Vedi Siria dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
A causa della guerra civile che ha sconvolto il paese a partire dal 2011 la Siria non può essere più considerata un’unica entità statuale. Mentre infatti circa metà del territorio che un tempo faceva parte dello stato siriano (come le città di Damasco, Latakia, Homs e le principali vie di comunicazione che le collegano) sono ancora saldamente sotto il controllo del regime guidato da Bashar al-Assad – presidente di tutta la Siria fino allo scoppio del conflitto – ampie regioni, soprattutto nel nord e nell’est del paese, sono oggi sotto il controllo di numerosi gruppi armati riconducibili ai gruppi di opposizione che nel 2011 – sull’onda della cosiddetta ‘Primavera araba’ – hanno dato vita alla ribellione contro l’ultra-quarantennale regime degli Assad. Un discorso a parte va fatto inoltre per quell’ampia parte di territorio, che dai confini nord-orientali con l’Iraq arriva in alcuni punti fino alla frontiera turca, controllato dallo Stato islamico (Is), formazione jihadista (precedentemente conosciuta come Isis), che dopo essersi scissa dall’organizzazione-madre al-Qaida nel 2013, ha proclamato la formazione del nuovo Califfato islamico nei territori da essa controllati in Siria e nell’Iraq occidentale. Fino al 2011, prima di disintegrarsi a causa del conflitto civile, la Siria è stata uno dei paesi più importanti del Medio Oriente. Il paese possedeva infatti una serie di peculiarità che lo rendevano unico nella regione, sia dal punto di vista storico sia rispetto alle dinamiche geopolitiche contemporanee. Situata tra Iraq, Turchia, Libano, Israele e Giordania, la Siria ha sempre giocato un ruolo di fondamentale importanza nella definizione degli equilibri regionali. Prima di essere spartita tra Regno Unito e Francia in seguito al cosiddetto accordo Sykes-Picot, firmato durante la Prima guerra mondiale per definire le rispettive sfere di influenza sul Medio Oriente, la regione siriana, sotto l’Impero ottomano, includeva anche l’attuale Libano. Ottenuta l’indipendenza dal mandato francese nel 1946, subì diversi colpi di stato. La svolta avvenne con la nascita del partito panarabista Ba’th, dalle cui fi la è emersa la figura di Hafez al-Assad che, nel 1970, ha preso il potere con un ennesimo golpe e lo ha mantenuto fino alla morte, nel 2000. Hafez al-Assad ha governato con il pugno di ferro, ben coperto dalle sue istanze laiciste: la rivolta scoppiata nel 1982 e sostenuta dai Fratelli musulmani, fu soffocata in un bagno di sangue che culminò con la strage degli abitanti di Hama (secondo l’agenzia «Reuters» potrebbero essere stati uccisi 30.000 cittadini). Alla sua morte, ha preso la guida del paese il figlio Bashar, che ha subito deluso le speranze di un processo di democratizzazione, nonostante le vaste aperture iniziali di credito. Nel periodo della Guerra fredda, la Siria era definita la ‘Cuba del Medio Oriente’, dal momento che rappresentava il satellite più importante dell’Unione Sovietica nella regione, soprattutto in contrapposizione alla filo-occidentale Turchia. Nel periodo successivo alla Guerra fredda Damasco ha affrontato una complessa transizione durante la quale ha fortificato la propria alleanza con l’Iran formando il cosiddetto ‘Fronte della resistenza’, che comprende anche Hezbollah in Libano. Questa alleanza politico-strategica ha avuto come scopo principale la costituzione, all’interno della regione mediorientale, di un polo alternativo a paesi come l’Egitto di Hosni Mubarak e le monarchie del Golfo, strettamente legate all’Occidente, e in particolare agli Stati Uniti e Israele, considerati fautori di una politica imperialista. L’alleanza Hezbollah-Siria-Iran si è trovata in numerose occasioni in contrapposizione con Usa ed Europa su numerosi fronti, quali la questione del programma nucleare iraniano, l’assassinio nel 2005 di Rafi q Hariri – il leader libanese sostenuto dall’Arabia Saudita – e la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006.
La politica estera del presidente Bashar al-Assad dal 2005 ha mirato in primo luogo a consolidare di fronte alla comunità internazionale la propria legittimità, indebolita dalle accuse di aver avuto parte attiva nell’attentato contro il premier libanese Hariri. Funzionali a questo scopo sono stati il ritiro delle truppe dal Libano, il nuovo ruolo di stabilizzazione giocato nell’Iraq post-bellico e i tentativi di negoziati indiretti con Israele attraverso la mediazione turca. Lo stato ebraico ha sempre rappresentato il vicino più problematico per la Siria, dal momento che i due paesi risultano ancora formalmente in guerra, dopo aver già combattuto due conflitti armati nel 1967 e nel 1973. Fino allo scoppio della guerra civile, le possibilità di un nuovo scontro non erano del tutto scongiurate. Anche i rapporti con Washington avevano visto un parziale riavvicinamento, con la visita del segretario di stato Hillary Clinton nel 2010 e l’invio di un nuovo ambasciatore americano a Damasco dopo anni di assenza.
