Stati Uniti
Se il cinema è un'invenzione francese, il suo radicale sfruttamento in senso spettacolare appartiene senza dubbio agli Stati Uniti. Il maggiore inventore americano, Thomas Alva Edison, tentò anzi di attribuirsene la paternità, dal momento che sin dal 1888 aveva iniziato degli esperimenti per coniugare fonografo e fotografia in movimento. Sarebbe stato tuttavia il suo assistente William K.L. Dickson a inventare il cinetoscopio (negli S.U. peep show), un apparecchio ottico attraverso il quale con pochi spiccioli si poteva assistere a brevi azioni e vignette.
Adottata, comunque, l'invenzione francese, un altro associato di Edison, Edwin Stanton Porter, girò i primi veri e propri film d'oltre Atlantico: in particolare The great train robbery (1903; L'assalto al treno), un western archetipico provvisto di carrellate e di un primo piano (procedimenti a quel tempo del tutto inusitati). Innovatore assoluto, staccatosi da Edison, Porter portò presto a compimento la tecnica dello split screen, ovvero delle immagini multiple nella stessa inquadratura.
L'inevitabile natura letteraria del cinema delle origini, tuttavia, trovò in Edison il suo maggiore rappresentante: da Frankenstein (1910) a Treasure island (1912) entrambi di J. Searle Dawley, il nuovo mezzo trovò alimento per le sue storie nella ricchissima tradizione narrativa della letteratura mondiale.
Ben presto sorsero altre case di produzione, attirate dall'enorme successo che il cinema stava raccogliendo presso gli strati più bassi della popolazione (un'impronta classista che avrebbe pesato per decenni sul nuovo mezzo espressivo, guardato con sufficienza dagli intellettuali): fra queste la Edison Vitagraph Company, (v. Vitagraph Company of America), che avrebbe chiuso i battenti nel 1925), per la quale lavorarono in seguito attori della fama di Rodolfo Valentino e di Larry Semon (Ridolini), e che lanciò il personaggio comico di Happy Hooligan (Fortunello), interpretato dallo stesso fondatore della Vitagraph, James Stuart Blackton; la Kalem Company, la cui attività ebbe inizio nel 1907, celebrata per la cura visiva della sua produzione e una delle poche a non possedere studios (ne aprì uno solo in California, quando ormai l'epicentro produttivo si stava stabilizzando all'estremo Ovest del Paese), cui si devono film come Ben Hur (1907) e From the manger to the cross (1913), entrambi di Sidney Olcott, ma la cui maggior produzione fu di cortometraggi (circa 200 all'anno) fino a che nel 1919 il suo catalogo fu acquistato dalla Vitagraph; la Essanay di Chicago, specializzata in brevi western, ma soprattutto ideatrice di un personaggio, Broncho Billy, protagonista di cortometraggi le cui riprese venivano approntate su un treno equipaggiatissimo, e inoltre produttrice del primo Charlie Chaplin (15 film), di Max Linder e di Ben Turpin.
Fu a questo punto che nel neonato cinema degli S.U. si inserì un fenomeno (e un concetto) che avrebbe giocato un ruolo fondamentale ‒ sia pure per cause diverse e in diversi modi ‒ lungo l'intera sua storia: quello del cinema indipendente. Nel 1908 tutte le maggiori case di produzione statunitensi e francesi si associarono nella Motion Picture Patents Company (MPPC), un trust che imponeva il pagamento dei diritti di produzione e di distribuzione nel Paese ai produttori che intendessero usare le loro tecnologie. Nel 1909 un'emanazione della MPPC, la General Film Company, si impegnò a distribuire i film solo alle sale munite di una licenza concessa dalla stessa General Film. In breve, un colpo di mano monopolistico, al quale seguì la nascita di società produttrici e distributrici definite 'illegali'. Fra queste la American Flying A., specializzata in western avventurosamente girati in California; la Fox Film Corporation, che intentò causa, vincendola, alla MPPC e che ben presto divenne un'impresa gigantesca, lanciando, tra gli altri, la maggior vamp dell'epoca, Theda Bara; la Independent Motion Picture Corporation di Carl Laemmle, anch'egli vincitore di una causa contro la MPPC, che riuscì a strappare alla Vitagraph Mary Pickford e che nel 1912 avrebbe preso il nome di Universal Pictures, aprendo solo tre anni dopo l'enorme studio noto come Universal City (250 film nel primo anno di vita).
Questi cenni sono sufficienti per alcune considerazioni sul cinema statunitense nel suo insieme. Prima di tutto, la sua vocazione narrativa. Ciò vale naturalmente per gran parte della produzione cinematografica mondiale delle origini, ma è pur vero che se spesso il cinema degli esordi si rivolse alla letteratura e al teatro per trovare fonti di ispirazione tematica, nessuna cinematografia nazionale, nel prosieguo del tempo, si è mantenuta quantitativamente tanto fedele a tale vocazione: a un punto tale che proverbialmente il cinema statunitense viene considerato un'industria fondata sulla fiction. Da questo punto di vista il cinematografo non ha fatto altro che accogliere e amplificare una tradizione culturale che ha le sue radici nello stesso sviluppo storico degli S.U. come nazione. In particolare attingendo all'incomparabile quantità di racconti di cui è ricco l'Ottocento americano soprattutto sul versante frontieristico, ovverosia quell'aspetto dello sviluppo della nazione più legato a una cultura semplice, ingenua e talora rozza, per la quale la narrativa era stata per lungo tempo l'unico momento di intrattenimento in un ambiente pericoloso e selvaggio e in condizioni di vita spesso molto precarie. C'è qualcosa di simbolico nel fatto che il cinema nazionale, nato sulla costa Est, si sia mosso presto nella direzione dell'Ovest, trovando nella californiana Hollywood il suo luogo esemplare: come se il cinema avesse rifatto il percorso che un secolo prima aveva portato i pionieri a costruire una nuova civiltà nelle più remote plaghe di un continente inesplorato.
