporre in un vero e proprio collage di ‟pezzi urbani trovati" (C. Rowe) - fino alla ricerca di un omogeneo disegno di insieme, di una coralità di insule urbane che calibra le differenze valorizzandole ambientalmente e riassorbendole nella continuità di un tessuto capace di ‟rispecchiare la disciplina culturale" dell'architettura (L. Krier).
Interessi progettuali di questo tipo implicano il rifiuto di una relazione programmatica fra urbanistica e politica, con l'eccezione offerta dalla scuola di La Cambre (gruppo delle ‟Archives d'Architecture Moderne"), in cui una ricerca di affiliazione postmoderna è messa al servizio delle rivendicazioni dei ceti popolari urbani, dei comitati di quartiere, dei gruppi emarginati. Ciò può riportarci a quelle esperienze che sono maturate, generalmente dopo il '68, come alternative al modello decisionale tipico del centralismo urbanistico, per porre in primo piano la partecipazione diretta dell'utenza alle scelte di piano.
L'origine storica della partecipazione si può ricondurre ai primi episodi di ‛patrocinio urbanistico' (advocacy planning), sviluppatisi negli Stati Uniti intorno agli anni sessanta nell'acutizzarsi delle lotte urbane delle minoranze etniche delle grandi città, quando molti architetti di vocazione liberal si fanno interpreti per la prima volta delle istanze di alcune comunità locali contro le iniziative centrali che tendono a disgregarle e a disperderle (generalmente attraverso operazioni di ‛rinnovo urbano'). Con tutti gli insuccessi che derivano all'advocacy planning non solo dalla mancanza di risultati tangibili, ma dallo stesso ricorso alla ‛delega' che limita la partecipazione effettiva dell'utenza, il movimento ha il merito di rimettere in discussione il ruolo dell'urbanistica nei confronti della committenza reale.
Negli anni settanta questo tema è ripreso in più occasioni, in diversi paesi, e dà luogo in alcuni casi a forme di lavoro collettivo, spesso tuttavia legato a circostanze eccezionali, senza tradursi in procedimenti continuativi (occupazioni, squatting, ecc.: quartiere di Nuova Habana a Santiago del Cile nel 1970, gruppi SAL all'indomani della ‛rivoluzione' del 25 aprile 1974 in Portogallo; gruppi sperimentali: Planning with the people, costituitosi a New York nel 1968, e People's workshop, formatosi all'Università di Princeton nel 1970). Altre difficoltà intervengono nelle forme di partecipazione ‛istituzionale' derivanti dall'assunzione, anche nell'assetto italiano, di provvedimenti di ‛decentramento urbanistico' (consigli di circoscrizione con competenze consultive per gli strumenti urbanistici generali e deliberative per l'uso di beni e servizi locali).
b) Il caso italiano
Nel clima contraddittorio dell'immediato dopoguerra (nel quale si combinavano le aperture e le aspirazioni a un ordine sociale diverso e la permanenza di interessi e istituzioni dell'epoca fascista) doveva far difetto agli architetti italiani la capacità di proporre e sostenere una chiara linea d'azione. Non che mancassero visioni generosamente impegnate, capaci anche di tradursi in movimenti d'opinione, sia pure forzosamente elitari, ai margini del dibattito politico nazionale (come il movimento di Comunità, promosso da Adriano Olivetti e fondato sul principio di una società armoniosamente equilibrata fra partecipazione dal basso e illuministica gestione dall'alto, fra razionalità industriale e salvaguardia delle culture materiali locali, risolta in una pianificazione continua). Il dinamismo insorgente, però, dei fenomeni umani e sociali, territorialmente squilibrati, che stavano interessando il nostro paese era ben altra realtà e travolgeva nei tempi e nei modi le troppo esili trame delle riflessioni più meditate e pazienti.
I primi piani regolatori, sommariamente studiati (spesso su vecchi schemi dell'epoca fascista), parevano di nient'altro preoccupati che della soluzione del problema della casa, mediante un'espansione dell'offerta abitativa espressa nell'ottica piuttosto ingenua di una neutralizzazione della rendita fondiaria attraverso un corretto impiego della zonizzazione. E poco importa che la politica ‛del quartiere' - promossa entro e fuori i piani da un imponente programma di costruzione di abitazioni economiche e popolari di iniziativa pubblica - offrisse agli architetti progressisti le motivazioni per una ideologia comunitaria, vagamente anticapitalistica, e per le seduzioni sociologiche del ‛vicinato'; tutto ciò nelle opere realizzate assumeva a volte i connotati tipici dell'empirismo delle scuole scandinava e anglosassone, e a volte sfociava in un compiaciuto ‛neorealismo populista', cui non erano forse estranee le tesi gramsciane per una cultura nazional-popolare, ma che non andava al di là di una formalizzazione stilistica dell'immagine della miseria e della ruralità strapaesana. Questi anni (compresi tra il 1947 e il 1955) dovevano invece rivelarsi come una fase di intensa accumulazione capitalistica, realizzata attraverso una rendita razionalizzata e potenziata dalla pur sommaria impostazione dei piani e da una pur rozza gestione, sotto la spinta di una politica economica tutta centrata sulla ‛ripresa' e carica di effetti urbanistici di rilievo, per un verso messi in atto da forme d'intervento verticale (dei poteri settoriali dello Stato) e subiti dalla pianificazione ordinaria (o, in mancanza di questa, dai territori investiti), e per un altro verso derivanti dal saccheggio di tutte le economie esterne esistenti, con un'incentivazione, in ogni caso, dei fenomeni di polarizzazione spaziale. La realizzazione del nuovo sistema autostradale della penisola, in mancanza di un programma urbanistico nazionale e indipendentemente da dispositivi di politica territoriale assunti in altri ambiti, può essere presa - con gli effetti che ne derivano in un contesto geografico quale quello tipico dell'Italia (accentuazione degli squilibri e conseguente accelerazione dell'esodo dai comprensori agricoli e montani, urbanizzazione aggressiva delle fasce costiere) - come un'indicazione probante degli orientamenti prevalenti in questa fase.
