REGIA.
– Cinema. La regia ‘digitale’. Teatro. La parabola del teatro di regia. Regia e teatro postdrammatico. Ai confini del teatro: la regia degli anni Duemila. Bibliografia. Opera lirica. Bibliografia
Cinema di Bruno Roberti. – La regia ‘digitale’. – Con il progredire delle tecnologie, con l’espandersi delle reti informaiche, del web, dei social network, dei siti virtuali dove si incamerano sempre più immagini, il nuovo millennio ha visto mutare i modi di vederle e quindi di crearle. Il linguaggio digitale ha così inciso sui nuovi stili di r. cinematografica, arrivando anche a darne una definizione nuova: la r. ‘digitale’, che sgancia il processo fotografico dal riferimento diretto alla riproduzione del reale, passando dai fotogrammi della pellicola ai frames digitali, e dunque virtuali, permettendo alla r. la fabbricazione di corpi e ambienti totalmente inventati e simulati. Da un lato, l’intermedialità e la confluenza dei media, l’interazione cinema-TV-web e l’orizzonte dei new media (estensione del film nel marketing, videogiochi, edizioni DVD con extra e ‘bonus’, come interviste, making-off, scene non montate ecc.) hanno determinato un sistema delle immagini che ha allargato le maglie dell’industria audiovisiva verso nuovi modelli produttivi, attenti sia al marketing del prodotto filmico, sia all’uso sempre più massiccio degli effetti visuali; dall’altro, si è formato un nuovo rapporto autore-spettatore, un pubblico che esige maggiore spettacolarità e coinvolgimento e insieme sperimenta una ‘interazione’ con il prodotto filmico. Le nuove telecamere digitali, sempre più maneggevoli e perfezionate, e i microdispositivi di ripresa dei cellulari e dei tablet permettono a chiunque la realizzazione, e il montaggio, di filmati a un costo ridottissimo, prescindendo anche dalla formazione di una troupe di ripresa. Si è così a sua volta polarizzato il processo della r.: da un lato film a basso budget che lasciano libertà e facilità di inventare un nuovo modo di raccontare ‘in presa diretta’ il reale (che hanno propiziato la rinascita di un ‘cinema del reale’ in grado di reinventare il modello documentaristico), dall’altro un cinema che amplifica gli effetti visivi e il grande spettacolo verso un intenso coinvolgimento dello spettatore: empatia, immersività, sensorialità ed emozionalità intensificate. Inoltre, la fluidità e il passaggio da un medium all’altro ha coinvolto i registi in realizzazioni che spostano e rilocano il prodotto-film in contesti diversi: dalle reti TV (con il fenomeno dei serial – v. serialità – che ridefiniscono il concetto di r. sottraendolo alle individualità autoriali), al cinema ‘espanso’ in spazi espositivi, come gallerie e musei (con il fenomeno del cinema installato, v., che invece restituisce all’autore una creatività più individualizzata).
Tutto ciò ha ridefinito l’estetica della r., il suo tessuto linguistico, i suoi modi espressivi, determinando nuovi stili e in sostanza radicalizzando il concetto d’autore: mettendolo in crisi e assorbendolo nel cosiddetto concept collettivo del film industriale, oppure liberandolo da costrizioni produttive e permettendo sperimentazioni e arditezze linguistiche, nel nome di un’indipendenza artistica consentita dai nuovi media leggeri. Sul piano espressivo si sono determinati: un nuovo senso del ritmo, nuovi modelli di narrazione spaziotemporale, una concezione di montaggio ‘complicato’, non lineare e cronologico. Sono emerse novità stilistiche che hanno configurato nuove forme di r.: mobilità della cinepresa, montaggio corto e serrato, frequenza dei primi e primissimi piani, uso diversificato delle lenti ottiche di ripresa, uso abbondante di tagli eccentrici e di effetti speciali, digitalizzazione dei corpi e degli ambienti, intensificazione stilistica del pathos e del movimento. Alcune figure linguistiche sono state ridefinite: come lo statuto della soggettiva, spinta all’estremo in senso immersivo e sin estetico. Si è assistito a una ridefinizione del paesaggio messo in scena e dello spazio dell’inquadratura, privilegiando ambientazioni inconsuete o mutate dagli effetti visivi digitali che permettono la creazione di mondi e scenografie sempre più fantastiche; ma anche alla dilatazione o alla compressione delle aree di ripresa (come nelle riprese aeree con i droni oppure nell’ingigantimento di dettagli con ottiche sempre più raffinate), nonché alla scelta di angolazioni inconsuete.
