Stati Uniti d'America, storia degli
La superpotenza del mondo
Nati nel 1776 da una rivoluzione contro il dominio coloniale britannico, gli Stati Uniti, con la loro Costituzione federale e il loro sistema politico, hanno dato vita al primo grande esperimento democratico della storia moderna e sono diventati nel corso di poco più di un secolo una delle prime potenze economiche mondiali. Lacerati da una drammatica guerra civile negli anni Sessanta del 19° secolo, sono stati poi proiettati verso uno straordinario sviluppo. Hanno giocato un ruolo crescente e poi primario nella storia dell’ultimo secolo: dapprima all’epoca delle due guerre mondiali, quindi nell’età del bipolarismo e della guerra fredda, e infine, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nella cosiddetta
Abitato prima dell’arrivo degli europei da tribù indiane solo in parte sedentarie, il territorio degli attuali Stati Uniti fu raggiunto tra il 1497 e il 1498 da Giovanni Caboto, che scoprì le coste atlantiche dell’America Settentrionale. Pochi anni più tardi, nel 1513, furono gli Spagnoli a raggiungere le coste della Florida. Seguirono ancora i Francesi che, con Giovanni da Verrazzano, tornarono a esplorare nel 1523-24 le coste atlantiche del Nord. I primi insediamenti europei iniziarono a costituirsi nella seconda metà del 16° secolo.
Protagonisti della colonizzazione furono gli Spagnoli, i Francesi, gli Olandesi e soprattutto gli Inglesi, i quali nel corso del Sei-Settecento giunsero a controllare gran parte delle regioni della costa orientale emarginando progressivamente le grandi potenze rivali. In questo processo – in cui giocarono un ruolo assai importante i coloni puritani fuggiti dalla madrepatria per sottrarsi alle persecuzioni religiose (puritanesimo) – rappresentò infine uno snodo decisivo la guerra dei Sette anni (1756-63), che riconobbe alla Gran Bretagna il dominio su gran parte del paese ai danni di Francia e Spagna.
All’indomani della guerra dei Sette anni si aprì un grave contrasto tra i coloni inglesi e la madrepatria, destinato ad approfondirsi in modo irreparabile nel corso del decennio successivo. Originato dall’oppressiva politica fiscale e commerciale della Gran Bretagna, esso diede origine alla Rivoluzione americana e portò nel 1776 alla dichiarazione di indipendenza delle tredici colonie e alla nascita degli Stati Uniti. Questi sviluppi provocarono una guerra con i Britannici che si concluse nel 1783 con il riconoscimento da parte della Gran Bretagna dell’indipendenza e della sovranità degli Stati Uniti, i quali poterono contare durante il conflitto sul sostegno della Francia, della Spagna e delle Province Unite.
Organizzata dapprima in senso confederale, vale a dire come una unione di Stati che mantenevano una sostanziale sovranità e autonomia, la nuova entità politica si diede nel 1787 una Costituzione di tipo federale, entrata in vigore nel 1789, rafforzando in tal modo le prerogative del potere centrale a scapito di quelle dei singoli Stati. La nuova Costituzione, tuttora vigente pur con alcuni importanti emendamenti, trovò la sua più ampia giustificazione teorica in un testo classico delle dottrine politiche contemporanee, Il federalista, scritto tra il 1887 e il 1888 da James Madison, Alexander Hamilton e John Jay.
Il nuovo Stato sorto nel 1776 e poi rimodellato dalla Costituzione federale costituiva una straordinaria eccezione rispetto ai modelli dominanti in Europa. Si trattava infatti – anche per effetto della peculiare forma assunta sin dall’origine dalle colonie britanniche in America – di uno Stato privo di gerarchie nobiliari e di ceto, basato sull’idea di una sostanziale eguaglianza dei diritti dei cittadini, sulla libertà politica e religiosa, sulla separazione tra Stato e Chiesa, e su una forte tradizione di autogoverno. Contrastava con questo quadro il permanere dell’istituto della schiavitù, che rimase alla base della struttura economica e sociale degli Stati del Sud, fondata su grandi piantagioni amministrate da una aristocrazia fondiaria di sentimenti conservatori e razzisti.
