progresso
Lo spirito della modernità
Il termine progresso ha due significati. Il primo indica una qualsiasi successione di eventi che implichi un miglioramento: la scoperta di nuovi farmaci, per esempio, fa sì che noi parliamo di progressi della medicina. Il secondo significato si riferisce invece alla storia umana nel suo complesso, vista come un continuo avanzamento verso il meglio. In questa seconda accezione, l’idea di progresso è tipicamente moderna: essa nasce nel Seicento, si diffonde nel secolo successivo e celebra il suo trionfo nell’Ottocento. Le tragiche esperienze del Novecento hanno incrinato la fede nel progresso, ma non hanno spento il desiderio di battersi per esso
L’idea di un’evoluzione positiva del processo storico – di un «andare avanti» (tale è il significato del verbo latino progredior, dal quale deriva progresso) che sia un andare verso il meglio – è tipicamente moderna. Gli antichi, infatti, avevano una concezione regressiva oppure ciclica del processo storico: nel primo caso, la storia veniva interpretata come un processo di decadenza a partire da un originario periodo di perfezione (età dell’oro); nel secondo caso, invece, come un succedersi di eventi sempre uguali, assimilabile perciò al ciclo delle stagioni.
Il cristianesimo introdusse una concezione lineare del tempo storico – con un inizio (la creazione) e una fine (l’instaurazione del regno di Dio dopo il giudizio universale) – ma vide in ogni evento la manifestazione di un piano divino. Lo stesso umanesimo, che pure riportò l’uomo al centro dell’attenzione, non possedeva una chiara nozione di progresso e infatti prese a modello, per la sua opera di rinnovamento, la cultura antica.
Le straordinarie scoperte geografiche, tecniche e scientifiche compiute tra 15° e 17° secolo, però, liberarono i moderni dalla soggezione verso gli antichi: tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento si fece così strada – in filosofi molto diversi tra loro, come Giordano Bruno, Francesco Bacone, Renato Cartesio e Blaise Pascal – la convinzione che i ‘veri antichi’ fossero i ‘moderni’, i quali, avendo dietro di sé un tratto più lungo di storia e una maggiore esperienza, erano più ‘vecchi’ e quindi più sapienti.
Con la disputa sugli antichi e i moderni, una controversia letteraria sviluppatasi sul finire del Seicento, l’idea di progresso assunse la sua fisionomia classica. Contro i sostenitori del genio insuperabile degli antichi, lo scrittore francese Bernard de Fontenelle sostenne che gli uomini di tutti i tempi hanno la medesima natura e quindi le differenze devono derivare da altre cause, in particolare dal tempo. Ciò significa che con il succedersi delle generazioni il genere umano accresce il suo sapere. E poiché il genere umano, a differenza del singolo individuo, non invecchia, il progresso è destinato a proseguire all’infinito.
Nel Settecento i filosofi dell’Illuminismo fecero della capacità di progredire (perfettibilità) la caratteristica saliente dell’uomo, ciò che lo differenzia dagli altri esseri viventi. Ma se le cose stanno così, allora il progresso riguarda ogni aspetto della vita umana: esso si realizzerà non solo nel sapere, ma anche nei costumi, nella società e nella politica.
Questo allargamento dell’idea di progresso lo si deve soprattutto a Voltaire, il quale sostenne – nella Filosofia della storia (1765) – che ogni popolo passa dallo stadio selvaggio alla barbarie e da questa alla civiltà: tale processo può tuttavia interrompersi a causa delle guerre, del fanatismo religioso e della superstizione. Nella storia si alternano epoche di progresso (come il secolo di Luigi XIV) ed epoche di decadenza (come il Medioevo), a seconda che prevalga la ragione o il pregiudizio.
Altri illuministi, invece, pensavano che il progresso fosse un processo ininterrotto. Già nel 1713 l’abate Charles-Irénée di Saint-Pierre aveva parlato di un «progresso continuo della ragione universale» che doveva condurre alla pace perpetua (pacifismo). Qualche anno dopo Robert-Jacques Turgot sostenne che il progresso è pressoché continuo, perché quando si interrompe nelle scienze prosegue nelle arti meccaniche, il cui perfezionamento pone le basi per futuri avanzamenti. Ma fu soprattutto Condorcet, nel suo Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano (1795, postumo), a proclamare che il perfezionamento del genere umano è un processo inarrestabile, che può subire al massimo rallentamenti. Egli era consapevole che interi popoli e classi sociali erano ancora esclusi dal cammino della civiltà e indicò la direzione del progresso futuro nel superamento delle disuguaglianze tra le nazioni e, al loro interno, tra le classi sociali.