In secondo luogo, la straordinaria vocazione, sia finanziaria sia tecnica, mostrata dai primi pionieri di quell'industria restò come un marchio su di essa, indipendentemente dalle vicende, talora turbolente e drammatiche, vissute nel corso di un secolo e testimoni di enormi cambiamenti.
In terzo luogo, il cinema degli S.U. mostrò sin dagli albori la sua radice popolare, una componente fondamentale che si può riscontrare sia in un cortometraggio protonovecentesco sia in un sofisticato kolossal ipertecnologico di cent'anni dopo.Infine, il cinema statunitense si propose subito come il risultato di una tensione fra potenti trust e ardimentosi indipendenti, fra investimenti giganteschi e avventurose iniziative private di carattere amatoriale, non di rado destinate a un salto di qualità che le avrebbe portate a sostituire le prime. Il cinema indipendente (v. oltre) negli S.U. non solo assolse la funzione di garantire un prodotto intellettualmente e artisticamente diverso da quello fornito dal grande cinema popolare, ma anche e soprattutto contribuì in modo fondamentale, in specifiche occasioni, al rinnovamento e al rilancio del mercato cinematografico nazionale.
Quella che è stata definita la vocazione tecnica del cinema statunitense trovò presto la sua figura centrale, in epoca di muto, in David Wark Griffith. In breve, Griffith comprese che il cinema poteva e doveva essere ben più che il mezzo di registrazione visiva di una scena e che la macchina da presa poteva e doveva costruire un forte valore aggiunto all'azione drammatica. Non solo: egli articolò prima di ogni altro una retorica dell'obiettivo e del movimento di macchina, in tal modo fondando il cinema come arte. Nei circa 500 film che dal 1908 al 1913 Griffith girò per un'altra importante casa, la Biograph, il fermento del suo pensiero e della sua sperimentazione è evidente. Ma, uscito dalla Biograph, fu nel 1915 che il regista fornì la prima grande prova che un'arte nuova era finalmente nata: il lungometraggio The birth of a nation (Nascita di una nazione) segnò questa data di nascita, provocando al contempo enormi polemiche sulle componenti razziste dell'opera. Polemiche di gran rilievo, non solo per il loro valore civile, ma anche perché dimostrarono che il cinema, nell'arco di pochi anni, era diventato un mezzo di comunicazione superiore a quello che la maggior parte degli intellettuali dell'epoca aveva con sufficienza ritenuto. Nel 1918 uscì in risposta all'opera di Griffith quella che la stampa del tempo definì "la più grottesca chimera della storia del cinema": The birth of a race, un lungo film promosso dagli afroamericani di indirizzo riformista-integrazionista Booker T. Washington ed Emmett J. Scott, che intendeva mostrare il contributo del popolo nero alla costruzione dell'America e rifiutare gli stereotipi razziali del tempo, ma proprio a causa di questi temi scottanti si susseguirono difficoltà produttive, sino all'esautorazione totale del gruppo dei neri dalla direzione e produzione del film, che uscì a firma di John W. Noble. Fu peraltro un insuccesso di pubblico e di critica. Ma era stato un tentativo di fare cinema da parte degli afroamericani, che avevano comunque già realizzato nel 1912 il primo film, The railroad porter per la regia di William Foster. Nel frattempo, amareggiato, Griffith aveva dato alle stampe un pamphlet anticensorio, ma soprattutto aveva iniziato a girare un lungo film che intendeva rispondere alle critiche sin dal suo titolo, Intolerance (1916) e porsi a manifesto ‒ come indicava il sottotitolo ‒ della "lotta dell'amore nel corso delle epoche". Poco apprezzato dal pubblico (anche a causa della sua lunghezza), il film fu invece copiato da molti registi, soprattutto nella grandiosità scenografica dell'episodio babilonese, vera pietra miliare del genere storico kolossal. Griffith elaborò ulteriormente la sue straordinarie invenzioni linguistiche nei film seguenti, morendo dimenticato nel 1948. Con lui il cinema trovò nobiltà e orgoglio, coincidenti con una matura capacità di espressione artistica.A fianco del suo nome è tradizione citare quello di Thomas Harper Ince, in un certo senso l'equivalente di Griffith sul piano produttivo. Al lavoro con Laemmle come regista nel 1910, dopo poco tempo lasciò New York per la California per distinguersi nella produzione di western, spesso affidati a Francis Ford, fratello del più tardi celebre John. Nel 1913 produsse e diresse The battle of Gettysburg, nel quale furono impiegate insieme ben otto macchine da presa. Nel 1916 Ince, che ormai aveva alle sue dipendenze otto registi, produsse il suo film più ambizioso, Civilization, chiaramente ispirato al pressoché contemporaneo capolavoro di Griffith. Ince però merita una citazione qui non per la grandiosità delle sue produzioni o la sua indubitabile abilità imprenditoriale: egli fu infatti il primo produttore a praticare un assoluto controllo sui film, sia in sede preproduttiva sia in sede di realizzazione, e anche il primo ad assicurarsi il cosiddetto final cut, la versione finale del film (nonché tutte le decisioni in merito agli eventuali cambiamenti da apportarvi).
