Atteggiamento di chi non prende posizione tra le varie fedi religiose, o ritenendole inutili (e anche false: si parla allora di i. assoluto e, più propriamente, d’irreligiosità), o dichiarandole tutte egualmente valide, ciascuna per i propri adepti: in tal senso è più esatto parlare di i. religioso o anche latitudinarismo. Questo secondo atteggiamento – maturatosi dal Rinascimento attraverso le polemiche della Riforma e Controriforma per prender poi maggiore coscienza nell’Illuminismo e nel pensiero politico liberale – può comprendere varie posizioni che hanno in comune un orientamento per cui il valore di una fede non risiederebbe in un complesso oggettivo di dottrine definite, ma nel sentimento interiore, nell’atto soggettivo di scelta che, nella sua purezza, dà valore alla fede. Questa dunque sarebbe qualcosa di puramente interiore (anche se si estrinseca in atti di culto e in accettazione di formule dogmatiche), e nessuno potrebbe imporre l’adesione a questo o a quel credo senza ridurre l’assenso della fede a esteriore atto legalistico.
In campo politico l’i. sostiene che lo Stato, se vuol rispettare la libertà di coscienza, non deve imporre una determinata fede, né concedere a una particolare confessione posizioni di privilegio, ma deve limitarsi a riconoscere la libertà e l’eguaglianza innanzi alla legge di tutte le fedi e le Chiese. Contro l’i., divenuto uno dei cardini della dottrina liberale dello Stato, la Chiesa cattolica prese posizione con il Sillabo di Pio IX (1864; e già precedentemente con le encicliche Qui pluribus, 1846, e Singulari quidem, 1856, dello stesso pontefice).