Vedi Siria dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
A causa della guerra civile che ha sconvolto il paese a partire dal 2011 la Siria non può essere più considerata un’unica entità statuale. Mentre infatti circa metà del territorio che un tempo faceva parte dello stato siriano (come le città di Damasco, Latakia, Homs e le principali vie di comunicazione che le collegano) sono ancora saldamente sotto il controllo del regime guidato da Bashar al-Assad – presidente di tutta la Siria fino allo scoppio del conflitto – ampie regioni, soprattutto nel nord e nell’est del paese, sono oggi sotto il controllo di numerosi gruppi armati. Alcuni di essi sono riconducibili ai gruppi di opposizione che nel 2011 – sull’onda delle cosiddette ‘Primavere arabe’ – hanno dato vita alla ribellione contro l’ultra-quarantennale regime degli Assad. Un discorso a parte è invece necessario per quell’ampia parte di territorio, che dai confini nord-orientali con l’Iraq arriva in alcuni punti fino alla frontiera turca, controllato dallo Stato islamico (Is), formazione jihadista (precedentemente conosciuta come Isis), che dopo essersi scissa dall’organizzazione-madre al-Qaida nel 2013, ha proclamato la formazione del nuovo Califfato islamico nei territori da essa controllati in Siria e nell’Iraq occidentale.
Fino al 2011, prima di disintegrarsi a causa del conflitto civile, la Siria è stata uno dei paesi più importanti del Medio Oriente. Il paese possedeva infatti una serie di peculiarità che lo rendevano unico nella regione, sia dal punto di vista storico sia rispetto alle dinamiche geopolitiche contemporanee. Situata tra Iraq, Turchia, Libano, Israele e Giordania, la Siria ha sempre giocato un ruolo di fondamentale importanza nella definizione degli equilibri regionali. Prima di essere spartita tra Regno Unito e Francia in seguito al cosiddetto ‘accordo Sykes-Picot’ - firmato durante la Prima guerra mondiale per definire le rispettive sfere di influenza sul Medio Oriente - la regione siriana, sotto l’Impero ottomano, includeva anche l’attuale Libano. Ottenuta l’indipendenza dal mandato francese nel 1946, subì diversi colpi di stato. La svolta avvenne con la nascita del partito panarabista Ba’th, dalle cui fila è emersa la figura di Hafez al-Assad che, nel 1970, prese il potere attraverso un golpe e lo ha mantenuto fino alla morte, nel 2000. Hafez al-Assad ha governato con il pugno di ferro, reprimendo con estrema violenza ogni contestazione al suo potere: la rivolta scoppiata nel 1982 e sostenuta dai Fratelli musulmani, fu soffocata in un bagno di sangue che culminò con la strage degli abitanti di Hama (secondo l’agenzia Reuters potrebbero essere stati uccisi 30.000 civili).
Alla sua morte, ha preso la guida del paese il figlio Bashar il quale, nonostante qualche iniziale accenno di apertura democratica culminato nella breve esperienza della ‘Primavera di Damasco’ nel 2000-2001 ha ben presto chiuso a qualsiasi serio processo di democratizzazione procedendo alla repressione delle voci di dissenso emerse nel primo anno del suo potere. Durante la Guerra fredda, la Siria era definita la ‘Cuba del Medio Oriente’, dal momento che rappresentava il satellite più importante dell’Unione Sovietica nella regione, soprattutto in contrapposizione alla filo-occidentale Turchia. Nel periodo successivo alla Guerra fredda Damasco ha affrontato una complessa transizione durante la quale ha fortificato la propria alleanza con l’Iran formando il cosiddetto ‘Fronte della resistenza’, che comprende anche Hezbollah in Libano. Questa alleanza politico-strategica ha avuto come scopo principale la costituzione, all’interno della regione mediorientale, di un polo alternativo a paesi come l’Egitto di Hosni Mubarak e le monarchie del Golfo, strettamente legate all’Occidente, e in particolare agli Stati Uniti e Israele. L’alleanza Hezbollah-Siria-Iran si è trovata in numerose occasioni in contrapposizione con Usa ed Europa su numerosi fronti, quali la questione del programma nucleare iraniano, l’assassinio nel 2005 di Rafiq Hariri – il leader libanese sostenuto dall’Arabia Saudita – e la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006.
La politica estera del presidente Bashar al-Assad dal 2005 ha mirato in primo luogo a consolidare di fronte alla comunità internazionale la propria legittimità, indebolita dalle accuse di aver avuto parte attiva nell’attentato contro il premier libanese Hariri. Funzionali a questo scopo sono stati il ritiro delle truppe dal Libano, il nuovo ruolo di stabilizzazione giocato nell’Iraq post-bellico e i tentativi di negoziati indiretti con Israele attraverso la mediazione turca. Lo stato ebraico ha sempre rappresentato il vicino più problematico per la Siria, dal momento che i due paesi risultano ancora formalmente in guerra, dopo aver già combattuto due conflitti armati nel 1967 e nel 1973.. Anche i rapporti con Washington avevano visto un parziale riavvicinamento, con la visita del segretario di stato Hillary Clinton nel 2010 e l’invio di un nuovo ambasciatore americano a Damasco dopo anni di assenza.