I primi vent'anni di cinema statunitense avevano posto solide fondamenta per quello che tale industria sarebbe diventata nel tempo, avviando una tradizione cui nel corso del suo sviluppo non sarebbe mai venuta meno; neanche riparando alcune delle tare originarie, nel senso che la cinematografia nera, allora ai suoi albori, si sviluppò continuando a essere sostanzialmente invisibile nel regime di monopolio produttivo e soprattutto distributivo. Ignorati, per es., furono i fratelli George e Noble Johnson, fondatori di una loro casa di produzione, la Lincoln Motion Picture Company, nel 1915, che esordì con The realization of a negro's ambition (1916) di Harry A. Gant, con protagonista lo stesso Noble Johnson, e che scomparve dopo un periodo di attività produttiva durante la Depressione. L'unico nome fra i cineasti neri che in qualche modo riuscì a imporsi fu quello di Oscar Micheaux, romanziere e intellettuale, che con The homesteader (1919) offrì uno straordinario spaccato del mondo nero americano con cowboy di colore e un'attenzione inusitata alle gerarchie di classe e alla mobilità sociale fra i neri statunitensi. E i suoi film del 1920, The symbol of the unconquered e il recentemente recuperato Within our gates, che pure offrivano elementi di estremo interesse sociale e, mostrando un'aperta critica al Ku Klux Klan, si potevano effettivamente presentare come gli anti Griffith, non ebbero invece l'attenzione che meritavano, oltre a essere in un certo senso cancellati dalla storia del cinema.
L'altro volto del cinema statunitense delle origini è quello comico. Amatissimo dal pubblico, esso vantava non innovazioni registiche paragonabili a quelle di Griffith, ma figure non meno grandi per capacità di costruire gag visive irresistibili. Anche in questo ambito il percorso fu lungo. Dai primi tentativi comici dello stesso Edison sin dal 1894 fino ai primi anni Venti (quando giunse a perfetto compimento l'arte di Charlie Chaplin e di Buster Keaton) il terreno delle comiche è costellato di nomi attoriali di varia grandezza, da Al Christie a Hal Roach (poi passato alla regia), da Fatty Arbuckle a Charlie Chase. E tuttavia il più ricordato non è un attore ma un regista, il canadese Mack Sennett, entrato alla Keystone Film Company (la più celebre casa di cortometraggi comici) nel 1912 e destinato a diventare non solo il regista di Mabel Normand (ottima attrice comica uscita dalla scuola di Griffith, oltre che regista dimenticata di ventitré film, di cui ne sono stati recuperati sette; tra i recuperi anche Molly-O', prodotto da Sennett e dalla Normand, che ne è protagonista nel 1921 per la regia di F. Richard Jones), ma soprattutto il creatore di una comicità fondata sulla velocità vorticosa di gag funamboliche. Il segreto di Sennett derivava da un accorto impiego della tecnica che Griffith stava sviluppando: il montaggio. La giustapposizione delle scene caricava le varie immagini, in sé già eccezionalmente dinamiche, di un ritmo mozzafiato: un modello, questo, che Sennett impose a chiunque intendesse fare del cinema comico. Cacce, inseguimenti, corse folli a bordo di mezzi improbabili, cadute da altezze vertiginose, Sennett non si fermò davanti a nulla. Ancora una volta dunque il cinema si saldava ad arti spettacolari più antiche, delle quali esso sembrava essere l'erede e il continuatore.
Sennett, tuttavia, si era limitato a un geniale uso del montaggio in funzione del ritmo. Presto altri artisti comici ne raccolsero l'eredità aggiungendovi uno spessore sentimentale e/o morale che permise loro di assurgere ad altezze ben maggiori di quelle del loro maestro.
Nel 1919 Charlie Chaplin, ormai famoso, aveva fondato con gli attori Mary Pickford e Douglas Fairbanks, unitamente a Griffith, la United Artists Corporation, sotto la cui egida si consacrò artista a pieno titolo con The kid (1921; Il monello), opera evidentemente autobiografica, piena di pathos e di sentimentalismo. L'intero decennio vide rifulgere la sua stella con capolavori che riscattarono il cinema comico dalla superficialità cui l'avevano confinato i cortometraggi delle origini.
