Vedi Siria dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Siria è uno dei paesi più importanti dell’area del Medio Oriente. Il paese, infatti, incarna una serie di peculiarità che lo rendono unico nella regione, sia dal punto di vista storico sia rispetto alle dinamiche geopolitiche contemporanee. Situata al centro tra Iraq, Turchia, Libano, Israele e Giordania, la Siria ha sempre giocato un ruolo di fondamentale importanza nella definizione degli equilibri regionali. Prima di essere spartita tra Regno Unito e Francia in seguito al cosiddetto Accordo Sykes-Pickot, firmato durante la Prima guerra mondiale per definire le rispettive sfere di influenza sul Medio Oriente, la regione della Siria, sotto l’Impero ottomano, includeva anche l’attuale Libano. Ottenuta l’indipendenza dal mandato francese nel 1946, fu testimone di diversi colpi di stato e della nascita del partito panarabista Ba’th, il cui potere è stato messo in discussione dallo scoppio della Primavera araba. Nel periodo della Guerra fredda era definita la ‘Cuba del Medio Oriente’, dal momento che rappresentava il satellite più importante dell’Unione Sovietica nella regione, soprattutto in contrapposizione alla filoccidentale Turchia. Nel periodo successivo alla Guerra fredda Damasco si è trovata in un periodo di transizione durante il quale ha fortificato la propria alleanza con l’Iran formando il cosiddetto ‘Fronte della resistenza’, comprendente anche Hezbollah in Libano. Questa alleanza politico-strategica ha avuto come scopo principale la costituzione di un polo alternativo all’interno della regione mediorientale a quei paesi come l’Egitto di Hosnī Mubārak e le monarchie del Golfo strettamente legate all’Occidente, e in particolare agli Stati Uniti e Israele, considerati fautori di una politica imperialista nella regione. L’alleanza Hezbollah-Siria-Iran si è trovata in numerose occasioni in contrapposizione con Usa ed Europa su numerosi fronti, quali la questione del programma nucleare iraniano, l’assassinio nel 2005 del leader libanese sostenuto dall’Arabia Saudita Rafiq Harīrī e la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006.
La politica estera del presidente Bashar al-Assad – succeduto nel 2000 al padre Hāfiz che aveva governato la Siria a partire dal colpo di stato del 1970 – dal 2005 ha mirato in primo luogo a consolidare la propria legittimità di fronte alla comunità internazionale, danneggiata dalle accuse di aver avuto parte attiva nell’attentato che uccise il premier libanese Harīrī. Funzionali a questo scopo sono stati il ritiro delle truppe dal Libano, il nuovo ruolo di stabilizzazione giocato nell’Iraq post-bellico e i tentativi di negoziati indiretti con Israele attraverso la mediazione turca. Israele ha sempre rappresentato il vicino più problematico per la Siria, dal momento che i due stati risultano ancora formalmente in guerra, dopo aver già combattuto due conflitti armati nel 1967 e nel 1973, e le possibilità di un nuovo scontro non sono del tutto scongiurate. Anche i rapporti con gli Stati Uniti avevano visto un parziale riavvicinamento, con la visita del Segretario di stato Hilary Clinton nel 2010 e l’invio di un nuovo ambasciatore americano a Damasco dopo anni di assenza.
Fattore centrale della nuova politica regionale siriana era anche costituito dal rilancio delle relazioni con la Turchia, paese confinante con cui la Siria aveva avuto rapporti tradizionalmente molto tesi a causa dell’adesione ai due opposti blocchi durante la Guerra Fredda. Ankara e Damasco si sono rese protagoniste di un progressivo e profondo avvicinamento che – riguardando i settori energetico, economico, politico e strategico – ha determinato l’emergere di un asse di cooperazione di primaria importanza nello scacchiere regionale. Tale relazione privilegiata è stata però messa in discussione dalla repressione del regime siriano nei confronti della popolazione durante la rivolta scoppiata nel 2011, a seguito della quale il governo turco ha pubblicamente condannato il governo di Assad.