Fattore centrale della nuova politica regionale siriana era anche costituito dal rilancio delle relazioni con la Turchia, paese confinante con cui la Siria aveva avuto rapporti tradizionalmente molto tesi a causa dell’adesione ai due opposti blocchi durante la Guerra fredda. Ankara e Damasco si erano rese protagoniste di un progressivo e profondo avvicinamento che – riguardando i settori energetico, economico, politico e strategico – aveva sollecitato un’asse di cooperazione di primaria importanza nello scacchiere regionale. Tale relazione privilegiata è stata però messa in discussione dalla repressione del regime siriano nei confronti della popolazione durante la rivolta scoppiata nel 2011, a seguito della quale il governo turco ha pubblicamente condannato il governo di Assad. A partire dal 2011 – in concomitanza con lo scoppio di diverse rivolte popolari in tutto il mondo arabo– la Siria è scivolata progressivamente nel caos per una rivolta degenerata in pochi mesi in guerra civile.
Nel confronto che oggi contrappone l’opposizione - composta soprattutto della maggioranza sunnita del paese - al regime di Assad, che si è sempre posto come ‘protettore’ delle minoranze religiose del paese (alauita, cristiana, sciita), le istanze laiche e democratiche hanno via via perso terreno, mentre le atrocità si sono moltiplicate su entrambi i fronti fino a creare una delle maggiori catastrofi umanitarie della contemporaneità. A velocizzare la degenerazione settaria del conflitto si è aggiunto l’intervento di numerosi gruppi della galassia jihadista internazionale, giunti in Siria da molte parti del mondo: ciò ha conferito alla ribellione un carattere marcatamente religioso. In più, il sostegno logistico e militare fornito al regime di Assad da parte del gruppo sciita libanese Hezbollah e dall’Iran ha internazionalizzato il conflitto, configurandolo sempre più all’interno della rivalità settaria tra sciiti e sunniti che da decenni caratterizza la regione.
Il carattere non locale della guerra è stato ribadito dall’intervento di potenze regionali come Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Turchia che hanno sostenuto l’opposizione; mentre, appunto, l’Iran e, in misura minore, l’Iraq hanno sempre sostenuto con forza l’alleato Assad. Sul piano internazionale, Assad ha ricevuto il determinante aiuto della Russia di Vladimir Putin che si è opposta numerose volte in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a qualsiasi risoluzione potesse prevedere un intervento dell’Un contro il regime e che a partire dal settembre 2015 è intervenuta direttamente a sostegno dell’alleato siriano con la propria aeronautica militare. L’opposizione, che dalla fine del 2012 viene rappresentata all’estero dalla Coalizione nazionale siriana (Cns), ha ricevuto sostegno politico dall’Occidente (in particolare da Usa, Francia e Regno Unito). I paesi occidentali si sono però mostrati sempre più riluttanti a fornire all’Esercito libero siriano (Els) armamenti pesanti con il crescere della presenza di estremisti tra le fila dell’opposizione. Una momentanea inversione di tendenza è avvenuta alla fine dell’agosto 2013, quando numerosi attivisti hanno parlato di uso di armi chimiche durante un attacco condotto (secondo la maggior parte delle fonti) dall’esercito di Assad, che ha ucciso oltre 1400 persone. Il presidente americano Barack Obama, che nel 2012 aveva posto come ‘linea rossa’ insuperabile per il regime siriano l’uso delle armi chimiche, è arrivato molto vicino a ordinare un intervento ‘punitivo’. Si è poi tirato indietro dopo la defezione del Regno Unito e il raggiungimento di un accordo con il regime di Damasco per lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano, grazie alla mediazione russa. Ciò ha permesso al regime di Damasco di evitare un confronto militare con le forze occidentali da cui difficilmente sarebbe uscito indenne.