Le distorsioni già accumulate alla fine degli anni cinquanta, e il mancato conseguimento degli obiettivi fatti propri dalle forze più genuinamente impegnate sul fronte dell'urbanistica (messo in luce dal disastroso esito della pianificazione e dalla perdita di qualità del prodotto urbano anche nella grande maggioranza dei centri più importanti) dovevano portare a reclamare la concessione dalla controparte politica di più ampi poteri istituzionali, con lo scopo ultimo di una riforma globale della legislazione urbanistica, rivolta all'eliminazione della rendita assoluta (regime pubblico dei suoli), alla riforma della pubblica amministrazione e alla correlazione fra programmazione economica e pianificazione territoriale.
Il fallimento delle ipotesi di riforma - per le quali si erano battuti alcuni degli urbanisti più preparati, come L. Piccinato - e il superamento della fase organicistica del dopoguerra nel profilarsi di condizioni di sviluppo tipiche dell'economia del benessere portarono a riconsiderare le linee seguite fino a quel momento e provocarono una spaccatura del fronte unico dell'establishment professionale degli architetti e degli urbanisti italiani, con un'articolazione di posizioni diverse, talora anche sfumate o intersecate, ma in cui potevano riconoscersi sostanzialmente due opposti campi di interessi.
Da una parte cioè, mentre si continuava a guardare a una incisiva corresponsabilizzazione politica, al superamento delle arretratezze e carenze istituzionali, al consolidamento dei poteri di controllo del suolo (per esempio attraverso l'urbanizzazione pubblica almeno parziale e la fissazione di standard urbanistici) e alla moralizzazione della gestione amministrativa, parallelamente - superando l'empirismo e il soggettivismo delle prime esperienze - si cercava di mettere a punto più scientifici procedimenti di lettura e di quantificazione delle grandezze in gioco, l'integrazione metodologica fra intuizione e verifica, l'ottimizzazione dei modelli localizzativi, l'analisi dei rapporti costi/benefici.
Dall'altra parte, sia pure non negando obbligatoriamente il livello di una definizione normativa generale degli assetti territoriali, se ne delimitava rigorosamente il campo rispetto a quello dell'intervento urbanistico attuativo, riconoscendo a quest'ultimo un'autonomia disciplinare fondata sulla considerazione dei fatti architettonici come fatti urbani e sul recupero e sulla legittimazione del disegno come determinante, con le sue regole, dell'organizzazione fisica del tessuto costruito e degli spazi abitabili della città.
Esauritisi, come dicevamo, senza successo i tentativi per una nuova codificazione legislativa generale della disciplina (Codice dell'urbanistica, dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, 1960; proposta Zaccagnini, 1961; progetto Sullo, 1962; progetto Pieraccini, 1964), parziali risultati si coglievano con l'approvazione e l'applicazione della legge n. 167 del 1962 per l'edilizia economica e popolare, che dava ai Comuni la possibilità di acquisire i terreni indicati nei piani di zona a questo scopo redatti, restituendo alle amministrazioni locali un minimo di presenza attiva nell'attuazione degli strumenti urbanistici. Successivamente la legge n. 765 del 6 agosto 1967 (detta ‛legge ponte' perché intesa come momento di una presunta evoluzione fra la legge del 1942 e una riforma generale) introduceva fra l'altro il contributo dei privati per l'urbanizzazione delle infrastrutture e dei servizi, e normava l'applicazione di standard urbanistici (rapporti quantitativi fra gli abitanti e gli spazi destinati alle attrezzature collettive, al verde pubblico e ai parcheggi). La legge sulla casa n. 865 del 22 ottobre 1971, oltre ad allargare i contenuti della legge 167 (fino a una quota del 60% del fabbisogno di edilizia abitativa registrato dal piano regolatore) e a consentire la formazione dei piani di zona anche su aree la cui trasformazione fosse richiesta da ragioni igienico-sanitarie (il che darà luogo ad alcuni tentativi di applicazione della legge anche ai centri storici), introduce la possibilità di piani di esproprio nelle zone in espansione e di piani per aree da destinare a insediamenti produttivi (a carattere industriale, artigianale, commerciale o turistico). Della legge n. 10 del 28 gennaio 1977 (norme per l'edificabilità dei suoli) i dati caratterizzanti e innovatori sono il principio dell'onerosità della ‛concessione' a edificare (che sostituisce la licenza edilizia e viene concessa solo per terreni dichiarati edificabili dal piano urbanistico generale e che rientrano nel ‛programma pluriennale di attuazione', o PPA) e il controllo generalizzato e attivo dell'ente locale su tutte le operazioni di trasformazione territoriale (ottenuto appunto attraverso i PPA, da realizzarsi in un arco fra tre e cinque anni, all'interno delle scelte del piano urbanistico generale che resta valido a tempo indeterminato).
Completa il quadro delle riforme urbanistiche dell'ultimo ventennio la legge n. 457 dell'8 ottobre 1978, che da una parte dà disposizioni per gli interventi pubblici nell'edilizia residenziale (stanziamenti e criteri per l'edilizia sovvenzionata e per quella convenzionata-agevolata), e dall'altra fissa una serie di norme per il recupero del patrimonio edilizio e urbanistico esistente (attraverso i ‛piani di recupero' e un'accettabile classificazione dei tipi di intervento sui manufatti costruiti).