La vita politica interna della Siria è stata dominata, dal 1970, dalla minoranza alawita e, in particolar modo, dalla famiglia al-Assad. Hāfiz Assad è riuscito a rafforzare il ruolo dell’autorità centrale e a creare un’efficiente rete di contatti per gestire gli affari interni.
La Siria è una repubblica presidenziale in cui il capo di stato ha un mandato settennale e, nel 2007, al-Assad è stato riconfermato alla presidenza. Si è trattato tuttavia di elezioni senza oppositori, vale a dire di un plebiscito, vinto con una percentuale superiore al 97%. Il Parlamento, unicamerale, è eletto ogni quattro anni ed è dominato dal partito Ba’th. Nonostante abbia nominalmente poteri legislativi, il vero fulcro della politica siriana rimane la presidenza, che esercita un ruolo assolutistico anche grazie ai servizi segreti militari e all’esercito, alla cui guida vi sono sempre stati i componenti della famiglia Assad. Il sistema politico-istituzionale siriano così come la stabilità interna del paese sono stati messi fortemente in discussione nei primi mesi del 2011 dai movimenti di protesta popolare scoppiati in vari centri urbani del paese che, dopo dure repressioni, si sono trasformati in un vero e proprio conflitto civile fra il regime e l’opposizione.
La popolazione siriana, composta da quasi 21 milioni di persone, ha registrato una notevole crescita rispetto agli anni Novanta (12 milioni di abitanti). Il tasso di crescita è infatti elevato (3,26% tra il 2005 e il 2010), così come il tasso di fecondità (pari, nel 2010, a 2,9 figli per donna). Inoltre, più del 50% della popolazione ha meno di 22 anni. La maggior parte della popolazione è araba, vi è poi una cospicua minoranza curda (5%) e minoranze turcomanne, assire e armene. I curdi siriani non hanno diritto allo status di cittadini siriani, nonostante il presidente Assad, durante le rivolte popolari del 2011, abbia promesso che concederà la cittadinanza alla popolazione di origine curda. La Siria ospita una delle comunità di rifugiati più ampie del mondo, composta, secondo le stime dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), da mezzo milione di palestinesi e più di un milione di iracheni.
Gli alawiti, corrente minoritaria dell’Islam sciita cui aderisce la famiglia del presidente Assad, costituiscono solo il 14% della popolazione, ma hanno detenuto finora le leve della politica nazionale. La maggioranza della popolazione è infatti musulmano-sunnita (72%), e vi sono cospicue minoranze di cristiani (12%) e drusi (3%). La costituzione garantisce la libertà religiosa, generalmente rispettata, ma prevede che il presidente debba essere musulmano. Gli appartenenti ai movimenti di ispirazione islamica, come i Fratelli musulmani, sono però perseguiti dalla legge.
Sebbene le varie etnie e comunità religiose del paese siano tradizionalmente localizzate in zone specifiche – o in determinati quartieri delle grandi città – a partire dall’indipendenza si è assistito ad un notevole amalgamarsi tra i diversi gruppi, soprattutto all’interno dei grandi centri urbani. Il conflitto civile scoppiato nel 2011 – che a fine 2012 aveva causato 60.000 vittime accertate – ha però portato a una riallocazione di circa 1,5 milioni di siriani all’interno dello stesso territorio nazionale. Il fenomeno dei ‘rifugiati interni’ è stato caratterizzato da uno svuotarsi dei quartieri e delle zone abitati dalle minoranze, i cui membri hanno spesso preferito rifugiarsi nelle zone in cui la propria comunità è maggioritaria. Infine, un numero non precisato di rifugiati (dai 500.000 a un milione secondo stime non ufficiali) è espatriato, soprattutto verso i campi profughi di Turchia, Giordania e Libano, mentre una rilevante della popolazione più benestante si è trasferita in Egitto o nei paesi occidentali.
Il tasso di alfabetizzazione è piuttosto elevato (84%), soprattutto per i giovani (più del 90% sia per gli uomini sia per le donne). La disparità di genere nell’istruzione va riducendosi: la proporzione di bambine iscritte alla scuola primaria rispetto ai bambini è salita dal 90,3% nel 2004 al 95,6% nel 2009.