Insieme a lui ‒ e da lui diversissimo ‒ il genio di Buster Keaton. Acrobata straordinario (sempre senza controfigura), anch'egli ebbe grande successo a partire dagli anni Venti con cortometraggi che restano fra i capolavori dell'intero cinema comico degli S.U. (Neighbors, 1920; The high sign, 1921; Cops, 1922, tutti diretti con Eddie Cline). La trovata centrale di Keaton fu la sua imperturbabile maschera di serietà anche nelle situazioni più difficili, imprevedibili, assurde. Da The navigator (1924; Il navigatore) diretto in collaborazione con Donald Crisp a The cameraman (1928; Io… e la scimmia, noto anche con il titolo Il cameraman) di Edward Sedgwick, i lungometraggi di Keaton impediscono ogni identificazione fra il protagonista e il pubblico, permettendo a quest'ultimo di mantenere un'autonoma possibilità di giudizio su personaggi, eventi e situazioni. Al cinema 'caldo' di Chaplin egli contrappose un cinema 'freddo', ma proprio per questo intellettualmente più rigoroso e ammirevole. La terza strada del cinema comico degli S.U. fu infine indicata e battuta da un duo popolarissimo, Stan Laurel e Oliver Hardy. In certo senso, tale strada era la risultante dell'incrocio fra il cinema di Chaplin e Keaton: da un lato l'esagitazione, lo scatto, il trambusto e dall'altro la flemma, la parentesi ritmica, il pianificato rallentamento dell'azione che sfocia nel caos. Dei tre il più realistico fu certamente il cinema di Chaplin, laddove quello di Keaton, pur nella sua imprevedibile vorticosità, appare più cerebrale. Il cinema di Laurel e Hardy, invece, sortisce un effetto surreale, emana una qualità atemporale e talvolta addirittura metafisica che non a caso contribuì a fare della coppia un'icona amatissima dai coevi surrealisti francesi. Tutto il cinema comico successivo ruotò attorno a questi tre modelli (e alle loro combinazioni), così che alcuni nomi pur amati a loro tempo dal pubblico, come Harold Lloyd o Harry Langdon, non furono che inferiori variazioni contemporanee.
Gli anni Venti, insomma, sono un decennio fondamentale nella formazione e nello sviluppo del cinema statunitense, una sorta di 'prima figura' che idealmente contiene tutte le altre; inoltre in quel periodo le grandi case produttrici imposero due modelli: a sé stesse lo studio system e al pubblico lo star system.
Il primo si riassume in un'organizzazione produttiva di carattere industriale imperniata sulla suddivisione del cinema nazionale in generi, vale a dire in tipi di film passibili di una comune classificazione in base a una serie di componenti facilmente ravvisabili. Data questa suddivisione, lo spazio e la scenografia stessa degli studios trovarono una diversificazione conseguente, così che per il set di film western o di film esotici i disegni, la costumistica e l'oggettistica di scena potevano e dovevano venire più volte utilizzati apportandovi solo superficiali variazioni. Questo permise di utilizzare gli studios allo stesso modo di una catena di montaggio, allineando quindi anche Hollywood ai modelli produttivi dell'industria statunitense ormai in piena espansione.
Il secondo fu invece una trovata pubblicitaria che tendeva ad attirare l'interesse del pubblico verso gli attori cinematografici considerati come modelli d'apparenza, di moda, di comportamento, di abitudini, di vita (v. anche divismo). Lo star system fondò un Olimpo nel quale brillavano come esseri semidivini attrici e attori i cui uffici stampa facevano a gara nell'inventare storie sulla loro vita da dare in pasto a una stampa ingorda e senza scrupoli. Non a caso furono proprio quelli gli anni in cui comparvero i primi giornalisti (anzi, spesso giornaliste) specializzati, dalla cui rubrica sembrava dipendere il futuro stesso della Fox o della Universal, oltreché ovviamente dei singoli interessati; e i film non venivano attribuiti a questo o quel regista, bensì agli attori protagonisti (un film 'della Garbo', 'di Valentino' e così via). Fenomeno difficile da definire, lo star system giocò sempre sull'orlo di un baratro, pubblicizzando abitudini stravaganti e comportamenti eterodossi tali da far presa sul pubblico medio, ma al tempo stesso impotente davanti a eventi che in modo troppo dirompente offendevano la morale dell'epoca (si pensi allo scandalo che travolse il comico Fatty Arbuckle): un'epoca nella quale, davanti alle proteste dei benpensanti, l'associazione dei produttori e distributori ritenne di doversi dare un codice etico di autoregolamentazione prima che esso venisse imposto dall'esterno. Il codice fu stilato da Will H. Hays (v. censura: Stati Uniti) e determinò la messa al bando di ogni scabrosità di carattere sessuale e di ogni situazione che potesse anche solo lontanamente turbare la sensibilità dello spettatore. Forse anche per questo gli anni Venti videro l'ascesa, ma anche il tramonto di registi dalla vocazione ambigua ed erotica: clamoroso il caso di Erich von Stroheim, già attore e assistente di Griffith, autore di forte moralità, che tuttavia offrì una trattazione dura e diretta dei suoi soggetti di adulterio, decadenza, scellerataggine in pellicole dalla lunghezza esorbitante. In meno di dieci anni (aveva esordito nel 1919 con Blind husbands, Mariti ciechi) Stroheim si trovò bandito dagli studios, che lo riaccettarono solo occasionalmente come attore caratterista.
Stroheim, inoltre, aprì una galleria alquanto importante nella storia del cinema di Hollywood, quella degli espatriati europei, per almeno una ventina d'anni nerbo di quell'industria e primo ma non ultimo esempio dell'eccezionale capacità americana di ottimizzare talenti di diversa provenienza. Gli anni Venti videro l'arrivo dall'Europa di personalità come Josef von Sternberg (lo scopritore di Marlene Dietrich) e di Ernst Lubitsch, maestro della commedia erotica, elegante e sofisticata. Anche negli anni Venti, tuttavia, non tutti i talenti vennero ottimizzati, e la cinematografia nera ‒ sparuta ma sempre alacre ‒ non trovò neanche in quel periodo uno spazio sufficiente a farsi conoscere e ad affermarsi nel mercato nazionale.