Fattore centrale della nuova politica regionale siriana era anche costituito dal rilancio delle relazioni con la Turchia, paese confinante con cui la Siria aveva avuto rapporti tradizionalmente molto tesi a causa dell’adesione ai due opposti blocchi durante la Guerra fredda. Ankara e Damasco si erano rese protagoniste di un progressivo e profondo avvicinamento che – riguardando i settori energetico, economico, politico e strategico – aveva sollecitato un’asse di cooperazione di primaria importanza nello scacchiere regionale. Tale relazione privilegiata è stata però messa in discussione dalla repressione del regime siriano nei confronti della popolazione durante la rivolta scoppiata nel 2011, a seguito della quale il governo turco ha pubblicamente condannato il governo di Assad. A partire dal 2011 – in concomitanza con lo scoppio di diverse rivolte popolari in tutto il mondo arabo che hanno portato alla fine di decennali regimi come quello di Ben Ali in Tunisia e quello di Mubarak in Egitto – la Siria è scivolata progressivamente nel caos per una rivolta degenerata in pochi mesi in guerra civile.
Nel confronto che oggi contrappone la maggioranza sunnita al regime di Assad, che si è sempre posto come ‘protettore’ delle minoranze religiose del paese (alauita, cristiana, sciita), le istanze laiche e democratiche hanno via via perso terreno, mentre le atrocità si sono moltiplicate su entrambi i fronti fino a creare una delle maggiori catastrofi umanitarie della contemporaneità. A velocizzare la degenerazione settaria del conflitto si è aggiunto l’intervento di numerosi gruppi della galassia jihadista internazionale, giunti in Siria da molte parti del mondo: ciò ha conferito alla ribellione un carattere marcatamente religioso. In più il sostegno logistico e militare fornito al regime di Assad da parte del gruppo sciita libanese Hezbollah e dall’Iran ha internazionalizzato il conflitto configurandolo sempre più all’interno della rivalità settaria tra sciiti e sunniti che da decenni caratterizza la regione.
Il carattere non locale della guerra è stato ribadito dall’intervento di potenze regionali come Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Turchia che hanno sostenuto l’opposizione, mentre, appunto, l’Iran e, in misura minore, l’Iraq hanno sempre sostenuto con forza l’alleato Assad. Sul piano internazionale, Assad ha ricevuto il determinante aiuto della Russia di Vladimir Putin che si è opposta numerose volte in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a qualsiasi risoluzione potesse prevedere un intervento dell’Un contro il regime. L’opposizione, che dalla fine del 2012 viene rappresentata dalla Coalizione nazionale siriana (Cns), ha ricevuto sostegno politico dall’Occidente (in particolare da Usa, Francia e Regno Unito). I paesi occidentali si sono però mostrati sempre più riluttanti a fornire all’Esercito libero siriano (Els) armamenti pesanti con il crescere della presenza dei jihadisti. Una momentanea inversione di tendenza è avvenuta alla fine dell’agosto 2013, quando numerosi attivisti hanno parlato di uso di armi chimiche durante un attacco condotto (secondo la maggior parte delle fonti) dall’esercito di Assad, che ha ucciso oltre 1400 persone. Il presidente americano Barack Obama, che nel 2012 aveva posto come ‘linea rossa’ insuperabile per il regime siriano l’uso delle armi chimiche, è arrivato molto vicino a ordinare un intervento ‘punitivo’. Si è poi tirato indietro dopo la defezione del Regno Unito e il raggiungimento di un accordo con il regime di Damasco per lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano, grazie alla mediazione russa. Ciò ha permesso al regime di Damasco di evitare un confronto militare con le forze occidentali da cui difficilmente sarebbe uscito indenne.
Nel frattempo il protrarsi della situazione di stallo negli equilibri tra le forze in campo ha portato all’inizio del 2014 all’emergere dell’Is (Stato islamico), gruppo armato composto da jihadisti di varia provenienza ed erede di Aqi (al-Qaida in Iraq) che, dopo essersi dissociato da al-Qaida e dal suo leader Ayman Al-Zawahiri nel 2013, ha portato a termine una serie di brillanti operazioni militari che gli hanno permesso di controllare ampie porzioni di territorio tra l’Iraq e la Siria. L’emergere di Is come nuova formazione leader del terrorismo jihadista internazionale ha riportato il conflitto siriano all’attenzione del mondo e in particolare degli Stati Uniti che nella seconda metà del 2014 hanno formato una coalizione composita di stati occidentali (fra cui Italia, Germania, Francia, Regno Unito) e mediorientali (fra cui Arabia Saudita, Uae, Qatar, Giordania, Turchia) che ha lanciato una campagna di bombardamenti aerei sia in Iraq sia in Siria finalizzata a fermare l’avanzata di Is e coadiuvare forze locali che la fronteggiano sul terreno come i curdi peshmerga in Iraq e i miliziani curdi del Pyd (braccio siriano del Pkk turco) in Siria. La coalizione anti-Is viene indirettamente sostenuta anche dall’Iran e dai suoi alleati per quanto nessuno di essi ne faccia parte ufficialmente. Il regime siriano, per quanto abbia cercato di approfittare dei bombardamenti americani per riconquistare alcuni territori sotto il controllo dell’Is, non è stato ufficialmente interpellato dagli Stati Uniti per concedere il proprio permesso o il proprio supporto ai raid aerei.