Dal 1963 al 2011 in Siria è stato in vigore un decreto legislativo che imponeva lo stato di emergenza in presenza di una minaccia all’integrità dello stato e ha permesso al governo di effettuare delle detenzioni arbitrarie di oppositori politici, attivisti per i diritti umani e giornalisti. Il decreto è stato poi revocato durante le rivolte iniziate nel 2011, nel tentativo di venire incontro alle richieste dei manifestanti.
Sebbene la Costituzione garantisca la libertà di espressione e di stampa, queste sono di fatto molto limitate. Una legge del 2001 vieta di riportare questioni di sicurezza nazionale e di unità nazionale, a pena di sanzioni elevate. Nel 2008 gli utenti internet – mezzo sempre più usato dai giornalisti, ma anch’esso controllato dal governo – erano il 17,3% e la stessa rete ha rappresentato uno dei veicoli di comunicazione e organizzazione più efficienti per i manifestanti durante le rivolte del 2011 e tra i gruppi combattenti ribelli dopo la militarizzazione della rivolta.
Tradizionale produttore ed esportatore di petrolio, la Siria deve oggi affrontare il costante declino della produzione del medesimo, sviluppando altri settori dell’economia. L’industria del petrolio, del gas e del fosfato rappresenta la principale risorsa economica del paese insieme al settore agricolo, che conta per il 21% del pil e contribuisce alle esportazioni di prodotti agricoli, cotone e tessili. Il turismo è un’altra risorsa importante, mentre acquisiscono sempre maggior peso i servizi finanziari (nel 2009 la Borsa di Damasco ha iniziato ad operare dopo 46 anni di chiusura), le telecomunicazioni e il commercio.
Il legame con l’Unione Sovietica ha improntato l’economia pianificata siriana sino all’inizio degli anni Novanta, a partire dai quali è stato invece avviato un processo di liberalizzazione e privatizzazione. Il dibattito è stato tuttavia acceso nell’ambito del partito Ba’th e le riforme hanno proceduto lentamente. Nel settore bancario, la prima banca privata ha aperto nel 2004, seguita da altre, ma la Banca centrale siriana ha continuato per certi aspetti a vincolarne il budget e le strategie imprenditoriali. Nel settore petrolifero, la Compagnia siriana, braccio del ministero per il petrolio e le risorse minerarie, controlla circa la metà della produzione nazionale, anche se gli investimenti esteri (tra cui Shell e l’impresa cinese Cnpc) rimangono importanti per incrementare i livelli di produzione. La Siria ha attratto meno investimenti esteri rispetto ad altri paesi del Medio Oriente, a causa di infrastrutture inadeguate e di una diffusa corruzione, costituendo così un freno allo sviluppo. Il paese ha fatto richiesta di adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2001, ma gli Stati Uniti hanno mostrato dei segnali di apertura in proposito solo negli ultimi anni, per esempio acconsentendo a concedere al paese lo status di osservatore nel maggio 2010.
L’economia siriana non ha risentito particolarmente della crisi del 2009, registrando una crescita del 4%. Il sistema economico è ancora relativamente chiuso, sebbene il paese abbia rapporti commerciali con i vicini Iraq, Turchia, Libano ed Egitto, ma anche con Cina e Unione Europea (Germania e Italia in primis) – primo partner commerciale della Siria con 5,4 miliardi di dollari di interscambio nel 2009 (equivalenti al 23% del commercio siriano). Il commercio con gli Stati Uniti è invece limitato dalle sanzioni.
Secondo i dati dell’Undp del 2005, il 30% dei siriani (più di 5 milioni) viveva in povertà, mentre l’11% in estrema povertà. Tale dato è legato anche alle limitate risorse idriche e all’impatto di fenomeni come la siccità e la desertificazione, che hanno conseguenze negative sulla produzione agricola e contribuiscono al processo di ‘urbanizzazione della povertà’. Il pil pro capite, pari a circa 4700 dollari, è tra i più bassi dei paesi del Medio Oriente.