Furono gli anni Trenta, soprattutto a causa della fuga di artisti e intellettuali dalla Germania nazista, a fornire a Hollywood uno stuolo di registi di prima grandezza che avrebbero contribuito in modo decisivo a fare del cinema degli S.U. la più popolare forma di intrattenimento in tutto il mondo. Gli anni Trenta si segnalano però per un evento di ancor maggiore importanza: il consolidarsi su larga scala del cinema sonoro. L'invenzione della colonna sonora non fece altro che esaltare le componenti che avevano fatto del cinema statunitense lo spettacolo principe su scala planetaria: l'effetto di realtà di avventure mirabolanti, passioni travolgenti, inseguimenti mozzafiato si intensificò in modo da fare del cinema (o almeno del cinema narrativo) una sorta di realtà virtuale ante litteram, un universo alternativo articolato e credibile, tanto da fornire ai più sensibili e sognatori un rifugio onirico senza precedenti. Non per nulla nacque in quel decennio una narrativa in prosa che prendeva Hollywood a proprio centro, e disperati ossessionati dalla bellezza e dal successo a propri protagonisti (un titolo per tutti: The day of the locust di N. West, pubblicato nel 1939). Il sonoro insomma giunse ad attribuire ai prodotti di Hollywood una verosimiglianza e una credibilità tali da scatenare una sorta di psicopatologia, ovviamente alimentata dalle terribili condizioni in cui l'intero Paese era caduto a causa della Grande crisi e della Depressione.
Era inevitabile che il cinema statunitense si sviluppasse allora in due direzioni opposte: la direzione del realismo sociale più forte e marcato, con film che descrivevano le precarie condizioni di ampie fasce della popolazione e la pervasività della malavita nel tessuto sociale (e della quale il gangster film segnò l'apice) e la direzione dell'assoluto rifiuto di quella realtà a favore di un mondo incantato fatto di eleganza, bellezza, ricchezza, che in certa misura rimandava allo spensierato decennio precedente (i roaring Twenties, 'i ruggenti anni Venti') e che sullo schermo si concretizzò soprattutto nel musical, genere che all'epoca vide il trionfo della coppia Fred Astaire/Ginger Rogers.
In più di un musical firmato (o coreografato) da Busby Berkeley si può osservare una convergenza delle due opposte direzioni (per es. le difficoltà economiche che la Depressione causava all'allestimento di uno spettacolo musicale teatrale in 42nd street, 1933, Quarantaduesima strada, di Lloyd Bacon), ma era pur sempre l'incantesimo di musica, danza, canto a figurare come protagonista dei vari film. Le coreografie berkeleyane, inoltre, aprirono una strada ‒ teorica oltre che pratica ‒ di estrema importanza nella storia del cinema statunitense, dal momento che per la prima volta la macchina da presa, incurante di qualsivoglia verosimiglianza, 'sfondò' gloriosamente lo spazio teatrale originario per attribuire al cinema il suo ruolo di mezzo non solo e non tanto di riproduzione della realtà, ma anche e soprattutto di creazione di universi e dimensioni nuove. La rivoluzione del sonoro causò non pochi drammi a coloro, attori e maestranze, che non riuscirono ad adeguarvisi. Ma portò anche a compimento la concentrazione del potere nelle mani di alcuni produttori. Laemmle aveva acquistato la Universal, Harry Cohn guidava come un tiranno la Columbia Pictures Corporation, il proprietario di sale cinematografiche Marc Loew si era unito a Samuel Goldwyn rinnovando gli studios della giovane Metro Goldwyn Mayer, i quattro fratelli Warner, ex macellai, dominavano il cinema di ispirazione sociale. In quegli anni una rigida divisione del lavoro portò un altissimo quoziente di professionalità nei singoli settori di specializzazione. In un certo senso questa considerazione può essere applicata anche agli attori, che le case di produzione classificarono e impiegarono in relazione al tipo fisico e al carattere. Gli anni Trenta furono in sostanza il periodo in cui il cinema degli S.U. stabilizzò e perfezionò i suoi assetti, ampliando smisuratamente uno star system in cui star mondiali brillavano in ogni singola produzione e venivano scambiate con un gioco di vendite, acquisti e prestiti a cifre vertiginose. L'operazione di perfezionamento e stabilizzazione, peraltro, comprese anche la messa a fuoco sempre più precisa dei generi cinematografici, e anche l'ampliamento della loro casistica. Viene tradizionalmente attribuita a questo decennio, per es., la nascita della screwball comedy ‒ un tipo di commedia pazzerella dal passo vertiginoso nella quale le qualità saturnine e la capricciosa determinazione dei personaggi prevalevano sulla logica delle circostanze ‒ che coincise con l'uscita del pluripremiato It happened one night (1934; Accadde una notte) di Frank Capra, anche se ben più di Capra in questo genere (come in molti altri) si distinse Howard Hawks, con titoli come Twentieth century (1934; Ventesimo secolo) e Bringing up baby (1938; Susanna!).