Nel frattempo, il protrarsi della situazione di stallo negli equilibri tra le forze in campo ha portato all’inizio del 2014 all’emergere dell’Is (Stato islamico), gruppo armato composto da jihadisti di varia provenienza ed erede di Aqi (al-Qaida in Iraq) che, dopo essersi dissociato da al-Qaida e dal suo leader Ayman Al-Zawahiri nel 2013, ha portato a termine una serie di brillanti operazioni militari che gli hanno permesso di controllare ampie porzioni di territorio tra l’Iraq e la Siria. L’emergere di Is come nuova formazione leader del terrorismo jihadista internazionale ha riportato il conflitto siriano all’attenzione del mondo. In particolare degli Stati Uniti che, nella seconda metà del 2014, hanno formato una coalizione composita di stati occidentali (fra cui Italia, Germania, Francia, Regno Unito) e mediorientali (fra cui Arabia Saudita, Uae, Qatar, Giordania, Turchia) e ha lanciato una campagna di bombardamenti aerei sia in Iraq sia in Siria, finalizzata a fermare l’avanzata di Is e coadiuvare le forze locali che la fronteggiano sul terreno, come i curdi peshmerga in Iraq e i miliziani curdi del Pyd (braccio siriano del Pkk turco) in Siria. La coalizione a guida americana non ha però ottenuto i risultati sperati riuscendo solo a rallentare l’espansione di Is ma non riuscendo a infliggergli danni decisivi. Nel frattempo, nel 2015 il regime di Assad ha subito gravi sconfitte sia a opera dei ribelli sia a opera di Is che ha occupato la città di Palmira, con l’importante sito archeologico annesso. Il pericolo di un collasso definitivo del regime sembra aver spinto la Russia a intervenire in suo sostegno. I militari russi hanno riattrezzato le basi militari siriane di Tartus e Latakia, e iniziato le proprie operazioni militari nel settembre 2015. Pur dichiarando la propria volontà di colpire l’avanzata di Is, la gran parte delle operazioni russe è stata diretta contro l’opposizione al regime di Assad, al fine di puntellarne la stabilità e porlo in una posizione di forza in future negoziazioni. Nel frattempo, la storica firma dell’accordo sul nucleare iraniano avvenuta nel luglio 2014 fra Iran e il gruppo del P5+1 – i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania - ha inasprito le tradizionali tensioni fra Iran e Arabia Saudita. Riyadh ha infatti giudicato la firma dell’accordo come un segnale di raffreddamento dei rapporti con lo storico alleato americano dal quale l’avversario iraniano avrebbe notevolmente guadagnato. Ciò ha portato la leadership saudita a irrigidire la propria posizione sui teatri regionali che la vedono contrapposta a Teheran, compresa la Siria. Le negoziazioni iniziate a Vienna alla fine dell’ottobre dello stesso anno e fortemente sostenute da Russia e Stati Uniti hanno conosciuto qualche progresso, con il raggiungimento di un’intesa per la convocazione di un tavolo negoziale nella seconda metà nel 2015. Nel dicembre dello stesso anno, l’Un ha adottato una risoluzione che sostiene tale iniziativa.
Prima della guerra civile, la popolazione siriana era composta da quasi 23 milioni di persone e aveva registrato una notevole crescita rispetto agli anni Novanta (12 milioni di abitanti). Il tasso di crescita era elevato (3,26% tra il 2005 e il 2010), così come il tasso di fecondità (pari, nel 2010, a 2,9 figli per donna). Inoltre, più del 50% della popolazione aveva meno di 22 anni.
La maggior parte della popolazione è araba, vi è poi una cospicua minoranza curda (circa il 10%) e minoranze turcomanne, assire e armene. I curdi siriani non hanno avuto diritto allo status di cittadini siriani fino al 2011, quando il presidente Assad ha concesso loro la cittadinanza. La Siria ha ospitato fino all’inizio del conflitto civile una delle comunità di rifugiati più ampie del mondo, composta, secondo le stime dell’Unhcr, da mezzo milione di palestinesi e più di un milione di iracheni.
Gli alauiti, corrente minoritaria dell’islam sciita cui aderisce la famiglia del presidente Assad, costituiscono solo il 14% della popolazione, ma hanno detenuto finora le leve della politica nazionale. La maggioranza della popolazione è musulmano-sunnita (72%). Vi sono cospicue minoranze di cristiani (12%) e drusi (3%). La Costituzione garantisce la libertà religiosa, generalmente rispettata, ma prevede che il presidente debba essere musulmano. Gli appartenenti ai movimenti politico-religiosi di ispirazione islamica, come i Fratelli musulmani, erano considerati fuorilegge già prima del conflitto civile.
Sebbene le varie etnie e comunità religiose del paese abitassero tradizionalmente in zone specifiche – o in determinati quartieri delle grandi città – a partire dall’indipendenza si era assistito a un notevole amalgamarsi tra i diversi gruppi, soprattutto all’interno dei grandi centri urbani. Il conflitto civile scoppiato nel 2011 – che a fine 2015 ha causato oltre 250.000 vittime accertate – ha però spinto a fuggire circa un quarto della popolazione all’interno dello stesso territorio nazionale. Il fenomeno dei ‘rifugiati interni’ è stato caratterizzato da uno svuotarsi dei quartieri e delle zone abitate dalle minoranze, i cui membri hanno spesso preferito trovare riparo nelle zone in cui la propria comunità è maggioritaria. Infine, circa 4,5 milioni di rifugiati sono espatriati, soprattutto verso i campi profughi di Turchia, Giordania, Libano e Iraq. Mentre in precedenza il numero di profughi diretto verso l’Europa era relativamente marginale, a partire dal 2015 il notevole aumento delle partenze dalla Siria e la decisione della Turchia di permettere ai profughi di proseguire il viaggio verso l’Europa hanno determinato l’afflusso di circa un milione di persone verso i paesi europei. La maggior parte di esse è stata assorbita dalla Germania, il cui governo nel settembre 2015 ha dichiarato di sospendere l’Accordo di Dublino e di accettare automaticamente le richieste d’asilo dei profughi siriani.