Con queste ultime innovazioni legislative le modalità tradizionali del piano - la zonizzazione e la normazione edilizia, temporalmente imprecisate - sono messe in discussione in favore di una più capillare precisazione degli interventi nello spazio e nel tempo per ogni manufatto viene indicata la sua destinazione d'uso insieme al tipo e al modo dell'intervento, distribuendo i processi di trasformazione e di crescita secondo scadenze scaglionate nel tempo (programmi pluriennali di attuazione).
Al di là dell'attuale impalcatura legislativa (che in certi casi continua a produrre schemi di controllo e astratte trafile procedurali da cui sono sempre più assenti obiettivi concreti di qualità urbana) si afferma la necessità di dominare concretamente i processi di trasformazione del suolo - mediante una stringente prassi di pianificazione - per ordinarli verso obiettivi di socialità, economicità e ricchezza di ambiente.
G. Astengo in un recente intervento ha riepilogato le operazioni necessarie alla corretta formazione e gestione del piano: una chiara definizione degli obiettivi e degli strumenti, per cercare d'inquadrare, al massimo livello di coerenza possibile, l'ipotesi sociale e politica entro la quale si colloca il piano; una precisa delimitazione delle analisi urbanistiche di base, necessarie e sufficienti (individuate essenzialmente in: uso del suolo del territorio urbano ed extraurbano e relativi vincoli, dinamica demografica, domanda e offerta di posti di lavoro e pendolarità, stato delle infrastrutture e dei servizi sociali, consistenza del parcoalloggi e fabbisogno abitativo, stato degli impianti produttivi, inventano del patrimonio storico-artistico e ambientale); limiti temporali di scadenza dei piani per evitare previsioni sovradimensionate; prevalenza delle iniziative di riassetto territoriale e recupero insediativo, e contenimento invece dell'espansione non necessaria, con indicazione - per il patrimonio edilizio esistente - delle destinazioni d'uso e dei tipi e modi d'intervento; attuazione del piano attraverso i programmi pluriennali; contatto continuo, sia durante l'iter di formazione del piano che nella fase di gestione, con le forze politiche e l'utenza.
Lo stesso Astengo indicava anche quali, a suo giudizio, fossero le condizioni ancora mancanti per raggiungere una piena operatività dei piani: l'enunciazione, a livello nazionale, dei principi generali atti a inquadrare l'assetto complessivo della pianificazione territoriale e urbanistica, esprimendo l'integrazione fra programmazione dello sviluppo economico e pianificazione fisica degli interventi; una legislazione urbanistica organica, a livello regionale, tale da riordinare e coordinare la materia esistente, superando i residui della legge n. 1150 del 1942, ancora vigente; l'avvio della pianificazione territoriale a livello regionale, con la funzione di indirizzare la politica urbanistica locale; la messa in opera di un'omogenea cartografia di base, di un sistema informativo regionale, di strutture tecniche di pianificazione. L'attuazione di questi strumenti e di queste procedure consentirebbe di consolidare una prassi di lettura e di restituzione dello stato di fatto (inclusivo di aspetti dinamici ed evolutivi), capace di garantire una coerenza fra questa restituzione e il piano, azzerando i ‛salti logici' fra i due momenti e lasciando alle scelte programmatiche la loro portata innovativa e inventiva.
Nell'ambito degli indirizzi recenti della pratica urbanistica in Italia, oggetto d'impegno e di riflessione - in un periodo agitato da forti conflitti sociali - sono state alcune problematiche che hanno ampliato, anche con qualche successo concreto, la sfera di consapevolezza disciplinare e dell'azione pubblica. Particolare rilievo deve essere dato ai temi della conservazione e del recupero del patrimonio storico e, più in generale, di un corretto uso delle risorse (non solo fisiche, ma anche storiche, culturali e sociali), che richiedono un'azione delle pubbliche amministrazioni e quindi leggi, nuovi strumenti di ricerca e di pianificazione, e investimenti adeguati. Pur tra difficoltà di ogni genere e contraddizioni strutturali profonde, sia con i poteri costituiti che con la ‛base', altrettanto rilievo deve essere dato ai tentativi di pianificazione partecipata (due occasioni professionali - il piano per il centro storico di Rimini e il progetto di un quartiere operaio a Terni - sono state impostate dall'architetto G. De Carlo sul tema della consultazione-coinvolgimento dell'utenza).
Per comprendere la svolta concettuale prodottasi in Italia all'inizio degli anni sessanta, occorre far riferimento allo studio di O. Samonà (v., 1959) che, affrontando con insolita partecipazione e spessore critico il problema della continuità della città, come struttura e come organismo, nella concretezza delle sue manifestazioni storiche, sollecitava nuovi indirizzi di ricerca. Quanto il clima fosse maturo anche sul piano progettuale veniva parallelamente dimostrandosi con il progetto di L. Quaroni presentato nel 1959 al concorso per l'insediamento CEP alle Barene di S. Giuliano presso Mestre, un progetto che rompeva con i consueti schemi di montaggio - più preoccupati di un'ipotetica coerenza interna che del contesto - per imprimere sul paesaggio un segno figurativo capace di integrare e qualificare.