La popolazione siriana, composta da quasi 23 milioni di persone, aveva registrato, prima della guerra civile, una notevole crescita rispetto agli anni Novanta (12 milioni di abitanti). Il tasso di crescita era elevato (3,26% tra il 2005 e il 2010), così come il tasso di fecondità (pari, nel 2010, a 2,9 figli per donna). Inoltre, più del 50% della popolazione aveva meno di 22 anni.
La maggior parte della popolazione è araba, vi è poi una cospicua minoranza curda (circa il 10%) e minoranze turcomanne, assire e armene. I curdi siriani non hanno avuto diritto allo status di cittadini siriani fino al 2011, quando il presidente Assad ha concesso loro la cittadinanza. La Siria ha ospitato fino all’inizio del conflitto civile una delle comunità di rifugiati più ampie del mondo, composta, secondo le stime dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), da mezzo milione di palestinesi e più di un milione di iracheni.
Gli alauiti, corrente minoritaria dell’islam sciita cui aderisce la famiglia del presidente Assad, costituiscono solo il 14% della popolazione, ma hanno detenuto finora le leve della politica nazionale. La maggioranza della popolazione è musulmano-sunnita (72%). Vi sono cospicue minoranze di cristiani (12%) e drusi (3%). La Costituzione garantisce la libertà religiosa, generalmente rispettata, ma prevede che il presidente debba essere musulmano. Gli appartenenti ai movimenti politico-religiosi di ispirazione islamica, come i Fratelli musulmani, erano considerati fuorilegge già prima del conflitto civile.
Sebbene le varie etnie e comunità religiose del paese abitassero tradizionalmente in zone specifiche – o in determinati quartieri delle grandi città – a partire dall’indipendenza si era assistito a un notevole amalgamarsi tra i diversi gruppi, soprattutto all’interno dei grandi centri urbani. Il conflitto civile scoppiato nel 2011 – che a fine 2014 ha causato oltre 200.000 vittime accertate – ha però spinto a fuggire circa un quarto della popolazione all’interno dello stesso territorio nazionale. Il fenomeno dei ‘rifugiati interni’ è stato caratterizzato da uno svuotarsi dei quartieri e delle zone abitate dalle minoranze, i cui membri hanno spesso preferito trovare riparo nelle zone in cui la propria comunità è maggioritaria. Infine, circa 2,2 milioni di rifugiati sono espatriati, soprattutto verso i campi profughi di Turchia, Giordania, Libano e Iraq, mentre una parte rilevante della popolazione più benestante si è trasferita in Egitto o nei paesi occidentali.
Il tasso di alfabetizzazione è piuttosto elevato (85,1%), soprattutto per i giovani (più del 90% sia per gli uomini sia per le donne). La disparità di genere nell’istruzione andava riducendosi: la proporzione di bambine iscritte alla scuola primaria rispetto ai bambini era salita dal 90,3% nel 2004 al 95,6% nel 2009. La guerra civile ha sconvolto tutto. Secondo il rapporto «Syria Crisis: Education interrupted» , promosso dall’Unicef e pubblicato nel dicembre 2013, dal 2011 circa 3 milioni di bambini hanno smesso di andare a scuola per colpa dei combattimenti e questo ha annullato le conquiste della decade precedente.
Dal 1963 al 2011 in Siria è stato in vigore un decreto legislativo che imponeva lo stato di emergenza in presenza di una minaccia all’integrità dello stato. Ciò ha permesso al governo di effettuare arresti arbitrari di oppositori politici, attivisti per i diritti umani e giornalisti. Il decreto è stato poi revocato durante le rivolte iniziate nel 2011, nel tentativo di venire incontro alle richieste dei manifestanti.
La Costituzione garantisce teoricamente le libertà di espressione e di stampa, che però erano molto limitate anche prima dell’aggravarsi della guerra civile. Una legge del 2001 vieta di svelare informazioni su questioni di sicurezza nazionale e di unità nazionale, a pena di sanzioni elevate. Nel 2008 gli utenti internet – mezzo sempre più usato dai giornalisti, ma anch’esso controllato dal governo – erano il 17,3%. La rete ha rappresentato uno dei veicoli di comunicazione e organizzazione più efficienti per i manifestanti durante le rivolte del 2011 e tra i gruppi combattenti ribelli dopo la militarizzazione della rivolta.