Il tasso di alfabetizzazione è piuttosto elevato (85,1%), soprattutto per i giovani (più del 90% sia per gli uomini sia per le donne). La disparità di genere nell’istruzione andava riducendosi: la proporzione di bambine iscritte alla scuola primaria rispetto ai bambini era salita dal 90,3% nel 2004 al 95,6% nel 2009. La guerra civile ha sconvolto tutto. Secondo il rapporto ‘Syria Crisis: Education interrupted’, promosso dall’Unicef e pubblicato nel dicembre 2013, dal 2011 circa 3 milioni di bambini hanno smesso di andare a scuola per colpa dei combattimenti e questo ha annullato le conquiste della decade precedente.
Dal 1963 al 2011 in Siria è stato in vigore un decreto legislativo che imponeva lo stato di emergenza in presenza di una minaccia all’integrità dello stato. Ciò ha permesso al governo di effettuare arresti arbitrari di oppositori politici, attivisti per i diritti umani e giornalisti. Il decreto è stato poi revocato durante le rivolte iniziate nel 2011, nel tentativo di venire incontro alle richieste dei manifestanti.
La Costituzione garantisce teoricamente le libertà di espressione e di stampa, che però erano molto limitate anche prima dell’aggravarsi della guerra civile. Una legge del 2001 vieta di svelare informazioni su questioni di sicurezza nazionale e di unità nazionale, a pena di sanzioni elevate. Nel 2014 gli utenti internet – mezzo sempre più usato dai giornalisti, ma anch’esso controllato dal governo – erano il 28,1%. La rete ha rappresentato uno dei veicoli di comunicazione e organizzazione più efficienti per i manifestanti durante le rivolte del 2011 e tra i gruppi combattenti ribelli dopo la militarizzazione della rivolta.
Fino all’inizio del conflitto la Siria è stata un modesto produttore ed esportatore di petrolio, anche se nell’ultimo lustro aveva dovuto affrontare il costante declino della produzione, sviluppando altri settori dell’economia. L’industria del petrolio, del gas e del fosfato rappresentava comunque la principale risorsa economica assieme al settore agricolo, che contava per il 21% del pil e contribuiva alle esportazioni di prodotti agricoli, cotone e tessili. Il turismo rappresentava un’altra risorsa importante, mentre fino al 2011 stavano acquisendo sempre maggior peso i servizi finanziari (nel 2009 la Borsa di Damasco ha iniziato a operare dopo 46 anni di chiusura), le telecomunicazioni e il commercio. Il legame con l’Unione Sovietica ha influenzato l’economia pianificata siriana sino all’inizio degli anni Novanta. Da allora era stato invece avviato un processo di liberalizzazione e privatizzazione. Il dibattito era stato tuttavia acceso nell’ambito del partito Ba’th e le riforme avevano proceduto lentamente. Nel settore bancario, la prima banca privata ha aperto nel 2004, seguita da altre, ma la Banca centrale siriana ha continuato per certi aspetti a vincolarne il budget e le strategie imprenditoriali. Nel settore petrolifero, la compagnia statale siriana, braccio del ministero per il petrolio, controlla circa la metà della produzione nazionale, anche se gli investimenti esteri (tra cui Shell e l’impresa cinese Cnpc) erano stati importanti per incrementare i livelli di produzione. La Siria aveva attratto meno investimenti esteri rispetto ad altri paesi del Medio Oriente, a causa di infrastrutture inadeguate e di una diffusa corruzione. Il paese aveva fatto richiesta di adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2001, ma era riuscito a ottenere lo status di osservatore solo nel 2010.. L’economia siriana non aveva risentito particolarmente della crisi del 2009 e aveva registrato, nell’anno successivo, una crescita del 4%. Prima dell’inizio del conflitto il sistema economico era ancora relativamente chiuso, sebbene il paese avesse rapporti commerciali con i vicini Iraq, Turchia, Libano ed Egitto, ma anche con Cina e Unione Europea (Germania e Italia in primis) – primo partner commerciale della Siria con 5,4 miliardi di dollari di interscambio nel 2009 (equivalenti al 23% del commercio siriano). Il commercio con gli Stati Uniti era invece limitato dalle sanzioni. Secondo i dati dell’Undp del 2005, il 30% dei siriani (più di 5 milioni) viveva in povertà, mentre l’11% in estrema povertà. Tale dato è legato anche alle limitate risorse idriche e all’impatto di fenomeni come la siccità e la desertificazione, che hanno conseguenze negative sulla produzione agricola e contribuiscono al processo di ‘urbanizzazione della povertà’. Il pil pro capite, pari a circa 3200 dollari prima della guerra, era già tra i più bassi dei paesi del Medio Oriente. Certamente la miseria è stata tra le cause della rivolta.