Da queste intuizioni, però, Quaroni doveva maturare la convinzione di una più organica predisposizione di rapporti fra il piano generale della città e le occasioni della specificazione architettonica. Affermata la necessità che negli strumenti urbanistici il momento dell'assunzione dei problemi formali e spaziali non dovesse essere subordinato a quello dell'imposizione dell'apparato normativo, o a esso teoricamente successivo, a un disegno-forma come improbabile indicazione progettuale fissata una volta per tutte nel piano d'insieme si poteva contrapporre una più elastica e aperta potenzialità fondata sul disegno-idea (v. Quaroni, 1967), ovvero su un disegno-matrice: nel quale le ipotesi di crescita (o di trasformazione) dell'organismo urbano, in tutta la ricchezza delle loro relazioni, potessero risolversi in un sistema di ordine, d'intelligibilità e congruenza interna dell'intera struttura urbana e dei materiali da cui essa è formata. Si sarebbe dovuta spezzare in tal modo quella corrispondenza viziosa fra scale della progettazione e tipi di atti programmatori, che riduceva concettualmente l'approccio morfologico al solo momento attuativo, quand'esso di norma non era più relazionabile alla complessità dell'organismo, o addirittura era reso improbabile, anche per una parte finita della città, dalle specificazioni di tipo quantitativo espresse a monte.
Una tale impostazione nasceva dalle prospettive di una realtà ancora in forte spinta evolutiva e dal presupposto di plasmare ancora per grandi parametri gli organismi urbani in crescita; ma affermava la disponibilità a qualificare secondo nuovi ruoli, ridisegnandolo, anche tutto il materiale obsoleto della città, i vuoti, le sacche morte, i manufatti lasciati come relitti nelle maglie del tessuto dalle strozzature dello sviluppo urbano.
La critica di una lettura puramente funzionalistica, che percorreva il saggio di Samonà, mentre sollecitava una più problematica conoscenza delle strutture della città e una più ricca interpretazione del ruolo dell'architettura, spostava la ricerca sul tentativo di costituire una disciplina scientifica dei fatti urbani: sul tentativo, cioè, di studiare i fenomeni di ‛invarianza formale', le costanti dell'architettura della città in quanto struttura materiale dotata di sue proprie leggi formative.
Questo nuovo approccio sistematico - indicato da taluni come ‛critica tipologica' - si costituiva come superamento, attraverso il paradigma conoscitivo dell'‛invarianza formale', sia delle pur decisive acquisizioni del tipologismo a posteriori di estrazione positivista, sia del tipologismo della scuola idealista muratoriana (v. Muratori, 1960), con il risolversi della conoscenza non in un'automatica trasposizione nella ricerca compositiva contemporanea, quanto piuttosto in un'istanza metodologica, in una strumentazione operativa, in una verifica progettuale.
Il campo operativo d'applicazione della critica tipologica, con alcune oscillazioni al suo interno, sembra ruotare dapprima sul controllo della forma urbana attraverso i fatti monumentali, dotati di una loro diacronica permanenza ma anche di disponibilità funzionale, lasciando l'abitazione ai processi di produzione dei beni di consumo e a una ciclica obsolescenza. Le attrezzature sociali e civili sono intese allora come l'unico margine ancora controllabile dall'architettura, in quanto determinante della struttura urbana. (È una posizione diametralmente opposta a quella di Benevolo, per il quale la preminenza della funzione residenziale deve subordinare a sé le altre parti della città concepite, secondo la formulazione di Le Corbusier, come ‟prolongements du logis", e cioè, si potrebbe dire, come arredo complesso delle unità abitative. In questa chiave il lavoro di Benevolo si pone come una continuazione e un arricchimento della ricerca incompiuta del Movimento moderno puntando - non diversamente in realtà, nei fini, dall'opera di Quaroni, ma per vie diversissime - all'unità sostanziale della progettazione architettonica fra la piccola e la grande scala, cioè fra architettura e urbanistica, e cercando di saldare lo spazio vuoto esistente fra ‛modelli di progettazione', messi in luce dall'esperienza architettonica, e ‛modelli di struttura', dedotti dalla ricerca urbanistica).
Dal punto di vista del rapporto con gli strumenti tradizionali di controllo della città, tutte le tendenze che si riconoscevano nell'ambito della critica tipologica, quando non consideravano con ostilità la pianificazione istituzionale, negavano la validità di articolazioni gerarchizzate ‛a cascata'. Il piano generale, anziché riverberare sul momento attuativo una congerie di parametri quantitativi, dovrebbe poter arricchire il progetto - cui del resto compete una propria autonomia disciplinare - di un input di significati ulteriori.
Appoggiandosi a una propria personale valorizzazione delle esperienze storiche compiute nell'ambito della città moderna, dal Settecento in poi, C. Aymonino teorizza la necessità-inevitabilità di un intervento ‛per parti' dove la caratterizzazione della parte è affidata alla congruenza del rapporto fra morfologia e tipologia, al di fuori peraltro di automatismi, quali quelli riferibili alla città speculativa ottocentesca e al Movimento moderno. In altre parole, il superamento della logica della città borghese industriale - nata come sommatoria ripetitiva di singoli elementi e nell'indipendenza fra destinazione d'uso del singolo edificio e porzione di suolo su cui esso insiste - potrà avvenire attraverso la progettazione o la ‛trasformazione modificativa' per ‛parti' compiute che, traendo la propria determinazione da un nuovo rapporto fra tipo e forma e dal luogo urbano nel quale si inscrivono, restituiscono alla città quella qualità che le è venuta a mancare. Questa concettualizzazione, se punta a dare alla città che deve nascere la stessa dignità della città antica, implica conseguentemente la legittimità di interventi significativi - ancora ‛per parti' - sugli stessi nuclei antichi.
Negli ultimi anni queste ricerche sembrano per molti versi isterilirsi, travalicate da un ritorno di fiamma degli architetti per una raffinatissima preziosità grafica, per esoterici tours de force da virtuosi della matita, alla ricerca dei frammenti di un'‛architettura per l'architettura' destinati alle occasioni dell'effimero o alle pagine satinate delle riviste specializzate.
