Carlo Cattaneo
L’opera di Carlo Cattaneo, che spazia in vari campi del sapere, è pervasa da un profondo interesse per le attività economiche e per il loro impatto sull’intera vita civile. Sebbene a un primo esame i suoi scritti di economia possano apparire scarsamente originali e fuori dalla corrente principale della storia della disciplina, a uno sguardo più attento rivelano la presenza di tesi che anticipano sensibilità diffuse nell’economia contemporanea, dai problemi del sottosviluppo alla dimensione territoriale dell’economia, dal rapporto tra economia e diritto al ruolo delle istituzioni e della conoscenza.
Carlo Cattaneo nasce a Milano il 15 giugno 1801. Dopo gli studi al liceo Sant’Alessandro, si iscrive all’Università di Pavia e nel 1824 consegue la laurea in giurisprudenza. Nel 1835 sposa Anne Woodcock, appartenente a una nobile famiglia inglese. Nello stesso anno muore Gian Domenico Romagnosi, e Cattaneo, che ha frequentato le sue lezioni diventandone allievo prediletto e amico, ne rileva il ruolo di guida degli «Annali universali di statistica» fino al 1839, anno in cui fonda «Il Politecnico», rivista di cultura generale che cesserà le pubblicazioni nel 1844, per poi riprenderle tra il 1859 e il 1865.
A partire dal 1835 prende parte a varie iniziative finanziarie e industriali, tra cui la costruzione della ferrovia Milano-Venezia e la creazione del Monte delle sete. In occasione del VI Congresso degli scienziati italiani, in programma a Milano nel 1844, cura la pubblicazione delle Notizie naturali e civili su la Lombardia. Negli anni seguenti continua a essere attivo come pubblicista, e mantiene un rapporto di collaborazione, non privo di tensioni, con le autorità cittadine.
Allo scoppio dell’insurrezione del 1848, non pensa tanto all’indipendenza quanto alle riforme politiche e sociali di cui il Lombardo-Veneto ha bisogno: libere istituzioni, autonomia federale, istruzione civile e militare dei cittadini. Ma la repressione austriaca e il coraggio degli insorti lo spingono a prendere parte attiva all’insurrezione e ad assumere di fatto il comando del consiglio di guerra. In questa veste si scontra duramente con il governo provvisorio, di ispirazione moderata. Alla vigilia del rientro degli austriaci, passa il confine svizzero e si reca a Parigi, dove scrive L’insurrection de Milan en 1848, che viene pubblicata nell’ottobre 1848 (mentre la versione italiana esce nel gennaio 1849), libro di forte polemica antisabauda, dettata dalla convinzione che il re Carlo Alberto tema la libertà e le riforme non meno del governo austriaco. Dopo pochi mesi si trasferisce definitivamente a Lugano per rimanervi anche dopo l’unificazione nazionale, a segnare il dissenso dal modo in cui essa è avvenuta.
Esaurito l’impegno nella ricostruzione delle vicende del 1848 con la raccolta Archivio triennale delle cose d’Italia (1850-55), dal 1852 si dedica all’insegnamento, in qualità di professore di filosofia al liceo cantonale di Lugano. Nel ritiro di Castagnola scrive molti dei suoi lavori più significativi, pur continuando a seguire le vicende italiane e a sostenere il movimento democratico e federalista che a lui si ispira. Muore a Castagnola il 5 febbraio 1869.
Dotato di vasti interessi filosofici, sulla scia di Romagnosi, Cattaneo fa propria la polemica anticartesiana dell’empirismo inglese e si dichiara un deciso sostenitore del metodo induttivo. Il richiamo continuo ai fatti e all’esperienza è testimoniato anche dall’impegno nella promozione della statistica, in un’accezione che, da quella originaria di «descrizione degli stati», tende sempre più ad avvicinarsi alla moderna concezione di scienza che si occupa della raccolta sistematica di dati (Ariotti 1969).