È emersa una diversa estetica della r. che si esprime nella compressione dello spazio-tempo, in un montaggio rapido, nella deformazione del corpo e dell’ottica, in traumi visuali, slittamenti delle identità dei personaggi e dei nessi narrativi, in una spinta ai limiti del visibile e del campo/inquadratura, nella proliferazione dei dettagli. Ciò ha prodotto due tendenze opposte: da un lato, l’estremizzazione della r. ad alto tasso spettacolare, la fantasmagoria sia nella direzione del grande intrattenimento, sia in quella dello scatenamento della fantasia visionaria dell’autore (nel cinema americano sono indicativi gli esempi di James Cameron, v., e Terrence Malick, v., e gli ultimi esiti di Martin Scorsese, v.), e, dall’altro, la radicalità formale che semplifica e scarnifica, anche programmaticamente, le forme (nel cinema europeo sono indicativi gli esempi dei fratelli Dardenne, v., e di Lars von Trier, v.).
Esemplare in tal senso l’uso che i registi contemporanei hanno fatto della tecnologia 3D (v. cinema: Tecnologia digitale): da un lato, con il cinema blockbuster ad alto tasso popolare e commerciale (soprattutto nel genere fantasy o science-fiction o nel cinema di animazione, sia negli Stati Uniti sia nei Paesi asiatici), dall’altro, con l’uso sperimentale delle immagini tridimensionali, o del digitale, in registi come Jean-Luc Godard (v.), Werner Herzog (v.), Wim Wenders, Aleksandr Sokurov (v.).
La r. cinematografica, negli anni Duemila, si è dunque diversificata in più direzioni, orientandosi verso un barocchismo delle immagini, o verso la semplificazione e l’estremizzazione del movimento: lunghi piani-sequenza, esasperazione delle durate e dei piani fissi o, al contrario, frenetica mobilità della camera, soggettive ‘impossibili’, con largo uso della steadycam (la macchina da presa agganciata al corpo dell’operatore) e della skycam (la macchina da presa sospesa in aria su supporti autonomi). L’eredità del cinema classico è stata fagocitata da tali estetiche postmoderne della r. provocando una sorta di slittamento tra classicità e post classicità, di assorbimento e rielaborazione dello stile classico in senso moderno (come nel cinema di Clint Eastwood, v.), e determinando un paradosso: è come se la r. cinematografica ritornasse alle origini ‘stupefacenti’ della fantasmagoria, alla libertà linguistica delle prime avanguardie, con il bagaglio delle nuove tecnologie e la voglia di esplorare visivamente ‘realtà virtuali’. Nuove forme di r. che ritornano al precinema e vanno al contempo ‘oltre il cinema’, verso un ‘postcinema’, per creare rinnovate prospettive di immagini.