Agli studi tipologici bisognerà però tornare a riferirsi per la loro importanza nel chiarimento metodologico a proposito dell'intervento nei centri storici. O. Caniggia, espandendo la linea d'indagine aperta da Muratori sul tessuto edilizio antico - ossia in gran parte sulle ‟strutture derivanti dalla coscienza spontanea, frutto cioè di codificazione collettiva non intenzionale" - e approfondendone i contenuti, ne sottolinea con forza l'apertura a momenti operativi: ‟Il metodo che seguiamo è strettamente ed intrinsecamente progettuale, in quanto la comprensione dell'ambiente per ‛tipi' presuppone la costante riprogettazione delle strutture per modelli connessi a concetti formativi, atti a consentire, per confronto, il riconoscimento delle strutture esistenti; e per modelli di processi di sviluppo [...] atti a riscontrare la logica del divenire, la fondamentale mancanza di staticità astorica del reale ambientale, riscoprendo per ciascuna fase di formazione il sistema di nozioni correlate, il patrimonio culturale condizionante la produzione degli oggetti edilizi" (v. Caniggia, 1976, p. 10). La sua concettualizzazione è stata estremamente importante per il ‛progetto della conservazione'.
P. L. Cervellati (autore del restauro di alcuni quartieri di Bologna) sottolinea come il criterio tipologico sia stato il parametro che ha consentito di passare da concetti generali e soggettivi - e inevitabilmente selettivi - come ‛l'importanza storica' o ‛il valore artistico' a considerazioni che invece recuperano la struttura nella sua integrità e individuano al tempo stesso l'intervento appropriato possibile nelle diverse parti - per restauro integrale o ripristino tipologico -, in quanto ‟le norme mutuate dall'inventano dei modelli tipologici diventano precise e unitarie e possono elencare esattamente le operazioni ammissibili" (cfr. P. L. Cervellati, in Ciardini e Falini, 1978, p. 122). Starà ai piani particolareggiati verificare le destinazioni d'uso e controllarle nei loro aspetti quantitativi (in particolare la relazione residenza/servizi), valorizzando il rapporto che intercorre fra le strutture residenziali e i manufatti particolari e atipici emergenti (come chiese, conventi, palazzi, ecc.). Si tratta di un metodo che per Cervellati può coinvolgere tutto l'ambiente costruito, interrompendo invece l'espansione periferica, perché ‟il progetto della conservazione [...] diventa il progetto della città futura" (ibid., p. 129). Attraverso il principio della conservazione si possono affrontare le problematiche urbane, anzi definire il ‛modello' stesso della città. Il ‛recupero' allora non è soltanto un'istanza culturale, non coincide soltanto con esigenze economiche o ecologiche o di riequilibrio sociale, ma è una proposta programmatica nel più esteso senso urbanistico.
c) I problemi dell'urbanistica
L'urbanistica è oggi in moltissimi paesi istituzionalmente consolidata. In Italia, a parte alcune zone di forte sottosviluppo culturale, gran parte del territorio è almeno ufficialmente coperta da piani di diversa natura e a varie scale. Eppure, al tempo stesso, questa istituzione versa in una crisi profonda, o almeno esprime assai più problemi che soluzioni.
Su questa crisi incide, per una parte, la crisi più generale dei valori su cui si è fondata la civiltà moderna occidentale, crisi che pervade delle sue incertezze l'intero sistema politico, sociale e culturale della vita civile. La fiducia nel progresso scientifico come mezzo non solo di benessere ma anche di socializzazione ha mostrato profonde incrinature, per mutarsi poi in apprensione di fronte ai pericoli - nell'ipotesi migliore - di un arido e impersonale atteggiamento tecnocratico, che mortifica cultura e luoghi sociali, reprime pulsioni e bisogni profondi.
Ma per un'altra parte la crisi - che è crisi di identità e di credibilità - trova alimento nei continui fallimenti che emergono dalla ‛produzione di città' e nell'insoddisfazione crescente degli addetti ai lavori e, più raramente, del pubblico (quando, viceversa, in quest'ultimo non prevalgono indifferenza o rassegnazione). L'urbanistica, il governo delle città e del territorio, non è stata sufficiente a liberare le masse umane e il loro habitat fisico dall'ipoteca degli interessi settoriali, dagli automatismi micidiali dei poteri istituzionali, dai comportamenti e dai bisogni indotti dai mass media. Le pratiche disciplinari, per come si svolgono, appaiono in molti casi sempre più svuotate di senso reale; il coordinamento delle politiche settoriali è sempre difficile, e spesso impossibile, anche all'interno di una stessa amministrazione pubblica; il controllo delle scelte private è insufficiente o quasi inesistente. Il ‛residuo' della pianificazione, fallito ogni tentativo di concreta presa sulla realtà, è una trafila burocratica defatigante, spesso di reale impaccio all'efficienza amministrativa. Ma le stesse critiche presentano elementi altalenanti e contrapposti, e mentre, per esempio, da una parte si lamenta la scarsa capacità degli strumenti di controllare efficacemente i fenomeni insediativi, dall'altra il piano è spesso accusato di rigidità e di scarsa reattività alle sollecitazioni dinamiche del ‛sociale' e dell'‛economico'.