La Siria produceva quantità modeste di petrolio: 400.000 barili al giorno nel 2009, crollati a 20.000 nel 2013 quando gran parte dei giacimenti sono caduti nelle mani dei ribelli. Già prima si trattava di una produzione ben limitata rispetto ai vicini del Golfo Persico e il declino avrebbe comunque reso in futuro il paese un importatore netto. Per compensare tale fattore nel mix energetico, il paese prevedeva di aumentare la produzione di gas (circa 7 miliardi di metri cubi nel 2009), avendo riserve per 280 miliardi di metri cubi. La Siria è collocata in una posizione strategica per il transito del gas: ciò sarebbe stato di grande vantaggio. Nel 2008 è stato aperto il collegamento in Siria dell’Arab Gas Pipeline (proveniente dall’Egitto) e vi erano progetti – tutti bloccati – di approfondire la cooperazione regionale con l’espansione dei gasdotti verso Turchia, Iraq e Iran. In base a un accordo con la Turchia del 2009, con l’apertura della sezione Siria-Turchia dell’Arab Gas Pipeline la Siria avrebbe potuto importare quasi un miliardo di metri cubi di gas. L’obiettivo sarebbe stato quello di diventare uno stato di transito per il gas egiziano, iracheno, iraniano e potenzialmente dell’Azerbaigian, traendo così maggiori entrate e aumentando la propria disponibilità di gas.
Il lento processo di modernizzazione economica e infrastrutturale è stato però drasticamente interrotto dal conflitto civile che ha distrutto gran parte dell’industria e delle infrastrutture. In particolare la caduta dei principali pozzi petroliferi e delle infrastrutture di raffinazione nelle mani dei ribelli prima e dello Stato islamico poi ha reso questi siti bersaglio dei bombardamenti della coalizione anti-Is, causandone la quasi totale distruzione. Secondo la commissione delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali dell’Asia occidentale, la spesa a cui si andrebbe incontro per la ricostruzione è di oltre 80 miliardi di dollari, di cui 28 solo per rifare 1,2 milioni di case dotate di infrastrutture.
Un tale sforzo comporterebbe anche problemi dal punto di vista del reperimento delle materie prime; servirebbero quasi 30 milioni di tonnellate di cemento all’anno – più di tre volte la quantità di cui il paese necessitava prima dell’inizio del conflitto – per produrre le quali occorrerebbe più di un miliardo di metri cubi d’acqua, una risorsa preziosa e scarsa in Siria. Secondo il rapporto 2013 del Carnegie Endowment for International Peace anche le strutture industriali e le infrastrutture sono inservibili. Le cifre ufficiali hanno parlato, per il 2013, di un’inflazione al 68%, ma nella realtà il tasso è di gran lunga superiore. A fine 2013 l’Unione Europea ha stanziato la cifra record di 147 milioni di euro per sostenere le popolazioni vittime del conflitto.
L’apparato militare siriano era ritenuto non all’avanguardia, soprattutto considerando che il maggiore fornitore di armi di Damasco è stata storicamente l’Unione Sovietica. Come retaggio della presenza sovietica, inoltre, la Siria ospita una base navale nel porto di Tartous, che è operativa come base mediterranea della Federazione Russa e che è oggi il principale centro di approvigionamento delle truppe russe stanziate in Siria. Ad essa si è aggiunta la base di Latakia, che l’esercito russo ha ricavato dall’ampliamento del locale aeroporto. Nel corso della guerra civile l’esercito siriano è stato nuovamente equipaggiato con armamenti di derivazione sovietica piuttosto obsoleti, anche se, soprattutto in virtù delle sue dotazioni aereonautiche e di artiglieria pesante, è tuttora tatticamente di gran lunga superiore alle forze ribelli che lo combattono. Damasco ha inoltre un discreto arsenale missilistico, grazie alla collaborazione nel settore con Iran e Corea del Nord. Tra il 2012 e il 2013 l’esercito siriano è stato molto danneggiato dalle defezioni, soprattutto dei soldati semplici e degli ufficiali di grado più basso, appartenenti alla comunità sunnita. Ciò ha spinto Assad a contare sempre di più sulle proprie truppe speciali, e soprattutto sulla guardia presidenziale, un corpo d’élite composto quasi totalmente da alauiti e comandato dal fratello Maher al-Assad. Il fatto di poter contare su un numero assai ristretto di uomini fidati ha comportato l’impossibilità per l’esercito regolare di controllare completamente il territorio. Per far fronte a questi ostacoli il regime ha promosso la formazione di milizie paramilitari composte spesso su base settaria da affiancare alle truppe dell’esercito regolare. Anche questa soluzione si è però rivelata insufficiente e nel settembre 2015 Bashar al-Assad ha ammesso di non essere in grado di trovare nuove reclute. Lo scarso numero di uomini ha portato il regime a ritirarsi da numerosi territori. Dall’inizio del 2013 non ha più il controllo del nord e di buona parte di Aleppo. Il resto del paese è controllato a macchia di leopardo, con ampie zone del territorio lasciate ai ribelli o alle truppe dello Stato islamico e, nel nord-est, alle milizie curde. Le forze del regime al momento si concentrano nella capitale e sul controllo delle principali vie di comunicazione nord-sud. Nel 2012 l’esercito siriano è arrivato a un passo dal confronto militare con la Turchia, a causa di un’escalation di tensione politica che ha raggiunto il suo apice in seguito all’esplosione di alcuni colpi di mortaio in territorio turco, che hanno ucciso cinque civili. L’altro confine storicamente delicato – soprattutto a causa della contesa sul Golan – è quello con Israele, che si è mantenuto perlopiù neutrale durante tutto il conflitto civile in corso, limitandosi a minacciare un intervento militare qualora l’arsenale chimico di Assad rischiasse di cadere nelle mani di estremisti ostili a Tel Aviv o di Hezbollah. Dopo la crisi con gli Usa causata dal grave attacco chimico di Ghouta che ha portato Washington sull’orlo dell’intervento militare diretto contro Assad, il regime ha dovuto rinunciare al proprio arsenale chimico. Nonostante non tutti i depositi accertati risultino all’appello, lo smaltimento di gran parte dell’arsenale è avvenuto tra 2014 e 2015.