Oggi la popolazione siriana vive una delle crisi umanitarie più gravi dell’ultimo secolo. Anche se mancano stime ufficiali riguardanti i ‘rifugiati interni’ (ovvero coloro che sono fuggiti dalle loro case verso altre zone del territorio siriano) le agenzie internazionali li stimano in più di 4 milioni. Informazioni più precise esistono invece riguardo i numeri dei siriani rifugiatisi all’estero, soprattutto nei paesi limitrofi. Secondo l’Unhcr il totale dei rifugiati siriani ammonterebbe al gennaio 2015 a 4 milioni di persone di cui oltre 1,4 milioni in Libano, 1,5 milioni in Turchia, 700 mila in Giordania, oltre 300 mila in Iraq e circa 140 mila in Egitto. Alcune migliaia hanno inoltre raggiunto l’Europa, diretti soprattutto verso i paesi nordici come la Svezia, che ha concesso l’asilo politico automatico ai rifugiati siriani.
Fino all’inizio del conflitto la Siria è stata un modesto produttore ed esportatore di petrolio, anche se nell’ultimo lustro aveva dovuto affrontare il costante declino della produzione, sviluppando altri settori dell’economia. L’industria del petrolio, del gas e del fosfato rappresentava comunque la principale risorsa economica assieme al settore agricolo, che contava per il 21% del pil e contribuiva alle esportazioni di prodotti agricoli, cotone e tessili. Il turismo rappresentava un’altra risorsa importante, mentre fino al 2011 stavano acquisendo sempre maggior peso i servizi finanziari (nel 2009 la Borsa di Damasco ha iniziato a operare dopo 46 anni di chiusura), le telecomunicazioni e il commercio. Il legame con l’Unione Sovietica ha influenzato l’economia pianificata siriana sino all’inizio degli anni Novanta. Da allora era stato invece avviato un processo di liberalizzazione e privatizzazione. Il dibattito era stato tuttavia acceso nell’ambito del partito Ba’th e le riforme avevano proceduto lentamente. Nel settore bancario, la prima banca privata ha aperto nel 2004, seguita da altre, ma la Banca centrale siriana ha continuato per certi aspetti a vincolarne il budget e le strategie imprenditoriali. Nel settore petrolifero, la compagnia siriana, braccio del ministero per il petrolio e le risorse minerarie, controlla circa la metà della produzione nazionale, anche se gli investimenti esteri (tra cui Shell e l’impresa cinese Cnpc) erano stati importanti per incrementare i livelli di produzione. La Siria aveva attratto meno investimenti esteri rispetto ad altri paesi del Medio Oriente, a causa di infrastrutture inadeguate e di una diffusa corruzione. Il paese aveva fatto richiesta di adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2001, ma gli Usa avevano mostrato dei segnali di apertura soltanto negli anni precedenti il conflitto civile, per esempio acconsentendo a concedere al paese lo status di osservatore nel maggio 2010. L’economia siriana non aveva risentito particolarmente della crisi del 2009 e aveva registrato, nell’anno successivo, una crescita del 4%. Prima dell’inizio del conflitto il sistema economico era ancora relativamente chiuso, sebbene il paese avesse rapporti commerciali con i vicini Iraq, Turchia, Libano ed Egitto, ma anche con Cina e Unione Europea (Germania e Italia in primis) – primo partner commerciale della Siria con 5,4 miliardi di dollari di interscambio nel 2009 (equivalenti al 23% del commercio siriano). Il commercio con gli Stati Uniti era invece limitato dalle sanzioni. Secondo i dati dell’Undp del 2005, il 30% dei siriani (più di 5 milioni) viveva in povertà, mentre l’11% in estrema povertà. Tale dato è legato anche alle limitate risorse idriche e all’impatto di fenomeni come la siccità e la desertificazione, che hanno conseguenze negative sulla produzione agricola e contribuiscono al processo di ‘urbanizzazione della povertà’. Il pil pro capite, pari a circa 4.700 dollari prima della guerra, era già tra i più bassi dei paesi del Medio Oriente. Certamente la miseria è stata tra le cause della rivolta. Ma la guerra ha fatto precipitare la situazione: il pil nazionale, secondo stime dell’Economist Intelligence Unit, è crollato del 14,4% nel 2012 e del 13,9% nel 2013.
La Siria produceva quantità modeste di petrolio: 400.000 barili al giorno nel 2009, crollati a 20.000 nel 2013 quando gran parte dei giacimenti sono caduti nelle mani dei ribelli. Già prima si trattava di una produzione ben limitata rispetto ai vicini del Golfo Persico e il declino avrebbe comunque reso in futuro il paese un importatore netto. Per compensare tale fattore nel mix energetico, il paese prevedeva di aumentare la produzione di gas (circa 7 miliardi di metri cubi nel 2009), avendo riserve per 280 miliardi di metri cubi. La Siria è collocata in una posizione strategica per il transito del gas: ciò sarebbe stato di grande vantaggio. Nel 2008 è stato aperto il collegamento in Siria dell’Arab Gas Pipeline (proveniente dall’Egitto) e vi erano progetti – tutti bloccati – di approfondire la cooperazione regionale con l’espansione dei gasdotti verso Turchia, Iraq e Iran. In base a un accordo con la Turchia del 2009, con l’apertura della sezione Siria-Turchia dell’Arab Gas Pipeline la Siria avrebbe potuto importare quasi un miliardo di metri cubi di gas. L’obiettivo sarebbe stato quello di diventare uno stato di transito per il gas egiziano, iracheno, iraniano e potenzialmente dell’Azerbaigian, traendo così maggiori entrate e aumentando la propria disponibilità di gas.