Teatro di Rodolfo Sacchettini. – La parabola del teatro di regia. – Da Luchino Visconti e Orazio Costa, passando per Luigi Squarzina e Giorgio Strehler, arrivando a Massimo Castri e, infine, a Luca Ronconi (v.), il teatro di regia nelle sue tante nature ha segnato la seconda metà del Novecento. L’intero sistema dei Teatri stabili (nominati Teatri nazionali o Teatri di rilevante interesse culturale con il d.m. 1° luglio 2014) ha basato le proprie fondamenta sulla figura del regista che propone il testo e l’autore da mettere in scena, individua gli attori adatti, concepisce lo stile della rappresentazione, trasmette le motivazioni culturali di tutte le scelte artistiche, assume il compito di mediatore tra le ragioni della politica culturale e le motivazioni della scena. Il teatro di regia ha trovato, grazie ai suoi differenti interpreti, molteplici possibilità di espressione, soprattutto nel caso di Ronconi, che ha esplorato strade inedite di destrutturazione della scena. Nell’interpretazione delle opere letterarie la r. di Ronconi, da leggersi sempre come progetto culturale, ha fatto emergere i sottotesti, portando in superficie i significati meno evidenti e compiendo un vero e proprio atto critico; nell’utilizzo dello spazio ha concepito spesso grandi allestimenti in grado di reinventare i luoghi di partenza e di costruire architetture sceniche intimamente connesse al pensiero drammaturgico; nel lavoro con gli attori ha indicato una recitazione antinaturalistica, ma comunque sempre a servizio della parola. La recente scomparsa di Ronconi ha accentuato, anche simbolicamente, la parabola discendente del cosiddetto teatro di regia che, dagli anni Cinquanta in poi, ha prodotto episodi eccellenti in un teatro rimasto però in sostanza ‘all’italiana’, cioè dalla forte vocazione attoriale. Più che a una ‘scuola’ di registi si è perciò assistito, fin dagli anni Sessanta, all’emergere di uomini-teatro, o più tecnicamente di attori-autori, figure che su di sé hanno assunto anche le funzioni della r. e della drammaturgia (prima Eduardo De Filippo, poi Carmelo Bene, Dario Fo, Carlo Cecchi, Leo De Berardinis ecc.).
Con l’affermarsi, a partire dagli anni Settanta, del concetto di «scrittura scenica» (Giuseppe Bartolucci) il Nuovo teatro, nelle sue molteplici ondate, ha indicato e suggerito differenti strade per la r., ampliando il raggio d’azione e mettendo in discussione il concetto di rappresentazione teatrale. Da una parte, superato l’obbligo di fedeltà al testo drammaturgico, la r. si è potuta esprimere anche in interpretazioni critiche più libere e soggettive, in riletture e attualizzazioni; dall’altra, ha assunto un ruolo profondamente creativo, ponendosi come autrice assoluta dello spettacolo, perché artefice di ogni elemento teatrale, avvicinando il ruolo del regista teatrale a quello del regista cinematografico o dell’artista visivo. Queste due opzioni sono solo due limiti possibili in una sorta di ventaglio che, in anni recenti, è andato sempre più arricchendosi di sfumature. Dagli anni Ottanta a oggi perdura una pluralità di percorsi, per es., di autori-registi (da Marco Martinelli a Emma Dante, v.), di attori-registi (da Toni Servillo, v., ad Arturo Cirillo), di attori-autori-registi (da Franco Scaldati, Annibale Ruccello, Enzo Moscato a Claudio Morganti, Armando Punzo, Saverio La Ruina, Mimmo Borrelli ecc.), di registi in coppia con un dramaturg (Romeo Castellucci, v., e Chiara Guidi fino al 2005 per la Socìetas Raffaello Sanzio; Cesare Ronconi con Mariangela Gualtieri per Teatro Valdoca ecc.) o di registi puri (Federico Tiezzi, Andrea De Rosa, Antonio Latella e Massimiliano Civica ecc.).
Negli ultimi anni con l’affermarsi e il diffondersi di una nuova scena contemporanea si è assistito a una crisi del teatro di regia, o ‘declino’, come titola un recente saggio di Franco Cordelli. Ciò non ha determinato però il tramonto della r. teatrale, che rimane funzione essenziale nella composizione artistica. La nozione di r., a seconda del contesto o del percorso artistico cui si riferisce, può così assolvere nuovi compiti e assumere inedite caratteristiche. Il 20° sec. ha dimostrato che il tentativo di sintetizzare o di unificare le tante anime del teatro in un singolo processo non può che rivelarsi riduttivo o addirittura fallimentare. Le differenti storie ed estetiche hanno reso evidente che i percorsi vanno intesi in maniera plurale. Più che al ‘teatro’ è opportuno perciò pensare a ‘i teatri’ in un ambiente che per continuare a vivere, a esprimersi e a riprodursi, necessita di un’accentuata ‘biodiversità’. In questo senso la r. riflette in sé completamente le nature plurali del teatro, ne è specchio veritiero.