Con l’entrata in vigore della Costituzione, la quale istituiva un sistema politico di tipo presidenziale, fu eletto primo presidente degli Stati Uniti George Washington (1789-97). Gli succedettero al vertice del potere, nel quadro di complesse divisioni politiche, sollecitate anche dagli sviluppi della storia europea nell’epoca della rivoluzione francese e di Napoleone, altre eminenti personalità dell’epoca rivoluzionaria: John Adams (1797-1801), Thomas Jefferson (1801-09) e James Madison (1809-17).
Tra la fine del Settecento e gli anni Sessanta dell’Ottocento gli Stati Uniti andarono incontro a fondamentali trasformazioni. Essi ampliarono innanzitutto il proprio territorio attraverso la graduale colonizzazione delle regioni dell’Ovest, facendo avanzare la frontiera – un vero e proprio mito dell’identità nazionale americana – verso le coste del Pacifico, travolgendo e disintegrando le comunità degli Indiani d’America (pellirosse) molto spesso facendo ricorso a drammatiche violenze e a vere e proprie guerre di sterminio (Far West).
In questa marcia verso le loro attuali dimensioni continentali, gli Stati Uniti liquidarono anche gli ultimi residui della presenza europea con l’acquisto della Louisiana dalla Francia (1803), della Florida dalla Spagna (1810), dell’Alasca dalla Russia (1867). Dopo uno sfortunato conflitto con la Gran Bretagna nel 1812-14, altri importanti territori, quali per esempio il Texas, la California e il Nuovo Messico, furono acquisiti attraverso la guerra contro il Messico del 1845-48.
Un’altra caratteristica dello sviluppo statunitense di questi decenni fu la scelta di tenere lontano il paese dagli affari europei e dai conflitti rovinosi che caratterizzavano i rapporti tra le grandi potenze del Vecchio Mondo. Fissata con chiarezza già da Washington, questa strategia isolazionistica divenne nel 1823 una duratura dottrina della politica estera americana con il presidente James Monroe (1817-25), che mise peraltro in guardia le potenze europee da qualsiasi tentazione di ingerenza negli affari americani.
Un altro elemento peculiare dello sviluppo statunitense di questi decenni fu l’avvento, sin dall’epoca del presidente Andrew Jackson (1829-37), e pertanto con grande anticipo rispetto ad analoghi sviluppi europei, di un sistema democratico basato su un forte ampliamento del diritto di voto nel senso del suffragio universale e sul ruolo crescente dei moderni partiti politici.
Fu infine fondamentale il crescente contrasto che si venne a creare, sul tema cruciale della schiavitù tra gli Stati prevalentemente industriali, capitalistici e antischiavisti del Nord e gli Stati del Sud fondati sulle grandi piantagioni, aristocratici e prevalentemente schiavisti. In questo quadro gli Stati Uniti si dovettero confrontare con la sfida più grave della propria storia nazionale: con la secessione degli Stati del Sud e con la tremenda guerra civile che ne seguì tra il 1861 e il 1865 (guerra di Secessione), all’epoca della presidenza di Abraham Lincoln (1861-65).
Questa fase drammatica della storia statunitense si concluse con la totale disfatta del Sud e la definitiva abolizione della schiavitù (1865). Questo, però, non significò affatto l’emancipazione civile e politica dei Neri, che si realizzò pienamente soltanto un secolo più tardi. Seguì un periodo di ricostruzione, che pose le premesse per lo straordinario sviluppo del paese nei decenni successivi.
Negli ultimi decenni del 19° secolo gli Stati Uniti conobbero un periodo di grandissima espansione economica, nel segno di un processo di industrializzazione che portò il paese alla testa del capitalismo mondiale. Questa crescita eccezionale ebbe molteplici conseguenze: attirò enormi masse di emigrati dall’Europa e dal resto del mondo, trasformando il paese in quel tipico crogiuolo di razze che esso è poi rimasto sino ai nostri giorni; diede un enorme potere economico e sociale alle grandi aristocrazie degli affari e dell’industria; e suscitò a più riprese diverse forme di reazione delle classi medie e popolari.