La Siria produce quantità modeste di petrolio (400.000 barili al giorno nel 2009) rispetto ai vicini del Golfo Persico e il declino della produzione dovrebbe renderla in futuro un importatore netto. Per compensare tale fattore nel mix energetico, il paese prevedeva di aumentare la produzione di gas (circa 7 miliardi di metri cubi nel 2009), avendo riserve per 280 miliardi di metri cubi. Inoltre il paese è collocato in una posizione strategica per il transito del gas. Nel 2008 è stato aperto il collegamento in Siria dell’Arab Gas Pipeline (proveniente dall’Egitto) e vi sono progetti di approfondimento della cooperazione regionale con l’espansione dei gasdotti verso Turchia, Iraq e Iran; in base a un accordo con la Turchia del 2009, con l’apertura della sezione Siria-Turchia dell’Arab Gas Pipeline la Siria potrebbe importare quasi un miliardo di metri cubi di gas. L’obiettivo sarebbe quello di diventare uno stato di transito per il gas egiziano, iracheno, iraniano e potenzialmente dell’Azerbaigian, traendo così maggiori entrate e aumentando la propria disponibilità di gas. Tuttavia, il conflitto civile attualmente in corso ha rimesso in discussione tutti i programmi di pianificazione economica ed energetica programmati dal regime di Assad. I prossimi anni saranno con ogni probabilità caratterizzati da una economia di ricostruzione visti gli ingenti danni inferti dal conflitto ad alcuni dei più importanti centri abitati, tra i quali Aleppo, la capitale economica della Siria che è stata l’obiettivo di pesanti bombardamenti.
L’apparato militare siriano è ritenuto non all’avanguardia, soprattutto considerando che il maggiore fornitore di armi di Damasco è stata storicamente l’Unione Sovietica. Come retaggio della presenza sovietica, inoltre, la Siria ospita una base navale nel porto di Tartus, che è operativa come base mediterranea della Federazione Russa. Attualmente l’esercito siriano è ancora equipaggiato da armamenti di derivazione sovietica piuttosto obsoleti, anche se, soprattutto in virtù delle sue dotazioni aereonautiche e di artiglieria pesante è tuttora tatticamente di gran lunga superiore alle forze ribelli che lo contrastano. Damasco ha inoltre un discreto arsenale missilistico, grazie alla collaborazione nel settore con Iran e Corea del Nord. L’attuale stato del conflitto vede l’esercito siriano molto danneggiato dalle defezioni, soprattutto dei soldati semplici e degli ufficiali di grado più basso appartenenti alla comunità sunnita. Ciò ha portato Assad a contare sempre di più sulle proprie truppe speciali, e soprattutto sulla Guardia presidenziale, un corpo d’élite composto quasi totalmente da alauiti e comandato dal fratello Maher al-Assad. Il fatto di poter contare su un numero assai ristretto di uomini fidati ha comportato l’impossibilità dell’esercito regolare di controllare completamente il territorio: all’inizio del 2013 il regime ha quasi totalmente perso il controllo del nord del paese e di buona parte della città di Aleppo; il resto del paese è controllato a macchie di leopardo, con ampie zone del territorio lasciate ai ribelli. Le forze del regime al momento si concentrano nella capitale e sul controllo delle principali vie di comunicazione nord-sud.
Durante il 2012 l’esercito siriano si è trovato molto vicino a un confronto militare con la Turchia, a causa di un’escalation di tensione politica che ha raggiunto il suo apice in seguito all’esplosione di alcuni mortai in territorio turco, che hanno ucciso cinque civili. In seguito a questo episodio e alla recrudescenza degli attacchi dei gruppi ribelli curdi in Turchia – che secondo il governo del primo ministro Recep Erdoğan sono direttamente supportati da Damasco – Ankara ha chiesto alla Nato il supporto per l’installazione di batterie di missili a lunga gittata Patriot sul confine siriano a scopo di deterrenza.
L’altro confine storicamente delicato – soprattutto a causa della contesa sulle Alture del Golan – è quello con Israele, il quale si è mantenuto perlopiù neutrale durante tutto il conflitto civile in corso, limitandosi a minacciare un intervento militare qualora l’arsenale chimico di cui Assad dispone rischiasse di cadere nelle mani di estremisti ostili a Tel Aviv, oppure di Hezbollah.