Situato nella fascia nord-orientale del paese, il Kurdistan siriano è noto tra la popolazione curda semplicemente con il termine Rojava, ‘occidente’, in quanto rappresenta la parte occidentale della nazione curda, il cui territorio è diviso fra Turchia, Iraq, Iran e, appunto, Siria. Secondo stime non ufficiali i curdi rappresentano circa il 10% della popolazione, anche se il loro numero reale non è noto alle autorità. Fino al 2011, i curdi non hanno goduto della cittadinanza siriana e non sono stati conteggiati nelle statistiche ufficiali. Dopo l’inizio della rivolta nel 2011 il regime ha però repentinamente deciso di concedere loro la cittadinanza per evitare che si unissero alle forze ribelli. Questo tacito accordo di non belligeranza fra curdi e regime ha retto durante i cinque anni di conflitto e si è poi tradotto in un controllo de facto dei territori a maggioranza curda da parte del Pyd (dall’acronimo curdo per Partito di Unione Democratica, il ramo siriano del Pkk turco). Le milizie del Pyd hanno spesso combattuto contro le fazioni fondamentaliste dei ribelli contro l’Is che desideravano appropriarsene (soprattutto nella regione attorno a Dayr az-Zwar, dove si trovano i pozzi petroliferi della Siria). La pressoché totale autonomia goduta dall’inizio del conflitto dalle regioni a maggioranza curda sotto il controllo del Pyd ha portato nel novembre 2013 alla pubblicazione della ‘Carta del contratto sociale’, un documento che ha sancito di fatto l’indipendenza dei territori curdi, e la loro trasformazione in una entità federale costituita da tre cantoni autonomi. Questo esperimento di autogoverno del Kurdistan siriano ha attirato l’attenzione degli osservatori internazionali per le sue peculiari caratteristiche, assai diverse da quelle dei sistemi politici tipicamente mediorientali. L’‘esperimento di Rojava’ – come è stato comunemente definito – è infatti caratterizzato da un capillare sistema di assemblee ed elezioni locali, da un forte coinvolgimento dei singoli cittadini nella vita pubblica nonché dalla presenza anche all’interno della sua Carta costituzionale di un deciso accento sui valori laici, sulla parità di genere e sulla protezione ambientale. Nonostante la grande popolarità, numerosi rapporti pubblicati nel 2015 hanno però indicato come anche i curdi del Pyd si siano macchiati di violazioni dei diritti umani, soprattutto verso le minoranze arabe e cristiano-assire presenti sul loro territorio.
Jabhat al-Nusra e lo Stato islamico (Is) sono le due principali organizzazioni che rappresentano il network di al-Qaida nel conflitto siriano. La loro presenza, per quanto numericamente minoritaria rispetto alla somma delle forze che combattono il regime di Bashar al-Assad, è stata però fonte di crescenti preoccupazioni sia a livello regionale, sia a quello internazionale. Le due organizzazioni sono in parte composte da combattenti di professione, veterani di diversi scenari di guerra come la Libia, l’Afghanistan o l’Iraq, e sono dotate di reti di finanziamento autonome e ben collaudate. Lo Stato islamico, in particolare, è emerso a metà del 2014 come una vera e propria minaccia regionale grazie alle fulminee vittorie ottenute sia sul fronte siriano sia su quello iracheno che gli hanno assicurato il controllo su un enorme territorio che dal nord della Siria arriva fino alle porte di Baghdad. Ciò è stato reso possibile dalle grandi doti organizzative e militari della sua leadership, affinate durante il conflitto che tra il 2006 e il 2008 ha opposto l’Is – che allora si chiamava al-Qaida in Iraq (Aqi), guidata da Abu Musab al-Zarkawi – alle forze statunitensi in quegli anni ancora di stanza in Iraq. L’Is ha saputo infatti usare al meglio le lezioni tattiche e l’addestramento appresi da quella sconfitta, approfittando dell’occasione offerta dallo scoppio del conflitto siriano. Quest’ultimo ha infatti permesso a Is di conquistare territori in Siria per poi utilizzare la profondità strategica da essi offerta per lanciare una travolgente