A differenza di quanto avvenne in Europa, negli Stati Uniti non si radicò una forte tradizione socialista. In questa fase furono piuttosto la breve ma significativa esperienza del Partito populista negli anni Novanta del 19° secolo, insieme alla nascita e allo sviluppo di un forte movimento sindacale e poi il progressivismo del presidente Theodore Roosevelt (1901-09) a interpretare la richiesta di un ordine politico maggiormente sensibile alle esigenze dei ceti popolari e della giustizia sociale contro lo strapotere delle oligarchie dominanti.
Nel frattempo, e sempre sulla base della loro straordinaria crescita economica, gli Stati Uniti entrarono nell’arena dei grandi conflitti imperialistici e, in seguito a una guerra con la Spagna (1898), si appropriarono di Puerto Rico e delle Filippine, stabilendo una sorta di protettorato su Cuba. Essi rivendicarono anche i propri interessi in Cina.
Il paese abbandonò la sua tradizionale politica isolazionistica negli anni della Prima guerra mondiale (1914-18). Sotto la presidenza del democratico Thomas Woodrow Wilson (1913-21), che in politica interna riprese in parte il programma di Theodore Roosevelt, gli usa dapprima si dichiararono neutrali e poi, nel 1917, entrarono direttamente in guerra, schierando la loro enorme potenza industriale e finanziaria con le potenze dell’Intesa e contro gli Imperi centrali.
Terminato il conflitto, il presidente Wilson si fece promotore di un nuovo ordine internazionale fondato sui principi della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli e sulla creazione di una Società delle Nazioni in grado di dirimere, secondo i meccanismi della ‘sicurezza collettiva’, le controversie internazionali. Ma il Congresso e l’opinione pubblica americana preferirono tornare al tradizionale isolazionismo della politica estera statunitense, con il risultato che la Società delle Nazioni, voluta da Wilson, nacque senza la partecipazione degli Stati Uniti.
Dopo Wilson gli Stati Uniti furono guidati da tre presidenti repubblicani: Warren G. Harding (1921-23), Calvin Coolidge (1923-29) e Herber C. Hoover (1929-33). Sotto la presidenza di quest’ultimo, nel 1929 il paese fu investito da una crisi economica e finanziaria di enormi proporzioni, che si estese con effetti disastrosi all’intera Europa.
La Grande depressione favorì l’ascesa al potere del democratico Franklin Delano Roosevelt, che fu rieletto presidente per quattro volte, rimanendo alla guida degli Stati Uniti dal 1932 al 1945. Sul piano della politica interna egli avviò, pur tra forti resistenze, il New deal («nuovo patto»), una politica di riforme economiche e sociali che, fondate sull’intervento dello Stato e sul suo ruolo decisivo in quanto regolatore dei processi economici, dovevano portare il paese fuori dalla crisi.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale (1939-45) gli Stati Uniti dichiararono la propria neutralità. Sin dal principio, tuttavia, essi appoggiarono di fatto Gran Bretagna e Francia schierandosi contro Germania, Italia e Giappone. All’indomani del devastante attacco giapponese alla flotta americana di stanza a Pearl Harbor, nel dicembre 1941 il paese entrò in guerra ed ebbe un ruolo di primo piano, insieme all’Unione Sovietica e alla Gran Bretagna, nel contenimento e poi nella sconfitta della Germania nazista.
Dopo la capitolazione della Germania, a fronte della continuazione della guerra nel Pacifico da parte del Giappone, gli Stati Uniti – guidati dopo la morte di Roosevelt dal presidente Harry S. Truman (1945-53) – usarono per la prima volta la bomba atomica contro le due città di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945). Dopo quei devastanti bombardamenti, il conflitto ebbe fine. Ed ebbe inizio una nuova epoca delle relazioni internazionali in cui gli Stati Uniti, abbandonato definitivamente l’isolazionismo, dovevano giocare un ruolo decisivo a livello mondiale.