Gli anni Trenta, comunque, vantano i maggiori maestri nella storia di quel cinema, dalla mano inimitabile di E. Lubitsch nella commedia a quella di King Vidor e di Frank Borzage nel melodramma. Tuttavia, mentre la commedia si faceva a suo modo beffe della Depressione inscenando le imprese di ladri gentiluomini e di giovani miliardarie viziate, il film drammatico si trovò nella difficile posizione di trattare l'argomento fingendo di trascurarlo: in altre parole, di affrontarlo metaforicamente. E gli schermi statunitensi si riempirono di nobili medici che si sottoponevano a sacrifici durissimi, di storie sentimentali tristi, di frustrazioni davanti alle difficoltà della vita, e nell'insieme di una visione del mondo che adombrava il difficile momento vissuto dal Paese. In qualche raro caso il tema venne affrontato in modo più direttamente riconoscibile, come nella coraggiosa difesa e celebrazione di un esperimento di collettivismo rurale, Our daily bread (1934; Il nostro pane quotidiano) di Vidor, che non riportò alcun successo di pubblico. Concepito come un documentario, esso era tuttavia un'opera di fiction e di conseguenza non poteva che deludere un pubblico che nel cinema cercava una temporanea parentesi alle angustie del reale, le quali erano state in larga misura confinate, appunto, all'ambito del documentario, un genere molto incoraggiato dal New Deal varato nel 1929 dall'amministrazione del presidente F.D. Roosevelt.
Nell'insieme, dunque, non meraviglia che gran parte della produzione drammatica del periodo si incentrasse su temi e luoghi spesso esotici e comunque estranei alla realtà nazionale contemporanea: Wuthering heights (1939; La voce nella tempesta) e Jezebel (1938; Figlia del vento), ambedue di William Wyler, Camille (1937; Margherita Gautier) di George Cukor, Queen Christina (1933; La regina Cristina) e Becky Sharp (1935), ambedue di Rouben Mamoulian, quasi tutta la produzione di Cecil B. DeMille e di J. von Sternberg testimoniano bene, sia pure in modi diversi e connessi alle personalità dei loro autori, che il pubblico chiedeva al cinema di sospendere il suo potenziale interesse nei confronti dell'America del tempo, di aprire una porta verso mondi più o meno fantastici, sempre alternativi a quello reale. E quand'anche il mondo reale avesse prepotentemente premuto per entrare sugli schermi, esso veniva comunque trasformato in un momento del passato, come nel caso celeberrimo di Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming. Per questo tornò ben presto in auge il film d'avventura, la storia marinara, l'epopea di cappa e spada e nell'insieme l'entusiasmante spettacolo di ardimento e nobiltà, di prestanza e coraggio che si identificò nell'Errol Flynn di Captain Blood (1935; Capitan Blood) di un altro esule, Michael Curtiz.
E a suo modo una fuga fu anche un altro intero genere cinematografico, sporadicamente presente lungo tutta la storia del cinema statunitense, ma consolidatosi soltanto in quel decennio: il film horror. La Universal ne divenne la principale casa di produzione con titoli storici come Frankenstein (1931) di James Whale e Dracula (1931) di Tod Browning. Ma quello che poteva sembrare un innocuo spettacolo fantastico aveva radici ideologiche riconoscibili: quasi sempre ambientati in regioni misteriose e/o inaccessibili della vecchia Europa, tali film suggerivano un'immagine sostanzialmente xenofoba del vecchio continente, visto come una sentina di orrori e corruzione, minaccia incombente (talvolta in modo diretto: in alcuni film il mostro sbarca addirittura in America) dell'integrità e dell'innocenza degli Stati Uniti. Dietro quello che può apparire un divertente intrattenimento si celava l'elaborazione di un'ideologia, una visione del mondo e persino un accenno di politica, interna o estera che fosse, che fanno del cinema ‒ soprattutto in anni tribolati e complessi come i Trenta ‒ un magnifico territorio per comprendere quale davvero fosse il polso della nazione.
L'ascesa al potere del nazismo nel 1933 portò non pochi registi e intellettuali tedeschi a fuggire dalla madre patria verso il nuovo continente: Fritz Lang, Billy Wilder, Edgar Ulmer, Douglas Sirk (d'origine danese), Robert Siodmak, Bertolt Brecht, il celebre regista teatrale Max Reinhardt, per citarne solo alcuni. A essi si aggiunsero in seguito, per altre ragioni, autori di altre nazioni europee, come Alfred Hitchcock dalla Gran Bretagna, Jean Renoir, René Clair, il tedesco Max Ophuls dalla Francia e così via. In breve tempo Hollywood si trovò in grado di impiegare il fior fiore della cinematografia europea (compresi fotografi e scenografi di prim'ordine), parte della quale si era formata, direttamente o meno, alla scuola dell'Espressionismo. Ciò dette presto i suoi frutti: il cinema statunitense degli anni Quaranta fu in certa misura la risultante dell'incontro fra l'efficienza del sistema industriale hollywoodiano e la genialità, l'umorismo, l'eleganza, la cultura di un'Europa che nell'America aveva trovato un terreno ove trapiantare alcuni semi della propria tradizione. Questo naturalmente non vale per il cinema di produzione afroamericana, che peraltro incominciava ad avere i suoi divi famosi fra la minoranza cui si rivolgeva: Bee Freeman, che Micheaux chiamava 'la Mae West color seppia', o Lorenzo Tucker, che egli aveva battezzato 'il Valentino nero', e che comparirono in film melodrammatici e addirittura a tema gangsteristico.
