Nel diritto vigente l’aborto è disciplinato dalla l. n. 194/1978, dove però sia nel titolo sia nel testo (con una sola eccezione all’art. 1) il termine aborto è sostituito con la perifrasi ‘interruzione volontaria della gravidanza’. La legge regola due forme di aborto: la prima ipotesi può avvenire entro i primi 90 giorni della gravidanza, ed è ammessa solo quando la prosecuzione, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica della madre, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, al quale l’ordinamento riconosce sia la soggettività giuridica (art. 1 l. n. 40/2004), sia il diritto alla vita. La seconda ipotesi ricorre una volta che siano trascorsi più di 90 giorni: in questo caso l’aborto può essere praticato esclusivamente quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La formulazione della legge esclude che si possa configurare nel nostro ordinamento un diritto all’aborto. Un problema attualmente assai dibattuto riguarda la tutela del padre del concepito, cui la l. n. 194/1978 non garantisce né il diritto di partecipare alla decisione né di essere informato della procedura abortiva in corso.