La polemica con René Descartes non coinvolge solo il metodo geometrico-deduttivo, ma anche un altro cardine della filosofia cartesiana, dal quale pure l’economia andava prendendo le mosse: l’idea dell’individuo isolato, che trova in sé ragioni e certezze di pensiero e di azione. Il tema è al centro della Psicologia delle menti associate (1859-66), in cui Cattaneo accoglie, dalla critica di Giambattista Vico a Descartes, il principio che non è possibile prescindere dalla società e che l’individuo isolato è una finzione, essendo l’uomo fin dalla nascita impregnato della cultura che lo circonda. Privato di questi condizionamenti, l’individuo non assurgerebbe all’ideale dell’Ego cartesiano, bensì perderebbe i tratti umani. Questa seconda critica coinvolge anche la variante classica dell’empirismo, la quale muove dall’assunto che l’esperienza sia quella dell’individuo isolato, paradigmaticamente rappresentato dalla statua di Étienne Bonnot de Condillac. Per Cattaneo, al contrario, la sensazione stessa «non è un fatto puro; fin da’ suoi primordii è un fatto sociale» (Psicologia delle menti associate, in Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, 4° vol., 1972, p. 161) e il pensiero è «l’atto più sociale degli uomini» (p. 165). Non nell’isolamento o nella concordia progredisce il pensiero, ma «dal conflitto di più menti» (p. 152).
Questa accezione positiva del conflitto, che trae ispirazione dalla lezione di Niccolò Machiavelli, svolge un ruolo essenziale in tutta l’opera di Cattaneo. Da un lato, essa individua la contrapposizione tra la metafisica e la scienza: mentre «le scôle metafisiche […] disdègnano come fango ogni cosa che appartenga al dominio delle scienze ch’esse chiàmano empìriche e casuali» e ambiscono a costruire un «sistema» chiuso e finito, la scienza progredisce confutando continuamente le vecchie dottrine, tanto che la sua storia è «un cumulo di ruine» (Considerazioni sul principio della filosofia [1844], in Opere scelte, cit., 2° vol., p. 346). Dall’altro, è il fondamento sul quale poggia la difesa della libertà di commercio.
La difesa incondizionata del libero commercio impedisce di considerare Cattaneo un precursore della scuola storica, come sembrerebbe lecito fare in base alla sua posizione metodologica. Non a caso tale difesa trova compiuta formulazione proprio in una lunga recensione critica all’opera fondativa della scuola stessa, Dell’economia nazionale di Federico List (Opere scelte, cit., 2° vol., pp. 285-340).
Come Adam Smith e Romagnosi, Cattaneo vede nella libertà di commercio un fattore decisivo per la promozione della divisione del lavoro e dell’innovazione e, contemporaneamente, per la diffusione di ordine e buon governo. Con Friedrich List condivide l’idea smithiana che lo sviluppo dell’industria sia essenziale per promuovere l’agricoltura: l’industria e il commercio hanno un ruolo propulsivo, impediscono che il sistema produttivo si chiuda e ristagni. Il punto sul quale Cattaneo si allontana dall’economista tedesco è nel non ritenere il protezionismo strumento atto a far crescere l’industria nazionale, che al contrario ha bisogno di grandi mercati per portare a compimento le potenzialità della sua struttura produttiva: «se più vasto è il campo di produzione e di smercio, più varia, più graduata, più poderosa, più audace è l’industria» (Dell’economia nazionale di Federico List, in Opere scelte, cit., 2° vol., p. 315). Anziché «rimandare il libero commercio ai remoti secoli, quando ogni gran nazione possa esser divenuta un grande stato normale», come voleva List, «meglio ravvicinar gli stati come or sono» (p. 343). Ai Paesi piccoli non è preconizzata la fine prevista nel sistema di List, perché proprio grazie alla libera concorrenza «il più piccolo stato può godere la stessa vastità di campo che gode lo stato più grande» (p. 335).