È d'uso ricordare che negli anni Quaranta l'influsso europeo sul cinema di Hollywood trovò un esito particolarmente evidente nel nascente genere noir, un tipo di poliziesco che lasciava grande spazio all'atmosfera cupa dei luoghi e che insisteva sull'individualità del detective e sul suo modo di relazionarsi agli altri personaggi più che celebrare la logica dell'indagine. In effetti la costruzione del chiaroscuro notturno in questi film deve non poco alla luministica del cinema espressionista tedesco, e la stessa scenografia lo richiama attraverso le sue ossessioni, incentrate sul contrasto fra grande e piccolo o fra linee spezzate e spirale. Cinema eminentemente metropolitano, il noir segna la pur discutibile riscossa dell'urbanizzazione che, esplosa verso la fine dell'Ottocento, aveva forzatamente segnato il passo ‒ almeno in linea teorica ‒ davanti alla politica economica e all'ideologia di rilancio rurale del New Deal. Il noir peraltro non afferma un visione idilliaca e positiva della città, ma la assume come unico teatro della commedia (e della tragedia) umana, luogo di peccato, violenza, corruzione e di eventuale riscatto (o comunque di vendetta): spesso, se non altro in omaggio al codice Hays, di giustizia finale. In parte derivati dalla narrativa di D. Hammett, J.M. Cain e R. Chandler, i noir di Hawks, Edward Dmytryk, F. Lang, R. Siodmak, Otto Preminger, Lewis Milestone e di tanti altri costruirono un archetipo con cui il cinema statunitense ha dovuto in seguito regolarmente misurarsi.Ma non si comprenderebbe molto degli anni Quaranta se non si tenesse conto dell'enorme cambiamento storico vissuto dal Paese. Da un lato le profonde frustrazioni provocate dalla Depressione, faticosamente arginate dall'azione del New Deal lungo tutto il decennio precedente; dall'altro la minaccia e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, che, dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor (7 dicembre 1941), portò F.D. Roosevelt a mutare radicalmente il suo isolazionismo in politica estera, con inevitabili ulteriori sacrifici per il Paese. Tutto questo ebbe pesanti ripercussioni sullo spirito nazionale, del quale il pessimismo e il cinismo del noir sono forse il volto più eloquente. Si pensi a melodrammi western come The treasure of the Sierra Madre (1948; Il tesoro della Sierra Madre) di John Huston, Duel in the Sun (1946; Duello al sole) di K. Vidor, Pursued (1947; Notte senza fine) di Raoul Walsh; si pensi al feroce disincanto che governa il primo, alla tensione passionale sovracuta e insostenibile esemplata dal secondo, al regime notturno e alle incertezze psicologiche del terzo; tutte forme diverse ma analoghe di esprimere la perdita di innocenza che serpeggiava nel Paese almeno dai tempi della Grande crisi, e che finalmente aveva trovato una rappresentazione figurativa in film che di tale perdita erano non piatta registrazione, ma, ben più finemente, sintomi inquietanti.
Persino il cinema comico fornì evidenti esempi di questa atmosfera opprimente e difficile: gli anni Quaranta videro l'esordio nella regia di Billy Wilder, già formidabile sceneggiatore, che da The major and the minor (1942; Frutto proibito) in poi avrebbe dato per quarant'anni ‒ insieme ad altre opere di carattere drammatico ‒ alcune delle commedie più amare dell'intero cinema statunitense, e anche il trionfo come regista di un altro sceneggiatore eminentemente comico, Preston Sturges, celebre per la sua graffiante critica a istituzioni, miti e tabù nazionali. La maliziosa e mascherata licenziosità della commedia alla Lubitsch aveva lasciato il passo a un sorridente e amaro cinismo che avrebbe dominato l'intero decennio. Cosa che peraltro non impedì a Hollywood di confezionare altrettanto straordinarie commedie brillanti, lontane da quella dura sensibilità ma comunque non estranee ‒ sia pure in modi lievi e affabili ‒ a un'intenzione di critica sociale, come per es. The Philadelphia story (1940; Scandalo a Filadelfia) di Cukor, o di confronto fra maschile e femminile in termini più inusitati e moderni, come in Adam's rib (1949; La costola di Adamo) ancora di Cukor.
Dal canto suo il cinema nero subì in quel decennio alcuni cambiamenti. Hollywood incominciò infatti a interessarsi al mondo di colore in modo meno occasionale che nel passato. Nel 1940 per la prima volta, e forse a fini pubblicitari o per evitare polemiche sul contenuto del film, venne assegnato l'Oscar a un'attrice non protagonista di colore, Hattie McDaniel, per il ruolo di Mammy in Gone with the wind. Nel 1943 la Metro Goldwyn Mayer e la 20th Century-Fox produssero due film all black, rispettivamente Cabin in the sky (Due cuori in cielo) di Vincente Minnelli e Stormy weather di Andrew L. Stone, commedie musicali davanti alle quali non vi era opera di Micheaux o di altri che dal punto di vista spettacolare potesse reggere il confronto. Certo, questi film non contribuivano affatto alla causa del riscatto razziale, e anzi enfatizzavano stereotipi diffusi. Ma è pur vero che i neri entravano di nuovo nell'agenda hollywoodiana da protagonisti e non da buffe comparse.
