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Dopo 17 terribili anni di dittatura militare guidata dal generale Augusto Pinochet, il Cile, a partire dagli anni Novanta, ha potuto riprendere il cammino che aveva già intrapreso da tempo: quello di una democrazia rappresentativa solida, nella quale il regime presidenziale trova un efficace contrappeso in un parlamento che gode di ampia legittimità popolare, e il potere giudiziario può esercitare il suo ruolo in modo indipendente. Si tratta di una democrazia stabile al punto da transitare senza scossoni dal lungo dominio della coalizione di centrosinistra chiamata ‘Concordancia’ a quello delle destre, ormai lontane dall’eredità della dittatura e giunte al potere nel 2010 con la vittoria elettorale di Sebastián Piñera. La vittoria della socialista Michelle Bachelet, al suo secondo mandato, a fine 2013, ha riconfermato l’alternanza. La storia cilena degli ultimi decenni è stata anche caratterizzata da una robusta e costante crescita economica, bastata sia su un’economia estremamente aperta e competitiva sui mercati internazionali che sull’attenzione agli equilibri macroeconomici. I risultati e l’elevato grado di affidabilità che il Cile ha così guadagnato a livello globale fanno sì che goda di un’influenza regionale e internazionale di gran lunga superiore a quanto farebbero presupporre le sue ridotte dimensioni e il suo isolamento geografico. Il Cile fa parte dell’Alianza del Pacífico (un progetto di integrazione panregionale con Perù, Colombia e Messico) e intrattiene solidi legami commerciali con quasi tutti i paesi dell’America Latina. Persistono però tensioni con alcuni di essi, come l’Argentina (per l’approvvigionamento di riserve di gas naturale), la Bolivia (a causa di una disputa territoriale di lunga data) e il Perù, a causa di una controversia su un confine marittimo risoltasi con un verdetto della Corte dell’Aia a favore di Lima. Al di là della regione di appartenenza, il Cile cura molto anche i legami con le maggiori economie che ne possano sostenere la crescita economica, basata sulle esportazioni, come Stati Uniti e Cina, e prevede di ampliare la sua vasta rete di accordi di libero scambio con Malaysia, Vietnam e India.
La maggior parte della popolazione cilena ha remote radici europee: sia quelle spagnole dell’epoca coloniale, sia quelle di varie zone d’Europa risalenti alle grandi migrazioni dei secoli 19° e 20°, compresa una nutrita e assai influente comunità di origine tedesca. Durante la seconda metà del 19° secolo è stato eccezionale il numero di ebrei orientali, cristiano-siriani e palestinesi approdati in Cile in fuga dall’Impero ottomano. La comunità palestinese, in particolare, si è ingrandita in seguito ai conflitti arabo-israeliani e costituisce oggi in Cile la più grande colonia al di fuori del mondo arabo.
L’originaria popolazione nativa, invece, si concentra perlopiù nel sud del paese e corrisponde a circa il 5% dei cileni: il suo maggiore gruppo etnico è composto dai Mapuche. Appartenenti a una fascia della popolazione assai vulnerabile e collocata al livello più basso della piramide sociale, negli ultimi anni i Mapuche hanno iniziato a condurre una strenua battaglia per rivendicare i propri diritti sulla terra. La lotta ha assunto connotati così aspri che alcuni Mapuche sono accusati di episodi di violenza e sottoposti alla legge anti-terrorismo.
Caratteristica della popolazione cilena è la sua concentrazione nella fascia centrale del paese, corrispondente al nucleo territoriale dove dapprima si è consolidato lo stato cileno e a cui si aggiunsero nella seconda metà del 19° secolo i territori meridionali popolati dai Mapuche e quelli settentrionali sottratti a Bolivia e Perù nella Guerra del Pacifico (1879-83).
La società cilena è ancora caratterizzata da marcate disuguaglianze, tipiche dell’area latinoamericana, ma la crescita economica e le politiche attuate dal governo ne hanno attenuato la gravità. La percentuale di popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà si è ridotta drasticamente e si è attestata intorno al 14%. In questo rilancio socio-economico anche l’educazione gioca un ruolo di primo piano: il paese gode di livelli di istruzione tra i più alti dell’intero subcontinente latino, benché proprio il malcontento sulle scelte del governo in tema di scuola abbiano suscitato, nel 2012, estese proteste di piazza.
Il Cile si colloca dunque ai vertici delle graduatorie dei paesi latinoamericani in pressoché ogni campo ed è sempre più vicino agli standard sociali dei paesi occidentali: lo dimostra la posizione che occupa nella classifica dell’Indice di sviluppo umano (è al 41° posto su 187 paesi). I diritti civili e politici, infine, sono rispettati, benché la Costituzione sia ancora quella varata dalla dittatura nel 1981: con frequenti emendamenti si stanno eliminando anche le ultime forme di autoritarismo.