Il lento processo di modernizzazione economica e infrastrutturale è stato però drasticamente interrotto dal conflitto civile che ha distrutto gran parte dell’industria e delle infrastrutture. In particolare la caduta dei principali pozzi petroliferi e delle infrastrutture di raffinazione nelle mani dei ribelli prima e dello Stato islamico poi ha reso questi siti bersaglio dei bombardamenti della coalizione anti-Is causandone la quasi totale distruzione. Secondo la commissione delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali dell’Asia occidentale, la spesa a cui si andrebbe incontro per la ricostruzione è di oltre 80 miliardi di dollari, di cui 28 solo per rifare 1,2 milioni di case dotate di infrastrutture. Un tale sforzo comporterebbe anche problemi dal punto di vista del reperimento delle materie prime; servirebbero quasi 30 milioni di tonnellate di cemento all’anno – più di tre volte la quantità di cui il paese necessitava prima dell’inizio del conflitto – per produrre le quali occorrerebbe più di un miliardo di metri cubi d’acqua, una risorsa preziosa e scarsa in Siria. Secondo il report 2013 del Carnegie Endowment for International Peace anche le strutture industriali e le infrastrutture sono inservibili. Le cifre ufficiali hanno parlato, per il 2013, di un’inflazione al 68%, ma nella realtà il tasso è di gran lunga superiore. A fine 2013 l’Unione Europea ha stanziato la cifra record di 147 milioni di euro per sostenere le popolazioni vittime del conflitto.
L’apparato militare siriano era ritenuto non all’avanguardia, soprattutto considerando che il maggiore fornitore di armi di Damasco è stata storicamente l’Unione Sovietica. Come retaggio della presenza sovietica, inoltre, la Siria ospita una base navale nel porto di Tartous, che è operativa come base mediterranea della Federazione Russa. Nel corso della guerra civile l’esercito siriano è stato nuovamente equipaggiato con armamenti di derivazione sovietica piuttosto obsoleti, anche se, soprattutto in virtù delle sue dotazioni aereonautiche e di artiglieria pesante, è tuttora tatticamente di gran lunga superiore alle forze ribelli che lo combattono. Damasco ha inoltre un discreto arsenale missilistico, grazie alla collaborazione nel settore con Iran e Corea del Nord. Tra il 2012 e il 2013 l’esercito siriano è stato molto danneggiato dalle defezioni, soprattutto dei soldati semplici e degli ufficiali di grado più basso, appartenenti alla comunità sunnita. Ciò ha spinto Assad a contare sempre di più sulle proprie truppe speciali, e soprattutto sulla guardia presidenziale, un corpo d’élite composto quasi totalmente da alauiti e comandato dal fratello Maher al-Assad. Il fatto di poter contare su un numero assai ristretto di uomini fidati ha comportato l’impossibilità per l’esercito regolare di controllare completamente il territorio: all’inizio del 2013 il regime ha quasi totalmente perso il controllo del nord del paese e di buona parte della città di Aleppo. Il resto del paese è controllato a macchia di leopardo, con ampie zone del territorio lasciate ai ribelli o alle truppe dello Stato islamico e, nel nord-est, alle milizie curde. Le forze del regime al momento si concentrano nella capitale e sul controllo delle principali vie di comunicazione nord-sud. Durante il 2012 l’esercito siriano è arrivato a un passo dal confronto militare con la Turchia, a causa di un’escalation di tensione politica che ha raggiunto il suo apice in seguito all’esplosione di alcuni colpi di mortaio in territorio turco, che hanno ucciso cinque civili. In seguito a questo episodio e alla recrudescenza degli attacchi dei gruppi ribelli curdi in Turchia – che secondo il governo del primo ministro Erdoğan erano direttamente sostenuti da Damasco – Ankara aveva chiesto alla Nato il supporto per l’installazione di batterie di missili a lunga gittata Patriot sul confine siriano a scopo di deterrenza. L’altro confine storicamente delicato – soprattutto a causa della contesa sulle alture del Golan – è quello con lo stato di Israele, che si è mantenuto perlopiù neutrale durante tutto il conflitto civile in corso, limitandosi a minacciare un intervento militare qualora l’arsenale chimico di cui Assad disponeva rischiasse di cadere nelle mani di estremisti ostili a Tel Aviv, oppure di Hezbollah.