Il libero commercio è parte essenziale di una concezione filosofica che esalta la circolazione delle idee, dei prodotti e delle tecniche e il «cozzo» che ne consegue e impedisce ai popoli di stagnare. La libera concorrenza è «il solo principio che possa dare occasione a svolgere le forze latenti» (p. 313), e agisce «come soffio di vapore che caccia da un tubo l’aria fredda e stagnante» (p. 318); è la forza che esprime il ruolo del «dativo» – tipico concetto romagnosiano –, dell’innesto cioè che dà la sveglia ai popoli primitivi e ravviva civiltà spente, rimettendole in cammino. L’innesto peraltro non cancella le differenze, ma ripropone la varietà congenita legata all’elemento «nativo» della civiltà – concetto questo ispirato a Vico, sebbene questi privilegiasse i tratti comuni a tutto il genere umano, a discapito della loro varietà e diversità (Considerazioni sul principio della filosofia, Opere scelte, cit., 2° vol., p. 353). Ogni popolo ha in sé le potenzialità per raggiungere le vette più alte del sapere e della civiltà, con tratti specifici che non scompaiono. Come scriverà nella prefazione ai Frammenti d’istoria universale (1846), la compresenza di elementi nativi e dativi produce «le combinazioni istòriche» (in Opere scelte, cit., 2° vol., p. 571), «la moltiforme indole del nostro incivilimento» (p. 564); dove il termine «nostro» sta a indicare l’Europa, sistema aperto, in cui operano «principj tra loro contrarii», che rendono «perpetuamente vano lo sforzo di conciliarli in sistemi stabili e tranquilli» (Psicologia delle menti associate, in Opere scelte, cit., 4° vol., p. 147). La libertà di commercio è essenziale a questo scopo. Riconoscere il ruolo della tradizione, della consuetudine, delle istituzioni è tutt’altro che venerarle e ritenerle immutabili: «il progresso è appunto il mutarsi della tradizione» (Frammenti d’istoria universale, in Opere scelte, cit., 2° vol., p. 565).
Il giudizio negativo sul protezionismo si estende a tutte le misure che impediscono alla libera volontà e all’intelligenza di trovare il proprio campo d’azione. La prima opera economica di rilievo di Cattaneo è Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti, pubblicata nel 1836 e ristampata nel 1861 con il titolo abbreviato Interdizioni israelitiche.
Si tratta di una poderosa denuncia della legislazione restrittiva sulle proprietà e attività degli ebrei, che era stata in vigore in gran parte dell’Europa e ancora sopravviveva nel cantone di Basilea. Lo scritto mira a gettare luce sulla reciproca influenza di diritto, economia e morale, mostrando come le leggi incidano sulla vita economica e come questa a sua volta forgi «i costumi di una stirpe d’uomini» (Interdizioni israelitiche, in Opere scelte, cit., 1° vol., p. 246). La tesi di fondo è che sono state le interdizioni a provocare la distorsione del comportamento e della morale di un popolo cui non rimaneva altra strada per vivere e affermarsi che quella di accumulare denaro con il prestito a interesse, essendo impedito agli ebrei l’accesso alle proprietà prediali e alle arti e professioni liberali.
Cattaneo sostiene che, senza le interdizioni, la ricchezza mobiliare in mano agli israeliti avrebbe trovato il suo naturale sbocco nella proprietà fondiaria; destinazione che ne avrebbe frenato la crescita e avrebbe contribuito alla «edificazione del suolo» – cioè al potenziamento delle sue capacità produttive. A deviare l’attenzione degli israeliti dal solo scopo di far denaro avrebbe contribuito anche il possesso di dimore di lusso e l’accesso alle università, alla carriera militare, alla vita pubblica e ad altre attività che ripagano la vanità innata degli uomini anziché il loro desiderio di ricchezza. Ma «tutto il vasto campo delle vanità e delle dissipazioni» (p. 240) – «l’amore del lusso, degli onori, degli studj, dei luoghi, dell’estimazione pubblica» (p. 266) – era loro interdetto; per cui «i nostri avi condannavano l’Ebreo a vivere di usura e di baratti; e poi lo maledicevano come usurajo e barattiere» (p. 245), senza rendersi conto che «i regolamenti che astringevano ai risparmj, moltiplicavano le ricchezze degli Ebrei» (p. 233). Poiché «noi abbiamo tessuto di dispendiose vanità tutta la nostra vita e abbiamo tessuto tutta la vita loro di solide realtà» (p. 266), non c’è da meravigliarsi se i giovani europei si rivolgono agli ebrei per procurarsi il denaro atto a soddisfare i loro vizi, e l’accusa mossa a questi ultimi di «condurre alla ruina i nostri giovani ricchi coll’offrir loro denaro da soddisfare i vizj» si rovescia nella domanda: «si è mai fatta una legge per impedire ai nostri usurai di nutrire i vizj dei giovani Israeliti?» (p. 201).