Uno degli assi più stabili nel fluido gioco di alleanze che interessa gli attori del Medio Oriente è quello costituito dalla relazione bilaterale tra Siria e Iran. Le buone relazioni tra questi due paesi risalgono alla fase immediatamente successiva alla Rivoluzione islamica del 1979 in Iran, e hanno trovato un punto di convergenza nel ruolo di supporto alle forze sciite e al movimento di Hezbollah svolto durante la guerra civile libanese (1975-90).
Il regime siriano è retto da una minoranza sciita e, oltre a tale elemento di convergenza, Teheran e Damasco hanno storicamente avuto interesse nel sostenersi a vicenda, visto l’isolamento internazionale e regionale cui sono state sottoposte. Tra la Siria e l’Iran vi sarebbe inoltre l’interesse comune a equilibrare l’influenza delle monarchie del Golfo e dell’asse arabo-sunnita costituito da Egitto, Giordania e Arabia Saudita, oltre che a contrastare lo Stato di Israele. La retorica di Damasco è però meno aggressiva di quella di Teheran e, soprattutto dal 2008 in poi, la Siria si è dichiarata disponibile ad aprire un dialogo con Israele, con i vicini arabi e con l’Occidente. Ciò non le ha impedito di mantenere la propria alleanza strategica con l’Iran, ponendosi d’altra parte come possibile interlocutore tra Teheran e la comunità internazionale. Le repressioni attuate dal regime di Assad a danno dei manifestanti a partire dall’aprile del 2011 hanno d’altra parte provocato un rinnovato isolamento politico e diplomatico di Damasco a livello internazionale, portando la Siria ad avere nuovamente rapporti più stretti ed esclusivi con l’Iran.
Le politiche spesso ambigue di Bashar al-Assad e, in maniera particolare, i rapporti di Damasco con alcuni movimenti come quello di Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano, così come con l’Iran, hanno portato il regime siriano a trovarsi in una posizione di crescente isolamento internazionale. Sotto l’amministrazione di George W. Bush la Siria era stata non a caso inserita nella lista dei cosiddetti ‘stati canaglia’, per via della sua politica antioccidentale e anti-israeliana. Nonostante un parziale riavvicinamento a Europa e Stati Uniti, avvenuto tra il 2007 e il 2010, lo scoppio della rivolta siriana ha rimesso in discussione gli equilibri, portando nuovamente Damasco a trovarsi strettamente dipendente dai suoi alleati tradizionali e contrapposta a Europa e Stati Uniti e ai loro alleati nella regione. Il conflitto civile ha avuto significative conseguenze sia a livello interno sia a livello internazionale. Sul piano interno la rivolta, che inizialmente è stata motivata dalla corruzione, dalle disparità economiche e dal desiderio di maggiori diritti politici e civili, ha progressivamente assunto un carattere settario, anche grazie all’abile politica messa in campo da Assad per dipingere i ribelli come estremisti religiosi al servizio di potenze straniere. Il regime, che ha sempre avuto come base principale del proprio potere le numerose minoranze religiose presenti nel paese (alawiti, cristiani, drusi, sciiti, curdi, ismaeliti), è riuscito almeno in parte e rinsaldare questa base di consenso, usando il timore delle persecuzioni religiose in caso di vittoria dei ribelli.
Sul piano internazionale Assad è riuscito a mantenere nel proprio campo non solo i tradizionali alleati regionali – Iran e Hezbollah – ma anche la Russia di Putin, che teme di perdere l’ultimo alleato di Mosca in Medio Oriente, e allo stesso tempo sta tentando di usare la crisi siriana per riconquistare un posto di primo piano nella gestione delle crisi internazionali. Oltre a garantire forniture militari, Mosca ha posto il veto sulle risoluzioni più incisive contro il regime siriano proposte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In questo è stata affiancata dalla Cina, la quale, pur non avendo rapporti stretti col regime di Assad, si oppone a quello che vede come un ulteriore possibile intervento Occidentale nelle questioni domestiche di un paese sovrano.