Dopo aver subito pesanti sconfitte nel 2012 a opera dell’opposizione, l’esercito del regime si è trovato nel 2013 in una posizione di forza. L’accordo sullo smantellamento delle armi chimiche raggiunto con le potenze occidentali nel settembre 2013 e il successivo accordo di Ginevra con l’Iran ha di fatto comportato un raffreddamento dei rapporti fra i gruppi armati ribelli e le potenze internazionali che li avevano fino a quel momento sostenuti. L’emergere dell’Is come minaccia regionale e internazionale ha però portato alla ribalta la questione dell’armamento dell’opposizione moderata di cui gli Stati Uniti si sono presi carico rifiutando di instaurare, almeno ufficialmente, rapporti diplomatico-militari con il regime di Assad ma coordinando con lui gli sforzi della coalizione anti-Is. Soprattutto la Turchia ha insistito nel porre come condizione alla propria partecipazione alla coalizione un fermo impegno da parte delle forze che ne fanno parte a dirigere i propri sforzi diplomatico-militari anche all’abbattimento del regime di Assad, impegno che tuttavia gli Stati Uniti rifiutano di prendere apertamente. Di fatto, comunque, il regime ha nettamente usato a proprio vantaggio le operazioni militari della coalizione anti-Is alleggerendo il proprio impegno nei territori occupati dallo Stato Islamico e ri-direzionando i propri sforzi contro il resto dell’opposizione non estremista.
Situato nella fascia nord-orientale del paese, il Kurdistan siriano è noto tra la popolazione curda semplicemente con il termine Rojava, ‘occidente’, in quanto rappresenta la parte occidentale della nazione curda, il cui territorio è diviso fra Turchia, Iraq, Iran e, appunto, Siria. Secondo stime non ufficiali i curdi rappresentano circa il 10% della popolazione, anche se il loro numero reale non è noto alle autorità. Fino al 2011, i curdi non hanno goduto della cittadinanza siriana e non sono stati conteggiati nelle statistiche ufficiali. Dopo l’inizio della rivolta nel 2011 il regime ha però repentinamente deciso di concedere loro la cittadinanza per evitare che si unissero alle forze ribelli. Questo tacito accordo di non belligeranza fra curdi e regime ha retto durante i tre anni di conflitto e si è poi tradotto in un controllo de facto dei territori a maggioranza curda da parte del Pyd (dall’acronimo curdo per Partito di Unione Democratica, il ramo siriano del Pkk turco). Le milizie del Pyd hanno spesso combattuto contro le fazioni fondamentaliste dei ribelli che desideravano appropriarsene (soprattutto nella regione attorno a Dayr az-Zwar, dove si trovano i pozzi petroliferi della Siria). La pressoché totale autonomia goduta dall’inizio del conflitto dalle regioni a maggioranza curda sotto il controllo del Pyd ha portato nel novembre 2013 alla pubblicazione della ‘Carta del contratto sociale’, un documento che ha sancito di fatto l’indipendenza dei territori curdi, e la loro trasformazione in una entità federale costituita da tre cantoni autonomi. Questo esperimento di autogoverno del Kurdistan siriano ha attirato l’attenzione degli osservatori internazionali per le sue peculiari caratteristiche, assai diverse da quelle dei sistemi politici tipicamente mediorientali. L’‘esperimento di Rojava’ – come è stato comunemente definito – è infatti caratterizzato da un capillare sistema di assemblee ed elezioni locali, da un forte coinvolgimento dei singoli cittadini nella vita pubblica nonché dalla presenza anche all’interno della sua Carta costituzionale di un deciso accento sui valori laici, sulla parità di genere e sulla protezione ambientale, caratteristiche inedite per qualunque sistema politico della regione, che hanno portato molti a paragonarlo alle sperimentazioni politiche del Chapas zapatista
Jabhat al-Nusra e lo Stato islamico (Is) sono le due principali organizzazioni che rappresentano il network di al-Qaida nel conflitto siriano. La loro presenza, per quanto numericamente minoritaria rispetto alla somma delle forze che combattono il regime di Bashar al-Assad, è stata però fonte di crescenti preoccupazioni sia a livello regionale, sia a quello internazionale. Le due organizzazioni sono in parte composte da combattenti di professione, veterani di diversi scenari di guerra come la Libia, l’Afghanistan o l’Iraq, e sono dotate di reti di finanziamento autonome e ben collaudate. Lo Stato islamico, in particolare, è emerso a metà del 2014 come una vera e propria minaccia regionale grazie alle fulminee vittorie ottenute sia sul fronte siriano sia su quello iracheno che gli hanno assicurato il