Il rapporto di lavoro autonomo si configura quando «una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente». Questa fattispecie è disciplinata nell’ordinamento italiano dalle norme del capo I, del titolo III, del libro V del codice civile, intitolato, appunto, al lavoro autonomo, «salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV», secondo quanto disposto dall’art. 2222 c.c. Il tradizionale criterio di distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, è quello fondato sull’oggetto dell’obbligazione che, riprendendo l’antica distinzione tra locatio operis e locatio operarum, pone da un lato l’obbligazione di risultato con rischio sul debitore per il mancato conseguimento di questo e, dall’altro, l’obbligazione di mezzi ovvero di mera attività senza rischio del risultato per il debitore. In realtà questa distinzione è solo parzialmente utile, in quanto permette di escludere la natura subordinata del rapporto di lavoro solo se l’obbligazione è un’obbligazione di risultato con relativo rischio a carico del lavoratore; mentre un’obbligazione di mezzi può inerire sia un rapporto di lavoro subordinato sia un rapporto di lavoro autonomo. Ai fini della distinzione tra le due fondamentali fattispecie lavorative esistenti nel nostro ordinamento, appare quindi necessario ricorrere a un altro criterio distintivo, ormai da tempo ritenuto prevalente dalla dottrina, ossia il criterio distintivo dell’eterodirezione dell’attività. Tale criterio – peraltro già insito nell’ art. 1627 del codice civile del 1865 laddove a essere presa in considerazione era l’opera prestata «all’altrui servizio» – permette di qualificare una fattispecie come lavoro autonomo ove a essere assente sia il carattere dell’eterodeterminazione della prestazione lavorativa, la quale affinché la fattispecie presa in considerazione possa essere qualificata come autonoma, non deve essere svolta nel modo imposto dal datore di lavoro mediante ordini che il lavoratore è tenuto a rispettare (come accade, invece, nel rapporto di lavoro subordinato ex combinato disposto degli art. 2094 e 2104 c.c.). Il metodo da utilizzare nell’opera di qualificazione è quello consueto e imprescindibile del sillogismo giuridico, con sussunzione per identità della fattispecie concreta in quella astratta, al quale consegue il controllo della Cassazione non sull’accertamento degli elementi di fatto, bensì sull’individuazione dello schema normativo al quale ricondurre le circostanze assegnate. La dottrina prevalente da tempo lamenta una assenza di tutele per i lavoratori autonomi con un divario enorme, da questo punto di vista, rispetto ai lavoratori dipendenti, con conseguente interesse del prestatore di lavoro alla qualificazione giudiziale del contratto come subordinato. Solo sul piano previdenziale i lavoratori autonomi hanno ottenuto protezione, con una legislazione apposita che prevede l’iscrizione all’INPS di coltivatori diretti, artigiani, commercianti e, ora, anche dei lavoratori parasubordinati. Diverse categorie di professionisti sono dotate di una propria Cassa di previdenza obbligatoria, mentre in mancanza è disposto l’inserimento nella gestione separata dell’INPS prevista per i lavoratori subordinati.