Scultore e architetto greco di Paro (n. 390 circa a. C. - m. 330 circa), forse figlio dello scultore Aristandro. Dovette prendere parte alla decorazione del Mausoleo di Alicarnasso, di cui eseguì le sculture del lato orientale (353-351); ricostruì, dopo la metà del secolo, il tempio di Atena Alea a Tegea, incendiato nel 395-394; molto dubbia è invece la sua partecipazione alla decorazione dell'Artemisio di Efeso, bruciato nel 356 e non ancora compiuto nel 334. Si dovette recare molto giovane ad Atene, ove perfezionò tecnica e metodi scultorei già acquisiti in patria, assimilando, accanto a spunti attici, motivi peloponnesiaci, in particolare policletei. Al 370-360 deve risalire una sua statua di Apollo, portata da Augusto a Roma, nel tempio di Apollo Palatino, nota da copie di età romana e dalla sua raffigurazione su una base di Sorrento. Attorno al 360 si data una statua bronzea di Eracle, forse dedicata nel ginnasio presso l'agorà di Sicione, della quale resta una replica, già nella coll. Lansdowne e ora presso il J. P. Getty Museum di Malibu.: a ritmo e impianto di tipo policleteo si sposano un'anatomia esasperata e una pateticità del volto del tutto originali. Fra le lastre con l'amazzonomachia provenienti dagli scavi inglesi del monumento si è voluta riconoscere l'impronta scopadea in alcune che mostrano interessanti motivi, come l'amazzone cavalcante a ritroso o l'amazzone a piedi quasi nuda, che vibra un colpo con ambo le mani. Caposaldo per la conoscenza dello stile di S. sono le, purtroppo frammentarie, sculture rinvenute a Tegea, appartenenti al tempio marmoreo descritto da Pausania come periptero, anfiprostilo, esastilo; le colonne della peristasi erano doriche, le semicolonne interne della cella corinzie. Il frontone est rappresentava la caccia al cinghiale Calidonio, quello ovest il combattimento fra Greci, guidati da Achille, e Asiatici, guidati da Telefo, nella pianura del Caico. Alcune delle teste rinvenute mostrano uno stile pieno di pathos, caratterizzato dalle cavità orbitali profondamente incavate, dalla struttura quadrata del volto, e da numerose altre notazioni patetiche. Questo stesso stile si riscontra in una figura di Meleagro fusa in bronzo da S. tra il 345 e il 340, di cui possediamo varie repliche, tra le quali le migliori sono quelle di Villa Medici a Roma e di Cambridge (Mass.): l'inquieta passionalità è resa sia dai tratti del volto che dalla complessità di ritmi del corpo. Il temperamento dinamico, esuberante e patetico che S. infonde alle sue opere culmina nella Menade da lui creata intorno al 330, dominata dal furore dionisiaco (il tipo è noto da una statuetta frammentaria a Dresda, che richiama, nel ritmo e nella resa del panneggio, alcune amazzoni del Mausoleo). Nello stesso momento si pone l'altro capolavoro dello scultore, il Pòthos, la passione amorosa, che faceva parte di un gruppo con Eros e Himeros dedicato a Megara (S. eseguì anche un'altra redazione dello stesso soggetto): la figura, nota da repliche, ha un ritmo sinuoso determinato dalle gambe incrociate, che esprime, insieme al volto dagli occhi profondamente incavati, un momento di malinconia e di tensione. Più incerti rimangono i tentativi di ricercare in copie altri originali perduti di S., come Asclepio e Igea a Tegea e a Gortina in Arcadia; un'Ecate ad Argo; due Erinni ad Atene; un Ermete, una Estia, delle Canefore; un'Artemide Èukleia, un'Atena Prònaia in Tebe; un'Afrodite Pàndemos in Elide; la cosiddetta ara di Domizio Enobarbo ci serba un'eco lontana forse di un gruppo di Nettuno, Tetide ed esseri marini che era nel tempio del dio nel circo Flaminio. I problemi espressivi impostati da S. saranno poi sviluppati nell'arte ellenistica.