controllo su un enorme territorio che dal nord della Siria arriva fino alle porte di Baghdad. Ciò è stato reso possibile dalle grandi doti organizzative e militari della sua leadership, affinate durante il conflitto che tra il 2006 e il 2008 ha opposto l’Is – che allora si chiamava al-Qaida in Iraq (Aqi), guidata da Abu Musab al-Zarkawi – alle forze statunitensi in quegli anni ancora di stanza in Iraq. L’Is ha saputo infatti usare al meglio le lezioni tattiche e l’addestramento appresi da quella sconfitta, approfittando dell’occasione offerta dallo scoppio del conflitto siriano. Quest’ultimo ha infatti permesso a Is di conquistare territori in Siria per poi utilizzare la profondità strategica da essi offerta per lanciare una travolgente offensiva in territorio iracheno a metà del 2014, durante la quale le sue forze sono giunte a occupare Mosul, seconda città del paese. L’autoproclamazione a Califfo da parte del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi ha di fatto lanciato una sfida diretta alla tradizionale leadership di al-Qaida all’interno del panorama del jihadismo internazionale. Tra le due organizzazioni, invece, Jabhat al-Nusra (nome completo Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham, Fronte al-Nusra per il sostegno alle genti del Levante) è sicuramente il gruppo più radicato all’interno della società siriana. È nato in Siria nel gennaio 2012 sotto la guida di Abu Mohammad al-Jawlani, jihadista siriano che ha raggruppato intorno a sé un gruppo di militanti sia locali sia internazionali. Il gruppo si è distinto immediatamente per le sue capacità militari, grazie all’esperienza e all’addestramento degli affiliati. Uno dei tratti specifici di al-Nusra è stata la capacità di attirare anche molti siriani tra le sue fila, comprese persone che non si identificavano con la cultura religiosa salafita. Molti nuovi combattenti hanno affermato di avere aderito perché il gruppo sarebbe il solo in grado di garantire un adeguato addestramento e armamenti sufficienti per combattere con efficacia il regime. Lo stesso non può essere invece affermato dell’Is, il quale è stato assai meno in grado di farsi accettare dalla popolazione locale e che rimane composto soprattutto da combattenti stranieri. All’inizio del 2012 il leader dell’allora Stato islamico in Iraq Abu Bakr al-Baghdadi aveva affermato che Jabhat al-Nusra non era altro che il ramo siriano della sua organizzazione. Pur confermando l’appartenenza ad al-Qaida, la leadership di al-Nusra aveva però subito smentito di far capo all’organizzazione di al-Baghdadi. Per questo l’esponente politico iracheno avrebbe deciso di creare l’Is e di iniziare a operare anche in territorio siriano. Oggi i rapporti fra le due organizzazioni rimangono ambigui. Schermaglie armate sono infatti state registrate per il controllo delle zone petrolifere della Siria mentre in altre occasioni – per esempio durante le incursioni dei due gruppi nel territorio libanese controllato da Hezbollah – le due formazioni hanno collaborato pur rimanendo distanti sul piano delle fedeltà avendo la leadership di Al-Nusra più volte ribadito la propria lealtà ad al-Qaida e al suo leader Ayman al-Zawahiri
L’accordo sulla distruzione dell’arsenale chimico siriano è stato raggiunto nel settembre 2013 in seguito alla Risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza dell’Un. Tale risoluzione incaricava l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) di mettere in atto, entro il giugno 2014, il suo piano di individuazione e distruzione dell’arsenale chimico detenuto dal regime siriano. L’accordo è il risultato di un intenso lavoro diplomatico della Russia. Mosca intendeva infatti evitare che Usae Francia dessero esecuzione concreta alla minaccia di bombardare obiettivi sensibili del regime siriano in seguito all’attacco con armi chimiche, avvenuto nel sobborgo damasceno di Ghouta e costato la vita a circa 1.400 persone. Questo attacco aveva rappresentato, secondo l’amministrazione americana, il superamento della ‘linea rossa’ fissata da Barack Obama nel 2012 nei confronti del regime di Bashar al-Assad. Il presidente statunitense aveva ingiunto al regime di non ricorrere per alcun motivo all’uso di armi di distruzione di massa nei confronti dei ribelli e della popolazione civile. Le autorità di Damasco hanno da subito accusato l’opposizione di aver organizzato l’attacco di Ghouta per provocare l’intervento americano. Le prove raccolte dagli ispettori Un nei giorni seguenti sembrerebbero però confermare la colpevolezza del regime.