offensiva in territorio iracheno a metà del 2014, durante la quale le sue forze sono giunte a occupare Mosul, seconda città del paese. L’autoproclamazione a Califfo da parte del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi ha di fatto lanciato una sfida diretta alla tradizionale leadership di al-Qaida all’interno del panorama del jihadismo internazionale. Tra le due organizzazioni, invece, Jabhat al-Nusra (nome completo Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham, Fronte della Vittoria per il sostegno alle genti del Levante) è sicuramente il gruppo più radicato all’interno della società siriana. È nato in Siria nel gennaio 2012 sotto la guida di Abu Mohammad al-Jawlani, jihadista siriano in precedenza opertativo in nell’Isi iracheno che ha raggruppato intorno a sé un gruppo di militanti sia locali sia internazionali. Il gruppo si è distinto immediatamente per le sue capacità militari, grazie all’esperienza e all’addestramento degli affiliati. Uno dei tratti specifici di al-Nusra è stata la capacità di attirare anche molti siriani tra le sue fila, comprese persone che non si identificavano con la cultura religiosa salafita. Molti nuovi combattenti hanno affermato di avere aderito perché il gruppo sarebbe il solo in grado di garantire un adeguato addestramento e armamenti sufficienti per combattere con efficacia il regime. Lo stesso non può essere invece affermato dell’Is, il quale è stato assai meno in grado di farsi accettare dalla popolazione locale e che rimane composto primariamente da combattenti stranieri. All’inizio del 2012, il leader dell’allora Stato islamico in Iraq, Abu Bakr al-Baghdadi, aveva affermato che Jabhat al-Nusra non era altro che il ramo siriano della sua organizzazione. Pur confermando l’appartenenza ad al-Qaida, la leadership di al-Nusra aveva però subito smentito di far capo all’organizzazione di al-Baghdadi ma di obbedire solamente al leader di al-Qaida Ayman al-Zawahiri. Per questo Baghdadi avrebbe deciso di creare l’Is e di iniziare a operare anche in territorio siriano. Oggi i rapporti fra le due organizzazioni rimangono ambigui. Schermaglie armate sono state registrate su più fronti mentre in altre occasioni – per esempio durante le incursioni nel territorio libanese controllato da Hezbollah – le due formazioni hanno collaborato pur restando distanti sulle fedeltà avendo la leadership di Al-Nusra più volte ribadito la propria lealtà ad al-Qaida e al suo leader Ayman al-Zawahiri.
L’accordo sulla distruzione dell’arsenale chimico siriano è stato raggiunto nel settembre 2013 in seguito alla Risoluzione 2118 del Consiglio di sicurezza dell’Un. Tale risoluzione incaricava l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) di mettere in atto, entro il giugno 2014, il suo piano di individuazione e distruzione dell’arsenale chimico detenuto dal regime siriano. L’accordo è il risultato di un intenso lavoro diplomatico della Russia. Mosca intendeva infatti evitare che Usa e Francia dessero esecuzione concreta alla minaccia di bombardare obiettivi sensibili del regime siriano in seguito all’attacco con armi chimiche, avvenuto nel sobborgo damasceno di Ghouta e costato la vita a circa 1400 persone. Questo attacco aveva rappresentato, secondo l’amministrazione americana, il superamento della ‘linea rossa’ fissata da Barack Obama nel 2012 nei confronti del regime di Bashar al-Assad. Il presidente statunitense aveva ingiunto al regime di non ricorrere per alcun motivo all’uso di armi di distruzione di massa. Le autorità di Damasco hanno da subito accusato l’opposizione di aver organizzato l’attacco per provocare l’intervento americano. Le prove raccolte dagli ispettori Un nei giorni successivi sembrerebbero però confermare la colpevolezza del regime. L’ultimo carico di armamenti chimici siriani sarebbe stato ufficialmente distrutto a metà del 2014. Tuttavia, permangono dubbi sul fatto che sia stato davvero interamente distrutto e che una parte di esso non sia finita nelle mani dello Stato islamico.