Regia e teatro postdrammatico. – Il 21° sec. si è aperto all’insegna di un’esplorazione ancora più marcata dei confini del teatro, soprattutto con l’assorbimento di modalità, immaginari, esperienze provenienti da altre arti (più il cinema della letteratura, più la letteratura della drammaturgia teatrale, più l’arte visiva della tradizione scenografica). Può essere la scena il luogo reputato idoneo per elaborare un linguaggio nuovo e ricco, oppure si scelgono spazi non convenzionalmente teatrali per sostenere e favorire l’incontro con la realtà circostante. Negli anni Duemila è cresciuta la presenza di compagnie e gruppi teatrali all’interno dei quali il regista opera inserito in un equilibrio complesso di forze e funzioni. Prevale non di rado una più ampia dicitura in locandina legata ‘all’ideazione o al concept’ cui si riconducono i fondatori della compagnia o il nome stesso del gruppo, lasciando alla regia un riferimento più tecnico. Oppure, al contrario, proprio alla r. si affida la sostanziale autorialità dello spettacolo, con l’indicazione della figura singola o addirittura del nome del gruppo, rivendicando così una sorta di r. collettiva.
L’articolata accezione di ‘regia’, riconducibile al secondo Novecento, si trova oggi in fase di profonda riformulazione. Gli anni Duemila hanno visto d’altronde mutare drasticamente le condizioni produttive dei teatri, con il declino culturale delle committenze degli Stabili e con l’emergere al contrario dei linguaggi specifici di differenti gruppi e compagnie, secondo estetiche largamente riconducibili al concetto di postdrammatico coniato da Hans-Thies Lehmann, in cui il testo è un elemento della messa in scena, ma non l’unico, né necessariamente il più importante. Ai principi classici della r. (compiutezza e unitarietà narrativa, costruzione del personaggio, statuto finzionale...) si contrappongono nuovi procedimenti, orientati in direzioni antimimetiche, antillustrative, cioè verso narrazioni complesse, frammentate, spesso con un’inclinazione all’eccesso e all’incompiutezza, costruite tramite la stratificazione di drammaturgie visive, musicali, corporali e non solo verbali.
In anni recenti perciò la ricerca di un’autorialità originale ha in gran parte prescisso dalle dinamiche della messa in scena di nuovi testi teatrali, secondo i principi canonici della regia. Al contrario si è sviluppata una molteplicità di approcci, per i quali, soprattutto nelle compagnie indipendenti, il ruolo della r., la funzione drammaturgica e la presenza attoriale hanno contribuito assieme a una ‘scrittura della scena’. La r. è perciò la storia dei percorsi intrapresi dai singoli registi a confronto spesso con un lavoro di compagnia, piuttosto che l’attuazione pratica di teorie o tradizioni.
Tra le figure più significative e influenti, anche a livello internazionale, si colloca Romeo Castellucci che negli anni Duemila (Tragedia Endogonidia, 2002-2004; Hey Girl!, 2006; Divina Commedia, 2008; Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, 2010) ha ribadito più volte la necessaria presenza in ogni spettacolo di una tensione drammaturgica, capace di pervadere tutti gli elementi del lavoro (parole, luci, suoni, gesti, corpi...) e allo stesso tempo di farsi il più possibile invisibile, per permettere allo spettatore un’azione creatrice predominante. È dato – secondo Castellucci – allo spettatore, più che all’artista, in un momento di saturazione delle immagini, il compito creativo di costruzione del senso, attraverso l’utilizzo artistico del montaggio. Montaggio e collage sono di fatto due procedimenti molto in uso tra i registi degli anni Duemila. Già sperimentati dalle avanguardie di inizio secolo queste due strategie, provenienti dal cinema e dall’arte visiva, permettono di creare discontinuità temporali e di inserire elementi eterogenei all’interno del testo o della scena, operando in direzione antimimetica. Accade di frequente che lo spettacolo sia costruito da un assemblaggio di differenti citazioni e da un’interpolazione di testi.