Accenneremo in chiusura, riprendendo in parte osservazioni già in precedenza avanzate, ad alcune delle difficoltà di ordine teorico-epistemologico, e poi politico-sociale, incontrate sul suo cammino dalla disciplina. L'oggetto della conoscenza urbanistica va mutando nelle dimensioni e nelle interrelazioni dei fenomeni e non è più controllabile, sullo stesso terreno della ricerca, da un punto di vista univoco. Le discipline socioeconomiche, la geografia, le scienze fisiche e naturali, le tecnologie, entrano tutte a buon diritto nel vivo dei fenomeni territoriali, sezionandovi propri campi specifici e facendo luce con le loro analisi su determinati aspetti di questa realtà. Non vi è dubbio che esse non solo moltiplicano i livelli di conoscenza concreta, ma possono in alcuni casi fornire nuove prospettive di azione, informando sulle conseguenze delle scelte adottate. In altri casi però, come ad esempio negli studi sull'economia spaziale, la specializzazione disciplinare può giungere a tal punto di sofisticazione da costruirsi un proprio campo quasi inaccessibile di sapere-potere scientifico, che diviene estremamente difficile ricondurre all'interno di quell'azione molto complessa, eterogenea e in grandissima parte non quantificabile che è il processo di definizione e coagulazione delle trasformazioni territoriali e urbane, ingenerando a volte episodi di aperta conflittualità.
Scontato il superamento di quella generica interdisciplinarità che sottintendeva la predominanza incontrastata dell'urbanista (al quale in ultima analisi spettava la formazione dei rapporti sociali attraverso la predeterminazione di quelli spaziali) restano in tutta la loro forza le difficoltà di un'omogeneizzazione dei linguaggi e di una definizione dei ruoli, soprattutto nel passaggio dall'ordine descrittivo dei fenomeni a quello prescrittivo; difficoltà che probabilmente non verrebbero sostanzialmente a ridursi neppure se fosse da tutti condiviso il principio - controverso, è da ritenere - che l'interdisciplinarità comporta in qualche modo una certa gerarchia provvisoria fra le discipline, in rapporto agli obiettivi di volta in volta da conseguire, e di volta in volta variabile a seconda del problema sotto osservazione.
Queste difficoltà sussistono anche oggi, quando ‟l'accento si pone ormai più sull'effettiva possibilità di realizzare e gestire determinati interventi, sulla loro corrispondenza ai fenomeni in gioco ed alle forze politiche e sociali che dovrebbero realizzarli (magari attraverso una tecnologia estremamente semplice e scarna), che sulle grandi macchine concettuali, i grandi apparati tecnologici capaci di fornire ogni possibile ventaglio di soluzioni e in grado di ‛autoregolarsi' al variare delle necessità" (P. Ceccarelli). Il processo della pianificazione urbanistica, infatti, se non è mai riuscito a raggiungere - com'era nei voti più ottimistici di alcuni dei suoi teorizzatori - una completa struttura interdisciplinare, né a livello istituzionale né a livellò operativo, si attua tuttavia per fasi e articolazioni di diverse competenze. Sia pure entro l'accezione più tradizionale del town planning - quella che si concreta in determinati strumenti istituzionali - non è chi non veda il precisarsi di ambiti più specializzati che non possono non chiamare in causa la ridefinizione di campi disciplinari autonomi come approccio, significati, obiettivi, tecniche. Basterà accennare ai piani per le aree agricole, per le aree verdi, per il sistema dei trasporti, ecc. Si pone qui il problema del rapporto fra l'orizzontalità onnicomprensiva del piano e la legittimazione - sia pure in un quadro di continui confronti e interazioni - di una settorialità cui vanno riconosciuti propri tempi e modi di elaborazione e di operatività (negando invece - a livello teorico come a livello delle possibilità pratiche - che il piano possa consistere nella sommatoria di una serie di piani settoriali).
Un secondo gruppo di questioni riguardano appunto il rapporto fra gli strumenti di pianificazione generale e il disegno della città. ‟Dalla composizione di questa vertenza fra planners e designers, per usare i chiari termini anglosassoni che individuano le due tendenze - ha scritto L. Quaroni -, dipende l'avvenire delle nostre città e la possibilità seria di una vera fondazione disciplinare dell'urbanistica che, proprio perché si occupa del fenomeno urbano, come tale coinvolgente complessi problemi di natura economica, di natura sociale, di natura tecnologica e di natura artistica - anche se si tratta di un'arte collettiva, e appunto per questo più interessante -, non consente semplificazioni, e dovrà trovare il modo di unire le due mentalità. Si tratta, praticamente, di riuscire nella costruzione di un nuovo ‛modello' mentale, capace di utilizzare contemporaneamente, del nostro cervello, gli strati piu esterni, piu coscienti, e insieme quelli più interni, meno razionali ma più intuitivi, più capaci cioè di cogliere interrelazioni armoniche anche fra parti e aspetti diversi, disciplinarmente parlando, del fenomeno unitario della città" (v. Quaroni, 1968-1969).
Se, soprattutto nella fase di accelerato sviluppo della città e di fronte al rischio di una massiccia privatizzazione del territorio, si è puntato, nei fatti, sul dato quantitativo - sia genericamente parametrico, applicato a definire il rapporto di edificabilità suolo/volume, sia orientato all'individuazione degli standard per le attrezzature sociali - subordinando a tale dato gli aspetti qualitativi, non vi è d'altra parte chi non concordi sul fatto che la ‛formazione' del territorio non possa avvenire solo attraverso una serie di indici, di normative, come conseguenza di decisioni politiche ed economiche e di strategie sociali. La considerazione della ‛forma' della città - proprio perché in sostanza determinazione definitiva dell'intervento e gran parte del cadre de vie dell'abitante - resta uno dei problemi centrali della pianificazione urbanistica.
Bisognerebbe riflettere qui a quanto di questi insuccessi, nel passaggio dalle previsioni d'insieme ai piani attuativi, sia in realtà dipendente dalle carenze e incompatibilità, certo tutt'altro che sanate, di strumenti carichi di specificità molto diverse, e quanto invece non sia imputabile alla strutturale imprevedibilità - al livello degli strumenti generali - di quella committenza reale, disaggregata, atomizzata, costituzionalmente anarchica, che il mercato capitalistico esprime ai livelli realizzativi.