Questa concezione dell’economia come fattore fondamentale della vita umana, in stretto rapporto con tutto il complesso della vita stessa, si estende a comprendere l’ambiente naturale e la sua trasformazione negli scritti di economia agraria, fino a trovare insuperata espressione nelle lettere al viceconsole britannico a Milano, pubblicate nel 1847 con il titolo D’alcune istituzioni dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda. Gli scritti di economia agraria sono stati raccolti nel 1939 in un’antologia (Saggi di economia rurale) curata da Luigi Einaudi, che nell’ammirata introduzione si sofferma a lungo sul tema.
Il sistema dell’agricoltura irrigua della bassa Lombardia è il risultato di un lungo processo che ha favorito l’applicazione del capitale e del lavoro, e soprattutto dell’intelligenza, a un territorio specifico, creando quella che Cattaneo ama definire «una patria artificiale» (Industria e morale, in Opere scelte, cit., 2° vol., p. 472). A renderlo possibile hanno concorso l’istituto della consegna, che tiene conto dei miglioramenti apportati dal fittuario e quindi li incoraggia; il catasto, che incentiva la produzione basando la tassazione su estimi fissi; e soprattutto il diritto di acquedotto, che attribuisce «alla volontà dell’uomo intraprendente un predominio sul nudo diritto di proprietà», consentendogli di attraversare il territorio altrui per opere di irrigazione (Del pensiero come principio d’economia publica [1861], in Opere scelte, cit., 4° vol., p. 323).
Questi istituti sono fatti vivere da modelli comportamentali e culturali radicati in «profonde e tacite tradizioni» (D’alcune istituzioni dell’Alta Italia, in Scritti economici, a cura di A. Bertolino, 3° vol., 1956, p. 120), che alimentano la fiducia reciproca del proprietario, del fittuario e del giornaliero, i quali a loro volta si affidano a un corpo competente di tecnici: i «campari» che regolano la distribuzione delle acque, i tecnici incaricati del catasto, gli ingegneri rurali che redigono i bilanci per le consegne. Questi ultimi in particolare, girando di podere in podere, diventano, «senza avvedersi, propagatori delle buone pratiche» (Dell’agricoltura inglese paragonata alla nostra [1857], in Opere scelte, cit., 4° vol., p. 59), diffuse «per imitazione vicinale lentamente propagata» (D’alcune istituzioni dell’Alta Italia, in Scritti economici, cit., 3° vol., p. 116).
Di fronte a questo quadro articolato e complesso, perdono di senso le domande inoltrate dal viceconsole britannico per conoscere costi e benefici delle singole opere irrigue al fine di valutarne la possibile applicazione all’agricoltura irlandese. Non le singole opere sono da riproporre ma, e questo è compito ben più arduo, il modello di un insieme di istituzioni, comportamenti e saperi capace di suscitare le energie per applicare l’intelligenza alle condizioni specifiche del territorio irlandese. È una lezione di economia dello sviluppo, prigioniera, fino a tutto il Novecento, della convinzione che il problema fondamentale siano i capitali, non le istituzioni, le competenze e l’intelligenza attiva (postfazione di Marco Vitale all’ed. 2001 di Del pensiero come principio d’economia publica).
Già in questi scritti è all’opera, almeno in nuce, una concezione che Cattaneo approfondisce nel periodo successivo. Negli anni Cinquanta, paragonando l’agricoltura inglese a quella lombarda, afferma anche a proposito della prima, il cui sviluppo è comunemente attribuito alla disponibilità di capitali, che «grandissima parte si deve a ciò che non è lavoro né capitale, ma mero atto d’intelligenza», a indicare così un nuovo, distinto fattore della produzione: «nei trattati d’economia gli atti di intelligenza oramai si dovrebbero classificare come fonte di valore per sé, quanto il lavoro e il capitale» (Dell’agricoltura inglese, in Opere scelte, cit., 4° vol., p. 49).
Questa riflessione culmina nel saggio Del pensiero come principio d’economia publica:
L’economia publica d’una nazione non si spiega dunque nè con Montesquieu, nè con Adamo Smith, non si spiega nè colla natura, nè col lavoro; ma coll’intelligenza, che afferra i fatti della natura; che presiede al lavoro, al consumo, al cumulo; che li fa essere in uno o in un altro modo; che li fa essere o non essere (in Opere scelte, cit., 4° vol., p. 315).