Proveniente dalle arti visive, Jan Fabre ha ibridato il linguaggio della body art con la scena teatrale e coreografica, costruendo uno stile spesso pieno di eccessi e dai tratti neo-barocchi, mettendo al centro la potenza estetica del corpo e mirando a un’opera d’arte integrale (Angelo della morte, 2003; Quando l’uomo principale è una donna, 2004). In stretta connessione all’universo cinematografico Robert Lepage ha realizzato invece grandi narrazioni storiche tramite un attento equilibrio tra video sofisticati, elaborate scenografie e complesse costruzioni drammaturgiche (The Andersen Project, 2005; Le dragon bleu, 2009). Mentre Heiner Goebbels (v.), compositore e musicista tedesco, ha saputo creare installazioni e performance nelle quali macchine sonore e dispositivi visivi sono andati a creare, più che un’ibridazione, un dialogo inedito tra linguaggi artistici specifici, soprattutto musicali (Stifters Dinge, 2007).
Ai confini del teatro: la regia degli anni Duemila. – In particolare è alla fine degli anni Novanta che l’universo cinematografico è entrato nella poetica di molte compagnie teatrali, soprattutto i cosiddetti Teatri ’90 (Fanny & Alexander, Motus, Masque teatro, Teatrino Clandestino ecc.), come immaginario di riferimento, citazione, serbatoio di tecniche possibili, dispositivo ottico. Rooms (2001-2002) di Motus, Postanovscik (2003) di Masque teatro, Madre e assassina (2004) di Teatrino Clandestino, Ada o ardore (2003-06) di Fanny & Alexander sono esempi di un teatro che può avvalersi di multiple proiezioni video, di sperimentazioni nelle tecniche digitali, di archeologia del cinema con il recupero artigianale di effetti da lanterne magiche, caleidoscopi, stereoscopi e così via. Il cinema funziona come mezzo per de-strutturare il codice della rappresentazione teatrale e costruire un linguaggio nuovo e ibrido, che si avvale di forti riferimenti visivi, mai tendenti all’astratto, piuttosto calati in una drammaturgia che procede per stratificazioni narrative complesse e antillustrative. Si ricerca una recitazione asciutta, lontana dalle sonorità del teatro di prosa, sempre giocata in bilico tra di finzione e realtà, sia nel caso di dialoghi iperrealistici e minimali, sia quando al contrario la scena è segnata da cifre espressioniste e visionarie. Il regista in questi casi riassume una centralità creatrice fondamentale, ma in stretta relazione con le dinamiche di compagnia e in particolare con il ruolo del drammaturgo e/o attore con il quale di solito, oltre ad aver fondato il gruppo, firma l’ideazione complessiva dello spettacolo (per es., Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per Teatro delle Albe, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò per Motus, Pietro Babina e Fiorenza Menni per Teatrino Clandestino, Luigi De Angelis e Chiara Lagani per Fanny & Alexander ecc.).
Sempre recuperando il cinema, ma tornando ai moduli di una r. costruita sulla centralità del testo e degli attori, opera in Germania Thomas Ostermeir che realizza grandi narrazioni a partire spesso da testi classici intrecciati a un immaginario pop (Hedda Gabler, 2005). In parallelo si può leggere il lavoro di Antonio Latella, orientato a rileggere testi di successo dello scorso secolo (Un tram che si chiama desiderio, 2012; Natale in casa Cupiello, 2014) con interpretazioni provocatorie, che mantengono però intatte le dinamiche della messa in scena.
In questi ultimi anni, soprattutto a livello europeo, nel tentativo anche di trovare strade differenti dal teatro di regia, si è diffusa la tendenza del ‘teatro documentario’, cioè un teatro a stretto contatto con la realtà, con l’intento specifico di ricercare un’autenticità narrativa ed emotiva distante dalle invenzioni della fiction. Con il coinvolgimento in scena di non professionisti, cittadini comuni o persone direttamente implicate con la storia evocata, il gruppo tedesco Rimini Protokoll (v.), per primo, e a seguire molte altre realtà, ha inteso il ruolo del regista al contempo come ricercatore sociale e artista visivo e concettuale. All’individuazione e allo studio di microcomunità, con l’attivazione dei principi dell’arte relazionale di Nicolas Bourriaud (v.), segue infatti la costruzione della scena tramite una sorta di recupero del ready made di Marcel Duchamp, applicato alla real life, o di straniato historical reenactment.