Bashar al-Assad è un uomo fortunato. Lo è perché, dopo essere rimasto a lungo soltanto un secondogenito in ombra, si è visto regalare la presidenza da un incidente stradale che ha tolto di mezzo Basil al-Assad, suo fratello maggiore e delfino del padre. Ma lo è soprattutto perché, in qualche modo, ogni volta che commette enormi errori di calcolo nella sua gestione del potere, emerge immediatamente un salvifico intreccio d’interessi internazionali che lo toglie dai guai. Era successo già nel 2005. Lo spettacolare omicidio di Rafik Hariri, primo ministro libanese anti-siriano saltato in aria nel centro di Beirut, non aveva portato a quella svolta politica favorevole a Damasco e ai suoi alleati locali (Hezbollah) in cui probabilmente speravano gli autori dell’attentato. Era esplosa, invece, l’indignazione della popolazione locale e della comunità internazionale portando alla cacciata delle truppe di Damasco dal paese dei cedri. L’attentato contro Hariri, di cui, anche se forse non era direttamente responsabile, il regime siriano non poteva non essere a conoscenza, si era rivelato un clamoroso autogol per Assad e sembrava aver relegato la Siria al ruolo di paria sulla scena internazionale. Lo scacco alla classe dirigente del regime era stato grande, e il rischio di delegittimazione interna era concreto. Ma entro un paio d’anni un inaspettato salvagente venne lanciato al giovane dittatore, quando la Francia del presidente Nicolas Sarkozy, che da tempo cercava un ventre molle nel Mediterraneo da cui partire per costruirsi un ruolo di protagonista nella regione, decise che sdoganare Assad le avrebbe permesso di guadagnare a buon mercato un alleato strategico nel cuore del Medio Oriente. La Francia fece da apripista, e uno dopo l’altro gli altri stati europei tornarono a considerare Assad un interlocutore autorevole: nel marzo 2010, l’Italia lo nominò addirittura cavaliere di gran croce, decorato di gran cordone dell’ordine al merito della Repubblica italiana (onorificenza ritirata in gran fretta dal presidente Giorgio Napolitano nell’ottobre 2012 su sollecitazione di 22 senatori). Difficile dire se Assad avesse compreso di aver fatto un grande errore di calcolo che solo per caso si era risolto a suo favore. Di sicuro questa vicenda non l’ha reso più scaltro politicamente. Qualche anno dopo, nel 2011, quando le prime proteste spuntarono anche in Siria dopo aver travolto Tunisia, Libia e Egitto, il dittatore di Damasco fece ancora una volta un errore. Era il 30 marzo 2011 e c’erano appena state le prime manifestazioni nel corso delle quali era stata chiesta rispettosamente qualche riforma e la fine dello stato di emergenza. Bashar al-Assad apparve di fronte al parlamento siriano. Chi osservava e conosceva bene la Siria era convinto che avrebbe concesso qualche riforma cosmetica per accontentare un paese che in fondo aveva ancora fede nella sua volontà di riformare nel lungo termine il regime. Il discorso fu invece una farsa. I manifestanti furono definiti terroristi, nessuna riforma fu annunciata e la protesta venne liquidata come eterodiretta e criminale. La spirale che s’innescò in seguito si racconta da sé. Nuove manifestazioni, nuovi scontri, morti e feriti in un vortice inarrestabile, fino alla vera e propria guerra civile. Chiunque abbia seguito questi quattro anni di tragedia siriana sa che quella data ha cambiato tutto. Il dittatore aveva avuto una chance, ma non era stato in grado di vederla e di agguantarla. A fine 2014, quasi quattro anni dopo, un paese semidistrutto, 250.000 morti e oltre 3 milioni di rifugiati, sembra che la sua fortuna e il suo cinismo stiano di nuovo salvando Bashar dal suo autoprocurato destino. Nell’agosto 2013 un insensato quanto brutale attacco chimico aveva portato l’America sul punto di sferrare un attacco che poteva risultare decisivo contro Damasco. Solo il capolavoro diplomatico di Vladimir Putin – insieme all’Iran il più importante alleato di Assad – che aveva portato all’accordo per la distruzione delle armi chimiche di Assad aveva evitato il peggio. A un anno di distanza sono nuovamente i bombardieri americani che potrebbero risultare determinanti per i destini del regime, anche se questa volta in senso diametralmente opposto. L’offensiva sferrata dall’America e dai suoi alleati contro le postazioni dello Stato islamico – formazione nata in Iraq a metà degli anni Duemila e diffusasi in Siria durante il conflitto anche grazie alla cinica strategia del regime siriano che per lungo tempo ha evitato di bombardarne le postazioni in modo da poterla utilizzare come strumento politico contro l’Occidente – sta infatti giocando a favore del regime che in più di una occasione ha potuto approfittare dei raid americani per riappropriarsi di territori perduti da anni e per disimpegnare forze preziose e concentrarle contro le zone controllate da quel che resta dell’opposizione laica. Ma è soprattutto dal punto di vista dell’immagine che la nuova campagna anti-Is potrebbe risollevare le sorti del regime di Assad. Essa ha infatti permesso al dittatore di Damasco di mettere in ombra almeno in parte il recente passato di repressione e violenza e di apparire nuovamente di fronte al mondo come il difensore dei principi di laicità contro la barbarie dell’estremismo religioso. Non sono pochi, infatti, gli osservatori occidentali che, non senza qualche ragione, dichiarano l’impossibilità di poter portare a termine con successo l’offensiva contro le forze dell’autoproclamato califfato senza la coordinazione con il regime di Damasco e le sue forze armate. Un riconoscimento di fatto finora rifiutato dall’amministrazione Obama, ma che potrebbe arrivare quanto prima se le forze curde e degli altri alleati locali dovessero dimostrarsi insufficienti a contrastare l’offensiva del nuovo califfo. Anche se implicitamente, ciò porterebbe Assad a diventare un alleato strategico di quell’Occidente che negli ultimi quattro anni ha tentato in più modi di sancire la sua fine e lo trasformerebbe in un prezioso baluardo della ‘civiltà’ contro la barbarie. Non male, per uno dei dittatori più sanguinari del Medio Oriente