La natura è solo una potenzialità, che può restare latente per secoli, finché la mente dell’uomo non scopre il modo di metterla a frutto. Le caratteristiche naturali del suolo e del clima lombardo erano «come le parti d’una vasta màchina agraria» che avrebbe potuto restare inespressa per sempre, se l’intelligenza umana non si fosse applicata a costruirla (Introduzione a Notizie naturali, in Opere scelte, cit., 2° vol., p. 382). È solo ex post che si vedono le potenzialità di un’area e si attribuisce alla natura quello che invece è frutto dell’intelligenza:
il progresso dell’incivilimento dimostrerà con fatto posteriore, che in ogni regione del globo giàciono così predisposti gli elementi di qualche gran compàgine, che attende solo il soffio dell’intelligenza nazionale (p. 382).
Smith e Antonio Genovesi, che pure erano filosofi, non videro nell’economia «il costante dominio di quelle facultà mentali ch’erano il primo campo dei loro studj» (Del pensiero come principio, in Opere scelte, cit., 4° vol., p. 302), e attribuirono al lavoro le ricchezze, che «sono ben più veramente in ragione composta dell’intelligenza e del lavoro» (p. 309). Né può bastare ad accrescere la produzione l’accumulo di ricchezza sotto forma di capitale, senza l’ausilio dell’intelligenza. Quattro sono le forze produttive: «intelligenza, natura, lavoro e capitale, in una serie che sempre e ad ogni volta viene aperta dall’intelligenza» (p. 309). La teoria soggettivistica del valore è quasi un sottoprodotto di questa concezione quando essa è applicata al consumo: «la misura dei valori, principio d’ogni cambio e d’ogni commercio, e fondamento di tutta l’economia, risiede principalmente nella regione del pensiero», e dipende «più dalla stima che ne fa la mente che non dall’utilità che ne riceve la persona» (p. 309).
La psicologia della ricchezza non si esaurisce con il richiamo all’intelligenza, perché per metterla in moto occorrono volontà e motivazioni. Alla fine del Medioevo il passaggio dalla servitù della gleba alla mezzadria e all’affitto ha sprigionato energie che hanno trasformato la terra. Il principio degli sforzi che hanno prodotto i terrazzamenti della Liguria e della Valtellina
è tutto in una artificiale volontà. Poiché se si muta il titolo del possesso e dell’affitto, anche non mutandosi l’agricultore, tutto quell’edificio sparisce […]. Quella forma di vegetazione non ha radice nella terra, ma nell’uomo; non nei calcoli dell’intendimento, ma nella forza della volontà (p. 326).
In conclusione del saggio, Cattaneo rivendica una scoperta che ritiene destinata a rivoluzionare l’economia:
Ogni nuovo trattato d’economia publica, dovrebbe formalmente classificare tra le fonti della ricchezza delle nazioni l’intelligenza e la volontà: l’intelligenza, che scopre i beni, che inventa i metodi e gli strumenti, che guida le nazioni sulle vie della cultura e del progresso: la volontà, che determina l’azione e affronta gli ostacoli (p. 331).
È un richiamo forte e inusuale per quel periodo, che anticipa il tema centrale della moderna economia cognitiva e che, quando il testo è stato riedito (2001) insieme alla sua traduzione in inglese, non ha mancato di essere avvertito da chi pone la conoscenza al centro dello sviluppo economico (Loasby 2007).
Nasce da qui un atteggiamento di fiducia nell’uomo, sul quale si appoggia il programma riformista di Cattaneo centrato sull’educazione, fattore decisivo dello sviluppo, e critico nei confronti della teoria malthusiana della popolazione (Dell’agricoltura inglese paragonata alla nostra, in Opere scelte, cit., 4° vol., p. 50). Di questo programma è opportuno accennare ad alcune parti che hanno un più stretto contenuto economico. Oltre ai temi di economia agraria, di cui già si è discusso, Cattaneo si occupa di economia dei trasporti e di economia del credito e della moneta, con sicurezza di analisi e conoscenza dettagliata delle esigenze concrete delle attività industriali e commerciali del territorio. Attento alla funzione esercitata dal credito e ai problemi di liquidità che affliggono le attività industriali e commerciali, in particolare quella della seta, mantiene sul tema un atteggiamento prudente, derivato da una sostanziale adesione alla teoria quantitativa della moneta.