Da dj della realtà il regista, in casi sempre crescenti negli ultimi anni, si fa inoltre possibile costruttore di dispositivi e di micromondi, nei quali grazie al recupero delle teorie dei giochi, delle dinamiche proprie dei videogame (v.) e dei giochi di ruolo, lo spettatore interagisce attivamente. La diffusione di spettacoli che prevedono una nuova forma di partecipazione del pubblico (da Richard Maxwell a Roger Bernat, dai Forced Entertinment a Yan Duyvendak) rende il ruolo del regista più prossimo a un architetto o a un designer, interessato cioè a dare forma e a progettare opzioni e scelte per le dinamiche relazionali innescate all’interno dello spettacolo, per la messa a fuoco di un’arte immersiva, spesso in connessione, più o meno esplicita, con la rivoluzione del digitale.
Bibliografia: E. Fischer-Lichte, Ästhetik des Performativen, Frankfurt a.M. 2004 (trad. it. Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, Roma 2014); Il ruolo della regia negli anni Duemila, a cura di F. Quadri, R. Molinari, «Il Patalogo 28»,2005, pp. 224-63; C. Meldolesi, R.M. Molinari, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote, Milano 2007; «Brancaleone», 2007, 2, nr. monografico: Il cinema e il suo doppio; J. Rancière, Le spectateur émancipé, Paris 2008; Dossier Regia 2000, a cura di C. Cannella, «Hystrio», 2010, 4, pp. 33-59; M. De Marinis, Il teatro dopo l’età d’oro. Novecento e oltre, Roma 2013; F. Cordelli, Declino del teatro di regia, Spoleto 2014; A. Badiou, Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, a cura di F. Ceraolo, Cosenza 2015.
Opera lirica di Marco Stacca. – Arte della rappresentazione per antonomasia, la r. applicata all’opera segue o disattende la testualità
musicale. Se «in un’opera [...] è la musica il fattore primario che costituisce l’opera d’arte [...] in quanto dramma» (Carl Dahlhaus, Drammaturgia dell’opera italiana, 2005, p. 1), ed è quindi la partitura il testo di base formalizzato (opus) che asseconda il decorso temporale del dramma, la r. è un sovratesto che interpreta l’opera, trasforma il dramma in azione ed è funzionale alla riproducibilità dell’opus nel tempo. Ultimata la stagione «storica» (Petrobelli 2004, p. 951), che ha avuto Franco Zeffirelli fra i suoi esponenti, quella della «regia critica» di Luchino Visconti e Giorgio Strehler, durante la quale l’opera ha continuato ad assimilare i principali protagonisti del rinnovamento teatrale e del teatro di parola, e una volta menzionato Luca Ronconi (v.), che ha proposto spettacoli in bilico fra questi due orientamenti, oggi si assiste a una nuova fase: il regista, sempre più unico responsabile dello spettacolo, valica i confini dell’interpretazione e fa della r. un testo, di cui detiene la paternità autoriale, che prova a divincolarsi dai legami con l’opus. Ne conseguono due orientamenti possibili: una rilettura radicale dell’opus in grado di «far emergere strati di senso nascosti e aiutare la comprensione critica dell’opera» (Sala 2008, p. 54) o la creazione di un testo autonomo.