In effetti, ci pare che l'articolazione degli strumenti della stessa pianificazione ‛tradizionale' abbia conseguito negli anni recenti una notevole ampiezza - anche pletorica, secondo alcuni - e, nel suo insieme, una buona adattabilità ai vari contesti. La stessa permanenza di alcune denominazioni tradizionali e concettualmente anche superate degli strumenti urbanistici non deve far pensare a una loro impermeabile rigidità; in realtà essi sono stati via via ammorbiditi e caratterizzati dalla parallela evoluzione legislativa in senso più elastico, fino a poter recepire fenomeni e indicazioni di nuovo tipo.
Si possono oggi indicare, nell'ampia casistica di esperienze condotte alla luce della stessa piattaforma normativa, una serie di ‛famiglie' di piani di orientamento molto diverso, non solo per gli obiettivi specifici individuati, ma ancor più per le modalità di attuazione e di gestione. Preoccupa invece, nella cronaca degli ultimi anni, l'assistere al sempre più frequente ripetersi di ripiegamenti, di cadute di tensione, di esitazioni. Sempre minore ci pare, dalla parte della pianificazione ordinaria, la volontà di concentrarsi sulla definizione di metodi generali con i quali attuare, in questa fase, il controllo delle trasformazioni urbane, e sulle modalità attraverso le quali rendere complici le opzioni generali di piano e l'attuazione; mentre proliferano, dalla parte dell'architettura, esperienze sempre più particolari e minimali, piuttosto fini a se stesse, nelle quali il gusto della progettazione sembra assolvere ogni responsabilità culturale e politica.
Quando viene a perdersi nell'azzeramento dei vincoli esterni e nella mancanza di una rigorosa logica interna - la convinzione della necessità di salvaguardare almeno un'apertura, un rapporto dialettico, fra urbanistica e architettura, si possono avere forme di reazione all'impoverimento figurativo della città sconfinanti in un gioco gratuito (spesso volutamente tenuto sulla carta e volutamente svincolato dalla concretezza della domanda) che tende invariabilmente a tradursi in pura immagine. Il ricorso all'esperienza del passato si fa allora storicismo ingenuo e astratto (non meno irrispettoso dei contesti di quanto non fosse il funzionalismo ingenuo). La storia, già recuperata per vie divergenti o alternative - prima come fonte inesauribile di atti progettuali dimostrati e cioè come verifica indiretta e discontinua dell'opera presente, poi come struttura di relazioni dell'evento progettuale, infine come inventano di tipi e modelli in parte utilizzabili in nuove connessioni - sembra essere ridotta nell'ipotesi estrema a un disponibile supermercato di memorie.
Su un altro piano di osservazione, però, non più messo a fuoco sulle traversie interne della disciplina, bisogna spostarsi per cogliere appieno alcune delle contraddizioni operative dell'attività urbanistica, almeno per come essa si svolge nel nostro paese (alcuni di questi rilievi, ma non tutti, sono applicabili alla situazione generale delle società avanzate dell'Occidente).
Una serie di ricerche recenti - che hanno avuto come oggetto i fenomeni territoriali nella loro ‛politicità', nel momento in cui il territorio è stato al centro del conflitto sociale - hanno potuto mettere in evidenza come la debolezza crescente dell'azione urbanistica, anziché derivare da una presunta carenza di poteri, nasca invece quando i suoi paradigmi teorici giungono a misurarsi nella realtà con un contesto sociale che si caratterizza per un'acuta contrapposizione di interessi di gruppi e di frange molto differenziate, la cui ‛domanda' non è sempre immediatamente traducibile nell'azione urbanistica. Lo schema interpretativo classico del sistema sociale definito dalla fase dell'industrializzazione non può più essere considerato valido nei paesi avanzati, nelle società postindustriali e consumistiche, nelle quali l'articolazione molto complessa dei ruoli sociali, e delle forme di potere che li rappresentano, non riesce più a esprimersi in decantate opzioni sull'uso del territorio. D'altra parte, sempre minor valore indicativo hanno le ripartizioni delle attività umane fissate un tempo dai ruoli nel lavoro (primario, secondario, terziario) al momento in cui i confini di competenza vanno gradualmente sfumando. Occorrerà allora tenere sotto osservazione i ruoli svolti in ogni fase del processo decisionale dai vari gruppi sociali e dalle istituzioni, le pratiche sociali più generali che sono all'origine, di volta in volta, della scelta di determinati strumenti di gestione del territorio - non tutti ‛urbanistici' - all'interno dell'inventano disponibile, già molto articolato per ambiti spaziali, temporali, di contenuti e di livelli.