Interessato alla costruzione di una vasta rete ferroviaria quale fattore essenziale per lo sviluppo economico italiano, nel 1836 pubblica le Ricerche sul progetto di una strada di ferro da Milano a Venezia («Annali universali di statistica», a. XLVIII, pp. 283-332), che uno studio dettagliato della complessa vicenda definisce «esemplari», «una tappa fondamentale nello sviluppo delle discipline territoriali e nella storia della cultura regionale» (Carozzi, Mioni 1970, p. 305).
Cattaneo propone una soluzione di tracciato ispirata al duplice principio che il traffico-merci promette ricavi maggiori del traffico-passeggeri e che è opportuno collegare le città intermedie: Brescia, Verona, Vicenza, Padova, nodi della rete di un territorio che storicamente a esse fa capo. Le città del Centro-Nord d’Italia sono
il centro antico di tutte le comunicazioni di una larga e popolosa provincia; vi fanno capo tutte le strade, vi fanno capo tutti i mercati del contado, sono come il cuore nel sistema delle vene; [...] sono un punto d’intersezione o piuttosto un centro di gravità che non si può far cadere su di un altro punto preso ad arbitrio (Ricerche sul progetto, in Opere scelte, cit., 1° vol., p. 39).
Il tema, che mostra la connessione tra le idee economiche e politiche di Cattaneo, è ripreso e ampliato nel saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane («Il crepuscolo», 1858, nn. 42, 44, 50 e 52). Il saggio offre una ricostruzione storica delle origini del capitalismo in Italia nella quale è anticipato il policentrismo dell’economia dei distretti e costituisce il robusto retroterra culturale della proposta federale di Cattaneo la quale, nella conclusione del libro sull’insurrezione di Milano, assume il tono profetico di un sogno oggi divenuto attuale, gli «Stati Uniti d’Europa» (Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra: memorie, in Opere scelte, cit., 3° vol., p. 330).
A cura del Comitato italo-svizzero per la pubblicazione delle opere di Carlo Cattaneo, tra il 1948 e il 1981 sono usciti i 21 voll. dell’Edizione nazionale delle opere di Carlo Cattaneo, tra cui gli Scritti economici, 3 voll., a cura di A. Bertolino, Firenze 1956.
Si vedano inoltre:
Saggi di economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino 1939, 19752.
Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, 4 voll., Torino 1972.
Del pensiero come principio d’economia publica/Intelligence as principle of public economy, prefazione di C.G. Lacaita, postfazione di M. Vitale, Milano 2001.
L. Cafagna, Agricoltura e accumulazione negli scritti economici di Carlo Cattaneo, «Società», 1956, 4, pp. 623-48.
A. Bertolino, I fondamenti delle idee economiche di C. Cattaneo, in Studi in onore di Armando Sapori, Milano 1957, 2° vol., pp. 1433-69; rist. in A. Bertolino, Scritti e lezioni di storia del pensiero economico, a cura di P. Barucci, Milano 1979, pp. 367-404.
R. Ariotti, Primi apporti di Carlo Cattaneo all’introduzione delle tecniche statistiche nella ricerca economica e sociale. La collaborazione agli Annali di statistica, «Statistica», 1969, 4, pp. 729-53.
C. Carozzi, A. Mioni, L’Italia in formazione. Ricerche e saggi sullo sviluppo urbanistico del territorio nazionale, Bari 1970, pp. 304-66.
C. De Seta, Città e territorio in Carlo Cattaneo, «Studi storici», 1975, 2, pp. 439-60.
E. Sestan, Cattaneo Carlo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia italiana, 22° vol., Roma 1979, ad vocem.
R. Faucci, L’economia politica in Italia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Torino 2000.
G. Becattini, La sfida di Carlo Cattaneo, in Atti di intelligenza e sviluppo economico. Saggi per il bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, a cura di L. Cafagna, N. Crepax, Bologna 2001, pp. 25-52 (rist. in G. Becattini, I nipoti di Cattaneo. Colloqui e schermaglie fra economisti italiani, Roma 2002, pp. 49-68).
B.J. Loasby, A cognitive perspective on entrepreneurship and the firm, «Journal of management studies», 2007, 7, pp. 1078-1106.