Nel primo caso la r. diventa un’operazione intellettuale che non recide però il legame né con l’opus né con la sua fonte letteraria: ne nasce una narrazione integrata che si intreccia all’opus, senza prevaricarlo e, nei casi più organici, avvalora la musica ed esalta la drammaturgia. Per es., Hugo de Ana nel Trovatore (Milano, 2001) ha indagato la convivenza di passato trasognato, racconto e presente frammentario. Ne sono scaturite un’ambientazione in cui coesistevano dimensione materica e pittorica e una r. che muoveva i personaggi su piani diversi, prediligendo la compenetrazione con i linguaggi del cinema. Willy Decker (v.) nella sua Traviata (Salisburgo, 2005) portava in scena la tensione verso la morte della protagonista. Da qui l’idea di un enorme orologio stagliato su un ciclorama bianco; esso è sì elemento del reale, ma è simbolo, esplicitava cioè la funzione drammatica del tempo nell’opera, ossia identificava la precarietà della vita della protagonista e inesorabilmente contava gli istanti che la separavano dalla fine. Esempi di narrazione integrata sono stati anche la Fille du régiment (Londra, 2007) di Laurent Pelly (v.), con l’uso delle cartine geografiche come cardine scenografico e una r. che seguiva con precisione la marzialità della musica, e Les Troyens (Milano, 2014) di David McVicar (v.), dove il metallo della testa del cavallo (elemento drammatico utilizzato in chiave simbolica) e del robot rappresentavano il Male, cieco e violento, votato alla distruzione.
L’intellettualizzazione che muove il secondo orientamento porta a una testualità che surclassa l’opus e in cui la performance diventa «un atto di emancipazione da condursi contro il testo, o prescindendo da esso» (Sala 2008, p. 56). Evoluzione del Regietheater, che aveva avuto il suo manifesto nel Ring (Bayreuth, 1976) di Patrice Chérau (v.), è oggi uno stile di rilevanza transnazionale: nei casi più equilibrati la r. è un sovratesto, nei più ambiziosi una nuova testualità talmente autonoma e creativa da fondare una seconda drammaturgia dissociata dall’opus, che talvolta sfocia nella riscrittura scenica di sezioni dell’opera. Per es., il Medio Oriente del Die Entführung aus dem Serail (Salisburgo, 1997) di François Abou Salem diventava un microcosmo irto di trincee e fili spinati in cui i sentimenti erano impediti dai mitra, ma dove, nel finale, trovava posto la tolleranza umana. Peter Konwitschny, nel Tristan und Isolde (Monaco, 1998), eliminava ogni referente metafisico per ricondurre l’opera al triangolo borghese, delegando alla musica il compito di trasfigurare l’ambiente e la vicenda. Matthias Langhoff riscriveva parzialmente il Don Giovanni (Genf, 1999): il rapporto servo-padrone assumeva risvolti razziali, Anna non opponeva alcuna resistenza alle avances e il commendatore, non ucciso ma infilzato da alcune sbarre, ritornava nel finale non come statua, ma come robot. Al di là di una preferenza manifesta, quanto drammaturgicamente immotivata, per la traslazione delle ambientazioni agli anni Trenta-Quaranta del Novecento (si vedano il Macbeth, Parma, 2001, di Dominique Pitoiset e il Poliuto ‘nazista’, Sassari, 2010, di Marco Spada), è l’utilizzo episodico del tema del sesso ad accomunare allestimenti di registi ‘creatori’. Calixto Bieito ha reso invece tale tema un cardine della propria estetica performativa, asservendovi la drammaturgia dell’opera, procedendo per contrasto con la musica e riscrivendo parti dell’opus. Così, nel suo violento e brutale Don Giovanni (Londra, 2001), il commendatore riemergeva coperto di sangue dal cofano della macchina ove era stato segregato all’inizio, il libertino, una volta completata l’opera iniziata nel primo atto, veniva pugnalato a turno dagli altri personaggi, durante il fugato finale; nel Ballo in maschera (Barcellona, 2002) postfranchista, «l’orrido campo» di Ulrica era in realtà un bordello; nella Traviata (Hannover, 2003) Annina, da cameriera, diventava amante di Violetta, la quale fingeva di essere tisica per disfarsi così di Alfredo e di Giorgio Germont; nel Die Entführung aus dem Serail (Berlino, 2004), all’insegna delle depravazioni più oscene, Selim era possessivo e violento, Konstanze e Blonde, obbligate alla prostituzione, si liberavano di lui con le armi e la prima trovava la libertà solo nel suicidio finale.
Entrambi gli orientamenti registici, nei casi più equilibrati, svelano il sostrato metaforico che sottende l’opus, esplicitano i meccanismi drammatici, liberandoli dagli elementi costitutivi della metafora: valicando, più o meno liberamente, qualunque confine imposto dall’opus, il regista, generalmente sfiduciato nei confronti delle potenzialità della musica e della capacità critica del pubblico, trasforma i personaggi in uomini contemporanei nei quali lo spettatore deve riconoscere situazioni emotive identiche alle proprie.
