Termine, usato per la prima volta (1872-73) dal critico P. Burty, per indicare l’interesse per il Giappone e l’influenza della sua arte sui movimenti artistici europei tra la metà del 19° sec. e la Prima guerra mondiale. Alla diffusione del fenomeno contribuirono le Esposizioni universali, cui il Giappone partecipò con propri padiglioni (fin dal 1862 a Londra), l’apertura di negozi specializzati in oggetti dell’Estremo Oriente e la pubblicazione, curata dal collezionista e mercante Samuel Bing (1838-1905), della rivista Le Japon artistique (1888-91).
Impressionisti e postimpressionisti furono attratti dai valori cromatici e spaziali delle xilografie giapponesi. I primi ripresero le linee rapide e il taglio asimmetrico del quadro, mentre P. Gauguin e i Nabis furono interessati al colore, steso in campiture piatte che esaltavano (come nelle stampe di Utamaro o di Hiroshige) il valore decorativo e simbolico dei colori. Motivi iconografici e stilistici mutuati dal Giappone sono riconoscibili anche nei vetri di É. Gallé, dei fratelli Daum, di L.C. Tiffany, o nei gioielli di R. Lalique e di P. Wolfers.
Il j. si manifestò anche in letteratura, come nel romanzo di P. Loti Madame Chrysanthème (1887), fonte per il dramma di D. Belasco che servì per il libretto della Madama Butterfly di G. Puccini (1908).
Infine l’architettura tradizionale giapponese, per la razionalità degli elementi modulari, la funzionalità delle ripartizioni spaziali, l’armoniosa fusione di esterno e interno, l’elegante semplicità nell’uso dei materiali, divenne fonte di ispirazione per molti architetti occidentali, da quando fu ‘scoperta’ da F.L. Wright in occasione dell’Esposizione di Chicago del 1893.