Approfondimento
Il conflitto siriano non è solo un enorme bagno di sangue e la più grande catastrofe umanitaria del nuovo millennio. È anche un evento epocale, di quelli che segnano il passaggio da un’era a un’altra. Dopo la caduta del Muro di Berlino, fu la guerra del Golfo del 1991 a segnare l’inizio dell’era unipolare. Gli Stati Uniti si presentavano al mondo come unico guardiano e garante degli equilibri internazionali. E lo facevano in quella che era allora la regione pivot del mondo, quel Medio Oriente che nei decenni a venire avrebbe dovuto fornire l’energia necessaria per il radioso futuro a guida americana. Fu il primo conflitto a ‘reti unificate’, trasmesso in diretta dalle nuove tv satellitari che fornivano all’unisono la narrativa desiderata dall’unica superpotenza. Un quarto di secolo più tardi è di nuovo un paese mediorientale, la Siria, il teatro del nuovo cambiamento epocale: l’entrata nell’era del regionalismo e del mondo multipolare. I siriani probabilmente avrebbero preferito evitare un tale onore. Avrebbero preferito non vedere in meno di cinque anni eserciti, bombardieri, battaglioni, avventurieri ed estremisti religiosi passare in massa i loro confini per combattere in un conflitto che ha assunto significati radicali e contrastanti per persone di ogni parte del mondo. Significati che hanno lentamente fatto dimenticare i motivi che avevano portato i siriani stessi ad affrontarsi in una sanguinosa guerra civile: le manifestazioni pacifiche sull’onda della Primavera araba, la repressione sanguinosa, le vendette dei gruppi paramilitari, e i cittadini che via via prendevano le armi per difendersi. Ma tutto questo appartiene ormai a un’altra era. In cinque anni molte cose sono cambiate, tra cui soprattutto le sembianze delle parti in campo: da una parte, un regime diventato ormai la facciata di altri stati e altri interessi e, dall’altra, una opposizione dal volto deformato e settario grazie anche ai denari e alla propaganda dei suoi sponsor principali. In Siria oggi si affrontano infatti prima di tutto le potenze regionali, l’Arabia Saudita e l’Iran, in una competizione mascherata da guerra di religione sciita-sunnita ma che ha tutti i tratti del più classico dei conflitti di potere. I due leader regionali si sono trascinati dietro i loro rispettivi supporter: le monarchie del Golfo da una parte, Hezbollah e Iraq sciita dall’altra. Con la Turchia che in qualche modo cerca di imporsi anch’essa in un’arena con molti aspiranti leader e ben pochi gregari. Il destino del conflitto oggi è in mano ai protagonisti della regione ben più di qualunque altro conflitto mediorientale del passato, dove una sola parola da Washington (o Mosca) sarebbe bastata per rimettere in riga le riottose potenze regionali. Ma agli Stati Uniti, segnati dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e sempre più interessanti all’Asia Orientale, di comandare in Medio Oriente importa sempre meno. E la misura della perdita di influenza americana è data proprio da una Russia col pil dell’Italia e in profonda crisi economica che, parafrasando Lenin, nonostante tutto riesce a imporsi come una sorta di ‘superpotenza stracciona’: interlocutore imprescindibile nella partita siriana e nell’intera regione. Ma non un decisore. Perché il primo difetto che emerge da questo primo, sfortunato, esempio di conflitto dell’epoca multipolare è la presenza di tanti ‘interlocutori’ e nessun ‘game changer’. Ovvero di nessun attore che abbia la capacità – e la volontà – di dire una parola definitiva. La ritirata volontaria dall’arena del ‘game changer’ americano non sta infatti comportando l’entrata in scena di un nuovo attore decisivo in grado, almeno al livello regionale, di poter imporre la propria volontà. Il vuoto lasciato è stato invece riempito da nuovi attori che negli ultimi vent’anni non avevano avuto alcuna parte rilevante negli equilibri regionali – in primis Turchia, Qatar e Russia – ma ai quali la latitanza statunitense ha permesso di ritagliarsi un nuovo ruolo. Un nuovo ruolo certamente utile ai loro interessi, ma la cui utilità nella risoluzioni delle molte e complesse dispute regionali rimane assai opinabile. Ma se sul campo il nuovo multipolarismo che contraddistingue il conflitto siriano si sta traducendo in una paralisi decisionale, nel resto del mondo si traduce in evidenti e inedite difficoltà dei media internazionali a raccontare questo conflitto e suscitare l’interesse delle opinioni pubbliche. I punti di riferimento dell’era unipolare sono caduti: dittatori sanguinari ed estremisti religiosi, le due categorie diventate i bersagli principali nell’universo mediatico occidentale negli ultimi vent’anni, appaiono oggi contrapposti fra loro rendendo difficile per il pubblico – e anche per i decisori politici – prendere una posizione definitiva. C’è chi è addirittura andato a scomodare i filtri ideologici mai veramente scomparsi della guerra fredda, in cui il laico regime di Assad era alleato del blocco orientale contro gli Stati Uniti e per questo va oggi sostenuto come ‘pilastro anti-imperialista’. Ma il passare del tempo e il crescere del numero dei morti e degli sfollati hanno reso sempre più evidente l’inadeguatezza sia della visione unipolare del mondo sia di quella bipolare. Al contrario, l’assenza di una potenza egemone anche sul piano culturale si è resa evidente con l’emergere di numerose narrazioni in competizione fra loro nell’arena offerta dal nuovo sistema dell’informazione basato su internet e i social media. In questo conflitto fra narrative deboli sembra contare sempre meno chi commette cosa, ma chi sa comunicarlo meglio. Un’esecuzione macabra di un singolo individuo da parte di Is può oscurare il destino di centinaia di persone morte lo stesso giorno sotto i bombardamenti di Assad. Allo stesso modo una sola foto di un bimbo morto su una spiaggia turca è stata in grado di smuovere le coscienze degli europei assai più di decine di stragi in mare nei mesi precedenti, in un approccio emotivo alla realtà che sconfigge ogni proporzione. Se la guerra del Golfo del ’91 fu il primo conflitto dell’era unipolare e delle tv satellitari, la guerra di Siria è il primo esempio di conflitto nel nuovo ordine multipolare raccontato quasi interamente attraverso i social media. Un primo esempio che per il futuro non lascia presagire nulla di buono.
di Eugenio Dacrema