La r. lirica ha accolto anche artisti provenienti da esperienze differenti dal teatro drammatico, come la danza o il cinema. Occorre quindi ricordare Bob Wilson (Orfeo e Incoronazione di Poppea, Milano, 2001 e 2014; Aida, Londra, 2003), fautore di un teatro di immagini dove il vuoto prevarica sul pieno, s’intrecciano la lezione del minimalismo, l’uso della luce come strumento scenografico e la gestualità del teatro kabuki e dove la sinergia fra queste componenti trasforma l’opera in un’iperbole rituale. Legati a nomi della r. storica (Zeffirelli) e critica (Visconti), fra i registi cinematografici prestati alla lirica occorre ricordare Cristina Comencini (La traviata, Firenze, 2000), Marco Bellocchio (Rigoletto, Piacenza, 2004), Michele Placido (Don Giovanni, Torino, 2005), Woody Allen (Gianni Schicchi, Spoleto, 2009), Antonio Albanese (Le convenienze e inconvenienze teatrali, Milano, 2009), Ferzan Özpetek (Aida, Firenze, 2011; La traviata, Napoli, 2012). Ricorre a strumenti filmici, ma affiancati a una destinazione d’uso televisiva, il progetto liveness di Andrea Andermann, Nei luoghi e nelle ore, che ha visto il ritorno alla r. lirica di Bellocchio (Rigoletto a Mantova, 2010) e Carlo Verdone (Cenerentola, una favola in musica, 2012), ma che era stato avviato fin dal 1992 con la Tosca diretta da Giuseppe Patroni Griffi, regista anche della successiva Traviata à Paris (2000).
In conclusione, si segnalano allestimenti o registi che utilizzano, con fini drammatici o puramente estetizzanti, le possibilità tecnologiche offerte dalla visual art. Fra di loro Peter Sellars, che nel suo Tristan und Isolde (Parigi, 2005) focalizzava l’attenzione del pubblico non sulla musica ma sulle sole proiezioni di Bill Viola (dedicate al rapporto uomo-natura); Paolo Miccichè (che utilizza moving lights e proiettori double-scrolling per proiettare scenari dinamici su supporti scenici ad hoc); David Livermore (La Bohème, Valencia, 2012), Pier’Alli (Moïse et Pharaon, Roma, 2010) e Robert Carsen (Don Giovanni, Milano, 2011; v.).
Bibliografia: C. Deshoulières, La regia moderna di opere del passato, in Enciclopedia della musica, a cura di J.-J. Nattiez, 2° vol., Il sapere musicale, Torino 2002, pp. 1029-63; P. Petrobelli, La regia dell’opera: lettura storica o interpretazione attuale, in Enciclopedia della musica, a cura di J.-J. Nattiez, 4° vol., Storia della musica europea, Torino 2004, pp. 951-55; F. Perrelli, La seconda creazione. Fondamenti della regia teatrale, Torino 2005; M. Brug, Opernregisseure heute: mit ausfürlichen Lexikonteil, Lieipzig 2006; P. Gallarati, Mimesi e astrazione nel teatro musicale, in R. Alonge, La regia teatrale. Specchio e brame della modernità, Bari 2007, pp. 175-88; P. Petrobelli, A. Rostagno, Come si racconta il teatro musicale, in Parlare di musica, a cura di S. Pasticci, Roma 2008, pp. 130-45; E. Sala, Dalla mise en scène ottocentesca alla regia moderna: problemi di drammaturgia musicale, «Musica/realtà», 2008, 85, pp. 41-56; G. Guccini, La regia lirica, livello contemporaneo della regia teatrale, «Turin D@ms Review», 2010, 33, 2, pp. 1-22; Dossier. Regia lirica, a cura di G. Montemagno, «Hystrio», 2010, 1, pp. 32-56; E. Baker, From the score to the stage. An illustrated history of continental opera production and staging, Chicago 2013.