In linea del tutto generale, si possono indicare alcune conseguenze di questa situazione, a tutt'oggi leggibili sul piano dell'amministrazione urbanistica: a) l'attività pianificatoria tende ad assumere un carattere ‛incrementale' piuttosto che ‛sinottico'; il suo compito viene ridefinito come quello di identificare situazioni da superare piuttosto che di proporsi finalità politiche generali; l'attenzione viene posta sui problemi e sui mezzi piuttosto che sugli obiettivi; l'utilitarismo delle decisioni a breve termine prende il posto delle strategie; b) si moltiplicano le ‛deroghe' e le ‛varianti' agli strumenti vigenti (o addirittura l'approvazione del piano è perseguita per poter dar corso istituzionalmente alla sequenza delle varianti), a riprova indiretta che il processo decisionale prescinde dalle scelte di piano e non ne riconosce le relazioni interne; c) affiora da parte dei soggetti istituzionali della pianificazione la domanda di un'autonomia e di una discrezionalità che sembrano apparentarsi, nei loro effetti, a un assetto neoliberista (oppure la scelta politica è quella - sia pure al riparo di qualche strumento formale - di non pianificare in concreto, per puntare interessi ed energie sulla ‛gestione'); d) la gestione urbanistica si presenta come mezzo piuttosto che come fine, sia nel momento in cui il problema per le forze politiche ed economiche egemoni è quello di soddisfare le rivendicazioni nel filtro delle istituzioni, sia quando si compongono più equilibratamente in una mediazione spinte sociali pressoché equivalenti (ne deriva la difficoltà di tenere ferma, almeno per concluderne il ciclo sperimentale, qualsiasi linea operativa basata su presupposti orientati - per esempio, il riuso del costruito - per le opposizioni che questa fa nascere nei gruppi di interesse che se ne ritengono colpiti); e) l'esistenza di blocchi che raggruppano figure sociali legate a breve termine a interessi comuni - ma opposti a quelli, molto più generici, della collettività sui tempi lunghi - conduce le forze politiche, nel tentativo di giocare contemporaneamente su tutte le scacchiere, al rischio dell'immobilità decisionale (mentre non si interrompono i processi di trasformazione dell'uso della città); f) diventa problematico il rapporto fra cultura e politica, come è stato confermato in più casi - direttamente o ex contrario - dall'assimilazione del mestiere di urbanista a quello di un ‛intellettuale funzionario' (al quale, come si è espresso B. Secchi, ‟viene richiesta l'adesione anche formale a una forza politica", e che ‟tende sempre meno a differenziarsi dall'amministratore e dallo stesso funzionario di partito e sempre più a cercare di distinguersi dal collega di partito diverso") e come è stato dimostrato dalla controversa assunzione di responsabilità politicoamministrative da parte di tecnici e, infine, dalla lottizzazione partitica degli incarichi, quando il prodotto di piano deriva dalla composizione delle diverse direttive di partito di cui ogni tecnico è portavoce.
Anche la ‛partecipazione', la ‛gestione dal basso', le ‛lotte', quando non assumono contorni mitici, non possono sdipanare l'aggrovigliato intreccio di pastoie che frenano e sviano un'amministrazione corretta. La collettività ha una consapevolezza dei suoi bisogni tanto maggiore quanto più questi sono definiti e immediati, ma non ne coglie i legami con i meccanismi complessivi del piano (che è portata a considerare come un dato non modificabile); perciò le lotte spontanee, o la partecipazione organizzata, possono sbloccare situazioni di stallo su degenerazioni puntuali dell'organizzazione urbana, e al massimo spostare gradualmente la conoscenza dei fenomeni in gioco e l'influenza sul processo decisionale da ristretti gruppi sociali a gruppi più numerosi. In ogni caso, però, come è stato detto, ‟il livello di mediazione non può essere assunto come ‛interesse generale', ma come livello appunto, della mediazione".
A tutto ciò non si può replicare disconoscendo i limiti che questo stato di cose pone a una traduzione, nella pratica, delle acquisizioni della ricerca. Occorre invece allargare i contatti fra ricerca ed educazione di base, far correre continuamente la spola fra obiettivi particolari e tematiche generali. La natura complessa degli strumenti dell'‛urbanistica della crisi' non può comportare di per sé la rinuncia a una strategia, a una prospettiva, che è essenziale per definire - non soltanto da un punto di vista strettamente urbanistico - le linee concrete del governo della città. Se la condizione processuale del piano esclude preconcette configurazioni di obiettivi e di forme, gli obiettivi possono essere messi a fuoco - fatti salvi determinati assunti ideologici generali - legando osservazione, domanda e scambio dialettico con le forze in gioco. Il piano e la gestione non possono essere visti come elementi contraddittori e conflittuali: la ‛gestione' urbanistica è un'attività di estrema importanza, tanto più importante, nei confronti del dato innovativo del piano, nelle fasi in cui il territorio non è sottoposto a violente spinte di trasformazione-crescita; ma la gestione senza ‛piano' resta vuota e ambigua (una cosa diversa è, naturalmente, discutere sul ruolo che nel piano debbano o possano avere gli aspetti specifici del ‛disegno').
La salvezza storica del genere umano sta oggi nella ragione intesa come fondamento di una coscienza etica misurata non sugli illusori miti del progresso, ma sulla dimensione concreta dei problemi. L'urbanistica, nella sua accezione più larga, può dire una, parola essenziale di mediazione critica, anziché essere manipolata come una struttura particolare di sostegno della tecnopoli postindustriale, o puntellare e accelerare i fenomeni degenerativi indotti da strutture di potere costrittive che si muovono in una logica assai distante dal perseguimento dell'interesse collettivo e opposta agli impulsi che provengono dai movimenti popolari. Essa può indicare il limite di guardia dei processi entropici del cadre de vie, già oggi raggiunto in più aree del globo; può sottolineare l'urgenza di una produzione equilibrata del territorio antropizzato, nella salvaguardia delle sue risorse irriproducibili; può indicare un indirizzo di conservazione degli insediamenti storici grandi e piccoli, fino ai villaggi, e della continuità dell'ambiente, cui spetta di dare ai gruppi umani senso di sicurezza e opportunità di scelte libere e vitali di fronte alle continue trasformazioni della società.
Sullo sfondo della scommessa permanente della sopravvivenza, accanto alla necessità morale e materiale della pace sta quella di un uso equilibrato, creativo ma corretto, delle risorse planetarie dell'ecosfera, che appare ormai, come la pace, indivisibile.
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