L’opposizione è stata invece sostenuta da subito dall’Occidente, dalle monarchie del Golfo e dalla Turchia. Specialmente Usa e Arabia Saudita vedono nella caduta di Assad la possibilità di dare un colpo – forse definitivo – alle ambizioni egemoniche dell’Iran nel mondo arabo. L’aiuto fornito dagli Usa si è però limitato al sostegno politico. Molti nell’amministrazione americana temono il prevalere fra i ranghi dei ribelli delle forze più estremiste, sostenute dalle monarchie del Golfo, fattore che porterebbe a una situazione pericolosa soprattutto rispetto alla sicurezza del confinante Israele.
L’organizzazione più importante dell’opposizione siriana è la ‘Coalizione nazionale dei rivoluzionari siriani e delle forze di opposizione’. Essa è nata in seguito alla volontà sia da parte dei principali gruppi di opposizione interni sia dei principali paesi sostenitori della rivolta di sostituire la precedente organizzazione, il Consiglio nazionale siriano, che si era dimostrato incapace di attrarre consenso sufficiente da parte della comunità internazionale e soprattutto tra le forze di opposizione interne del paese. La Coalizione si compone di numerose anime, rappresentanti tanto delle forze più secolari che sono all’opposizione che delle varie comunità religiose. Le principali organizzazioni che sup- portano la Coalizione sono il Coordinamento dei comitati locali – organizzazione dei comitati locali nati spontaneamente nei primi mesi della rivolta e che si occupa di coordinare le proteste sul campo – e l’Esercito libero siriano, il cappello di riferimento della maggior parte delle milizie ribelli che agiscono nel paese. L’attuale presidente della Coalizione è Moaz al-Khatib, imam sunnita moderato, a cui si affiancano due vice presidenti, lo storico dissidente siriano Riad Seif e l’attivista femminista Suheir Atassi.
È uno dei territori più contesi di tutto il Medio Oriente e al tempo stesso, da quasi quarant’anni, è il fronte di guerra più tranquillo della regione: altopiano dall’alto valore strategico, dal fertile terreno di origine vulcanica e ricco di falde acquifere, il Golan è stretto oggi tra Israele, Siria, Giordania e Libano. Territorio appartenente alla Siria moderna sin dal 1923, fu occupato nel 1967 da Israele per diventare, quattordici anni più tardi, parte integrante dello stato ebraico sotto il nome di ‘Distretto settentrionale’. Quest’annessione però non è mai stata riconosciuta internazionalmente e da decenni le Nazioni Unite impongono allo stato ebraico la restituzione alla Siria del territorio occupato.
Dal 2000 i negoziati ufficiali tra Damasco e Tel Aviv sono fermi e ogni eventuale nuova trattativa dovrà di fatto ricominciare da zero. La Siria, che nell’ambito della guerra arabo-israeliana del 1973 tentò invano di liberare la regione, continua a condizionare ogni futuro accordo con Israele al suo ritiro dietro le linee del ‘4 giugno 1967’, vigilia dello scoppio della Guerra dei sei giorni. Ufficialmente favorevole a raggiungere un’intesa con la controparte, Tel Aviv considera però la richiesta siriana una ‘precondizione’ inaccettabile per avviare colloqui diretti. Tra febbraio e novembre 2010, il parlamento israeliano ha inoltre approvato due leggi che non faciliteranno certo la risoluzione consensuale della controversia: la prima prevede incentivi economici per chi sceglie di abitare negli insediamenti ebraici delle Alture; la seconda impone che una maggioranza qualificata di due terzi della Knesset ratifichi eventuali accordi di pace che prevedano il ritiro dall’altopiano. Qualora essa non fosse raggiunta, secondo la legge sarà necessario rivolgersi con un referendum all’intero popolo israeliano.