All’indomani della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si affermarono come la prima potenza mondiale, insieme all’Unione Sovietica, che però aveva patito immense distruzioni umane e materiali. Attraverso il piano Marshall (1947), essi ebbero un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’Europa occidentale dopo il conflitto e continuarono in seguito a esercitarvi una indiscussa egemonia.
Le relazioni con l’urss, dopo l’alleanza in funzione antinazista durante il conflitto, si fecero immediatamente assai tese, con rilevanti effetti anche sul clima interno, che fu investito da un’ondata di isteria anticomunista (il cosiddetto maccartismo) che raggiunse il culmine nella prima metà degli anni Cinquanta. Ebbe così inizio, a partire dal 1946-47, la cosiddetta età bipolare, età della guerra fredda e di un confronto ininterrotto – seppure costellato da diverse fasi di distensione e di coesistenza – tra le due superpotenze e i loro rispettivi blocchi a Occidente e a Oriente, contrapposti militarmente nella nato e nel Patto di Varsavia.
Questo confronto-scontro al tempo stesso ideologico, politico e militare, condotto nel quadro di una spaventosa corsa agli armamenti nucleari, si è protratto sostanzialmente sino al biennio 1989-91, quando l’impero sovietico è entrato in crisi per poi crollare del tutto in modo improvviso e inaspettatamente pacifico. In questa lunga fase, caratterizzata da momenti di gravissima tensione in Europa, nella stessa America Latina (in particolare a Cuba) e nel resto del mondo, gli Stati Uniti si sono trovati coinvolti in diversi conflitti, tra i quali vanno ricordati la guerra di Corea (1950-53) e la guerra del Vietnam (1964-75), risoltasi in una vera e propria disfatta per il paese.
Sul piano interno si sono alternati alla presidenza leader democratici e repubblicani: tra i primi, Harry Truman (1945-53), John F. Kennedy (1961-63), Lyndon B. Johnson (1963-69), Jimmy Carter (1977-81); tra i secondi, Dwight D. Eisenhower (1953-61), Richard Nixon (1969-74), Gerald R. Ford (1974-77), Ronald Reagan (1981-89) e George Bush (1989-93). Durante la presidenza di Bush, salito al potere dopo Reagan, che era stato fautore di una politica economica rigorosamente liberista (liberismo) e di una nuova offensiva ideologica, politica e anche militare contro l’Unione Sovietica, è giunta a compimento la disintegrazione dell’impero sovietico. Gli Stati Uniti hanno allora acquisito una posizione di primato incontrastato nel campo politico mondiale. Ha quindi avuto inizio una nuova e complessa epoca della loro storia.
Gli Stati Uniti sono stati governati nell’ultimo quindicennio da un presidente democratico, Bill Clinton (1992-2000), e da un presidente repubblicano, George W. Bush (insediatosi nel 2001), figlio del precedente presidente Bush. Ormai senza rivali, essi hanno esercitato un ruolo di primo piano nel sistema delle relazioni internazionali, ma in un contesto di crescente disordine mondiale e di una diffusa e, per certi aspetti, incontrollabile conflittualità, soprattutto nei Balcani, in svariate regioni dell’ex impero sovietico e in Medio Oriente.
I terribili attentati terroristici dell’11 settembre 2001, che, attuati da gruppi estremistici del fondamentalismo islamico, hanno colpito il World Trade Center a New York e il Pentagono a Washington, hanno posto una sfida assai grave alla ‘superpotenza solitaria’. La risposta americana a questa sfida, che il terrorismo di matrice islamica ha mantenuto ben viva negli anni successivi con nuovi attentati anche in Europa (a Madrid nel 2004 e a Londra nel 2005), ha inaugurato – dapprima con una guerra in Afghanistan (2001) e poi con una guerra contro l’Iraq (2003) – una fase di profonda instabilità nelle relazioni internazionali, dando anche origine, nel biennio 2003-04, a una grave e inedita crisi nelle relazioni tra gli Stati Uniti e alcuni dei maggiori paesi europei, come la Francia e la Germania.