L’economia cilena, storicamente dipendente dall’esportazione di rame, di cui il Cile è il primo produttore al mondo, è cresciuta nell’ultimo ventennio a ritmi superiori a quelli di qualsiasi altro paese latinoamericano uscendo perlopiù indenne dalle crisi economiche succedutesi negli ultimi anni. Alla base di tale successo vi sono stati numerosi fattori, sia locali, sia internazionali. Tra quelli locali spiccano la legittimità dei governi, il consenso nazionale per una politica di disciplina fiscale e di stabilità macroeconomica e gli effetti di un modello economico liberista che fa di quella cilena una delle economie più aperte al mondo, basata sul commercio estero e su accordi di libero scambio con i maggiori partner internazionali, soprattutto Usa e Cina. Proprio con Pechino, nel 2012, Santiago ha siglato un accordo di associazione per sostenere la crescita del commercio e degli investimenti.
La dipendenza dal rame rimane significativa e i suoi prezzi elevati hanno recentemente contribuito in modo consistente alla crescita ma, sia il sistema produttivo, sia la struttura delle esportazioni, si sono con il tempo rafforzati e in parte differenziati.
Sul piano energetico, il Cile mostra un profilo potenzialmente più vulnerabile. All’aumento della domanda interna di energia non è corrisposta un’uguale valorizzazione delle fonti, di cui il Cile è poco fornito (salvo che per l’idroelettrico e le rinnovabili). Ciò ha determinato una forte dipendenza dalle importazioni di petrolio e gas naturale. A tal proposito, le tensioni croniche con la Bolivia e la scarsa affidabilità argentina hanno indotto il Cile a puntare sulla massima diversificazione dei fornitori. Sul piano ambientale, infine, il livello di inquinamento che si registra in Cile non si discosta dalle medie regionali, anche se tocca punte preoccupanti nella capitale. A destare proteste e polemiche è soprattutto lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali causa talvolta di gravi incidenti nelle miniere e del rapido processo di deforestazione di alcune aree.
La forte crescita economica, il peso corporativo esercitato dalle forze armate e le croniche ostilità con i vicini spiegano il fatto che il bilancio militare del Cile (pari a oltre 5,4 miliardi di dollari e con un’incidenza sul pil pari al 1,9%) sia relativamente alto, inferiore (in termini assoluti) in Sudamerica solo a quello del Brasile, la maggiore potenza regionale, e a quello della Colombia, che da decenni è impegnata in un conflitto armato interno.
La forza aerea cilena (circa 8000 unità), in particolare, rappresenta oggi un temibile strumento di sicurezza. La notevole modernizzazione delle forze armate ha suscitato timori presso i governi dei paesi confinanti, che non riescono a tenere il passo del Cile a causa delle ristrettezze del bilancio. Ciononostante, si è innescata una sorta di corsa regionale agli armamenti.
A loro volta i governi e le forze armate cilene hanno sempre sostenuto di non avere intenzioni aggressive e di essersi limitati a rinnovare un apparato di sicurezza ormai obsoleto. Resta però il fatto che il Cile gode di una netta superiorità militare nei confronti dei vicini andini e per molti aspetti anche della ben più grande Argentina.
Dal 2012 in Cile si susseguono proteste studentesche contro la riforma del sistema della pubblica istruzione. Fortemente voluta dagli ex presidente Piñera e ministro dell’educazione Joaquín Lavín, la riforma, articolata in 21 punti, prevede un aumento dei finanziamenti alla scuola pubblica, una più accurata formazione degli insegnanti, un aumento del numero delle borse di studio e un aiuto per pagare i debiti degli studenti. Tuttavia le misure sono state ritenute insufficienti dai manifestanti, secondo i quali la riforma costringerebbe le famiglie a indebitarsi per sostenere le rette scolastiche dei figli e livellerebbe verso il basso la qualità dell’insegnamento. Le scuole e le università pubbliche sono finanziate solo per il 25% dalla spesa scolastica nazionale, che è a carico delle municipalità cittadine, mentre i restanti costi sono coperti dalle famiglie. Il fisco favorisce le università private, tramite finanziamenti e fondi comuni, mentre l’educazione pubblica non gode di agevolazioni e ciò obbliga di fatto le famiglie a chiedere un prestiti bancari per sostenere i figli negli studi, che difficilmente possono essere ripagati. La qualità dell’insegnamento pubblico risente, ovviamente, della mancanza di fondi, tanto da costringere le famiglie cilene a rinunciare a mandare i figli a scuola o, quando possibile, a iscriverli in costose scuole private nazionali o all’estero, principalmente in Argentina e in Brasile.
L’istruzione è stata uno degli argomenti centrali della campagna elettorale che ha permesso alla coalizione di Michelle Bachelet di imporsi alle elezioni del dicembre 2013. Il presidente ha proposto una nuova riforma dell’istruzione, che dovrà ora confrontarsi tanto con i membri più conservatori dell’esecutivo, quanto con i più radicali – tra cui spiccano i movimenti studenteschi alla base delle proteste degli anni passati. Già nel 2006 e nel 2010 c’erano state infatti proteste contro i tentativi di riforma del sistema educativo introdotti dall’allora presidente Michelle Bachelet.