Il Golan (Jawlan in arabo) occupa un’area prevalentemente montuosa che si estende per circa 1800 chilometri quadrati come proseguimento meridionale della catena dell’Antilibano posta tra i moderni Libano e Siria. Tre quarti della sua area è sotto controllo israeliano, mentre il rimanente quarto nel 1974 è stato restituito alla Siria. Da allora, tra le due porzioni di territorio si estende, da nord a sud, una terra di nessuno sorvegliata dai caschi blu della forza Undof delle Nazioni Unite (United Nations Disengagement Observer Force), che mantengono il loro quartier generale ai margini di Qunaytra, capitale ‘liberata’ del Golan siriano, riconsegnata da Israele ai siriani dopo esser stata quasi completamente rasa al suolo.
I rilievi dell’altopiano controllano la piana siriana a est, mentre a ovest dominano il Lago di Tiberiade, l’alta valle del Giordano e parte della Galilea. A sud-est passa il fiume Yarmuk, mentre a nord-ovest si ergono le cime del gruppo del monte Hermon (Shaykh in arabo), sul cui picco, alto 2814 metri, sono da anni installate potenti stazioni radar israeliane. Da qui, lo stato ebraico vigila sulla valle libanese della Beqaa, bastione del movimento sciita filo-iraniano Hezbollah, e sulla periferia sud-occidentale di Damasco, distante appena 60 chilometri, dove sono schierate alcune delle divisioni chiave dell’esercito siriano.
Dall’antichità ai giorni nostri, passando per le conquiste arabo-islamiche e per le crociate, il Golan è stato più volte al centro di dispute e teatro di scontri militari, tanto che l’odierna contesa tra Siria e Israele appare come uno degli episodi di un avvincente sequel storico senza fine. Controllare i valichi delle Alture in passato ha sempre significato controllare le rotte commerciali e militari che collegavano Damasco con i porti della Palestina settentrionale. In epoca più recente, il Golan è stato anche il passaggio del Trans-Arabian Pipeline, oleodotto che fino allo scoppio della guerra civile libanese nel 1975 trasportava il greggio dai pozzi sauditi fino alla costa mediterranea a nord di Sidone. E sebbene l’avvento dei missili balistici e della tecnologia satellitare abbia ormai privato le Alture della sua secolare funzione di bastione difensivo, queste mantengono un’elevata importanza strategica, rimanendo il punto di passaggio e di confluenza di almeno il 15% delle risorse idriche di Israele. Il Lago di Tiberiade è la principale riserva d’acqua dolce dello stato ebraico e le sue sponde orientali sono inserite nella regione contesa, mentre i suoi affluenti settentrionale (Hasbani) e orientale (Banyas) s’ingrossano anche grazie ai corsi provenienti dall’altopiano. Il Golan è inoltre da più parti ormai considerato il ‘giardino’ di Israele: oltre ai vitigni dai quali si producono vini di fama internazionale, dalle sue terre proviene gran parte della produzione agricola del paese. Ambìto luogo di residenza per moltissimi israeliani, i suoi siti archeologici e naturalistici e le stazioni sciistiche sulle pendici sud dell’Hermon rendono le Alture una meta turistica sempre più richiesta. Tra le colline verdeggianti e i rilievi di basalto del plateau si distinguono però ancora oggi le rovine delle oltre 300 località siriane, sistematicamente distrutte dagli israeliani a partire dal 1974. Prima della guerra del 1967, la popolazione del Golan si aggirava intorno ai 140.000 siriani, 130.000 dei quali fuggirono profughi verso Damasco.
Dai dati del più recente censimento del 2009, poco meno di 80.000 sono i siriani che popolano la porzione di altopiano restituita a Damasco, mentre sono oltre 40.000 gli abitanti del Golan occupato da Israele. Di questi, circa 18.000 ebrei risiedono nelle 30 colonie agricole e nelle sei municipalità, la più importante delle quali è Katzrin (la siriana Qasrayn). Accanto a loro, circa 22.000 drusi si concentrano invece nelle quattro località di Majdal Shams, Mas‘ada, ‘Ayn Qiniya e Buq‘ata. A differenza dei drusi palestinesi della Galilea, la stragrande maggioranza dei loro correligionari del Golan rifiuta di esser naturalizzata israeliana. Pur usufruendo dei servizi di base forniti dallo stato ebraico, i drusi delle Alture rivendicano infatti la loro appartenenza alla madrepatria siriana.