L’idea di progresso è presente anche nel pensiero di Kant: il filosofo tedesco è convinto che la storia sia retta da un ‘disegno della natura’, il quale – servendosi dell’antagonismo tra gli uomini (antagonismo che dev’essere regolato dal diritto) – mira al completo dispiegamento delle capacità razionali dell’uomo.
Nell’Ottocento l’idea di progresso subisce un’importante trasformazione: da possibilità inscritta nelle capacità umane essa diviene la legge che guida il divenire storico, assumendo in questo modo un carattere di necessità. Sono le tre grandi filosofie sistematiche del secolo – idealismo, marxismo, positivismo – a operare tale trasformazione.
Per Hegel la storia è un processo necessario, nel quale ogni fase contiene dentro di sé i motivi più fecondi della fase precedente e li arricchisce di nuovi sviluppi. Tale processo si compie in maniera dialettica, cioè attraverso l’urto di forze contraddittorie, e ha come fine «il progresso nella coscienza della libertà». Marx riprese da Hegel la concezione dialettica della storia, ma individuò la ‘molla’ del progresso nei conflitti socioeconomici, il cui esito ultimo e necessario è, secondo il pensatore tedesco, la nascita di una società comunista senza classi e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Quanto ai positivisti, Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon vide nella storia il passaggio dai sistemi militari, fondati sulla guerra e sul sapere teologico, ai sistemi industriali, basati sulla produzione e sul sapere scientifico. Questa idea venne ripresa da Auguste Comte, secondo il quale la vicenda individuale e collettiva dell’umanità è scandita dalla successione di tre stadi: lo stadio teologico, in cui l’uomo aspira alla conoscenza assoluta e individua le cause dei fenomeni in entità soprannaturali, lo stadio metafisico, in cui le entità soprannaturali vengono sostituite da concetti astratti, e infine lo stadio scientifico, in cui l’uomo rinuncia al sapere assoluto e si limita a cercare le leggi dei fenomeni. Comte era convinto che lo studio della società, con la sociologia, stava per entrare nello stadio scientifico e ciò avrebbe permesso di trovare una soluzione definitiva ai problemi sociali e politici. In Inghilterra, Herbert Spencer allargò l’idea darwiniana dell’evoluzione dalla biologia alla realtà nel suo complesso: nacque così una teoria secondo la quale anche la vita sociale sarebbe guidata da una legge che ne determina il continuo progresso verso forme sempre più complesse e integrate.
Mentre l’idea di progresso, nella seconda metà dell’Ottocento, celebrava i suoi fasti, alcune voci critiche iniziavano a levarsi contro di essa. Una delle prime fu quella del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, il quale riteneva che nella storia non vi fosse alcun significato e che il cosiddetto progresso fosse l’affermazione di una volontà irrazionale e insensata.
Il vero punto di svolta è però rintracciabile nell’ultimo trentennio del 19° secolo, quando la società di massa iniziò a mostrare i suoi aspetti più negativi. Secondo il pensatore svizzero Jacob Burckhardt la spinta verso il livellamento che caratterizzava la società democratica avrebbe condotto non al progresso, ma alla decadenza, perché avrebbe distrutto i valori sui quali si era retta la società del passato.
Infine Friedrich Nietzsche – che ritornò a una concezione ciclica del tempo storico – radicalizzò tale diagnosi. Lungi dall’essere contrassegnata dal progresso, la storia ha condotto alla perdita dei valori originari dell’uomo, che erano quelli della società aristocratica (forza, bellezza, onore, volontà di potenza). La filosofia (da Socrate in avanti) e soprattutto il cristianesimo hanno ucciso la profondità vitale degli istinti, sostituendo a essa l’esangue ragione o la morale dell’umiltà e della rinuncia. L’inesistenza del progresso, del resto, è testimoniata, secondo Nietzsche, dall’evidente inferiorità dell’uomo di oggi rispetto all’uomo del Rinascimento.
Le terribili tragedie avvenute nel Novecento (guerre mondiali, totalitarismi, Shoah, razzismo), di lì a poco, avrebbero inciso assai più delle argomentazioni di Nietzsche, incrinando in maniera irrimediabile quella fede assoluta nel progresso che era stata, per molti aspetti, la ‘religione’ dell’Ottocento.