L'entrata in guerra degli S.U. nel 1941 avrebbe a sua volta generato conseguenze rimarchevoli anche sul cinema nazionale. Non solo per il cospicuo numero di film di carattere propagandistico che ne derivarono (anche se la massiccia produzione di film bellici investì il mercato, come spesso nella storia del cinema statunitense, solo a guerra finita), ma anche per il diverso ruolo che le donne assunsero nella società. Il massiccio impegno maschile sul fronte del Pacifico, e in seguito su quello europeo, comportò un forte inserimento femminile nel tessuto produttivo nazionale. Le donne si trovarono a occupare uno spazio che, pur non essendo stato loro estraneo nel recente passato, era ora divenuto per loro una sorta di territorio privilegiato. Ciò spiega la nascita di un genere cinematografico particolare, noto come woman's film, nel quale la donna non solo è la protagonista principale, ma è osservata e descritta in termini infinitamente più attivi, aggressivi, decisionali di quelli che avevano caratterizzato la sua immagine cinematografica nel passato. All'oggetto di adorazione maschile semidivino e sostanzialmente statico veniva a sostituirsi una personalità forte, moderna, intraprendente, nella quale questa nuova anima conviveva con il tradizionale sentimentalismo e la classica fragilità passionale che da sempre ne avevano testimoniato la vulnerabilità. Film come The great lie (1941; La grande menzogna) di Edmund Goulding o Mildred Pierce (1945; Il romanzo di Mildred) di Curtiz o Random harvest (1942; Prigionieri del passato) di Mervin LeRoy, rispettivamente interpretati da Bette Davis, Joan Crawford e Greer Garson, le attrici più importanti e rappresentative di questo settore, sono perfetti esempi della nuova sensibilità.
Persino il musical, genere di evasione per eccellenza, si adeguò al nuovo spirito passando dagli sfavillanti quadri coreografici e scenografici degli anni Trenta ad ambienti più realistici e quotidiani, e inaugurando così un filone 'domestico' nel quale musica, danza e canto si integrarono rinnovando, per così dire, le bellezze della dimensione familiare (la coppia Mickey Rooney/Judy Garland fece scuola). È, questa, una direzione che il genere non avrebbe più abbandonato, anche se in alcuni autori (soprattutto Minnelli) riapparve non di rado il mondo onirico, favoloso, esotico del passato, da The pirate (1948; Il pirata) a Kismet (1955; Uno straniero tra gli angeli), ambedue di Minnelli. E proprio nel musical ‒ ma ancora di più nel genere melodrammatico ‒ gli anni Quaranta inaugurarono la moda del film biografico: da astri del palcoscenico come George M. Cohan (Yankee doodle dandy, 1942, Ribalta di gloria, di Curtiz) e Jerome Kern (Till the clouds roll by, 1946, Nuvole passeggere, di Richard Whorf) a luminari della medicina come il Dr. Ehr-lich (Dr. Ehrlich's magic bullet o The story of Dr. Ehrlich's magic bullet, 1940, Un uomo contro la morte, di William Dieterle) o Madame Curie (Madame Curie, 1943, di LeRoy) e della letteratura come Émile Zola (The life of Emile Zola, 1937, Emilio Zola, di Dieterle), gli schermi statunitensi pullularono di biopics alquanto romanzati, che narravano di contrasti strazianti fra dovere, onore, amore, così come del resto stava avvenendo nel melodramma non biografico. Se tale pratica poteva trovare una motivazione fondata nell'intento di additare al Paese le vite tribolate di eroi divenuti ormai mitici nella coscienza popolare, così da esaltare insieme sia le tradizioni nazionali sia la forza, la volontà, il coraggio necessari alla nazione in tempi difficili come quelli che stava vivendo, forse meno chiara è la ragione per cui in questa galleria figurarono personalità straniere (da Elisabetta I d'Inghilterra a Massimiliano d'Asburgo). In realtà, il discorso che Hollywood aveva elaborato non era difficile da decifrare: chiunque era chiamato a una resa dei conti con la storia e doveva affrontare una realtà inarrestabile con coraggio, determinazione, sacrificio. Di questo nuovo corso elaborato da Hollywood negli anni Quaranta, si trova traccia in varia misura in quasi ogni suo film.Ma un altro, e meno nobile appello nazionale, si stava preparando nel cinema degli Stati Uniti. A guerra finita scoppiò nel Paese un'isteria che provocò non poche vittime. La suddivisione dell'Europa dopo gli accordi di Jalta (1945) gettò gli S.U. in uno stato di irreversibile paranoia nei confronti del comunismo: cominciò la caccia alle streghe. Nel 1947, su istigazione del senatore repubblicano J.R. McCarthy, venne istituita la commissione per le attività antiamericane (HUAC, House Un-American Activities Commettee), e Hollywood ne fu il primo bersaglio (v. maccartismo). Il cinema ‒ l'avevano ben capito P.I. Goebbels, F.D. Roosevelt e I. Stalin ‒ era una potentissima macchina di propaganda, e dunque non era possibile lasciarlo in mano a potenziali nemici dell'unità nazionale. Caddero le teste di coloro che non vollero testimoniare per non incriminare colleghi innocenti, e caddero anche coloro che testimoniarono per paura, come Elia Kazan e Dmy-tryk, vittime non meno degli altri. I 'dieci di Hollywood' furono ostracizzati, molti perseguitati tornarono o fuggirono in Europa, e il cinema statunitense produsse una serie di film ridicoli e tragici insieme, nei quali il mostro comunista era descritto a tinte truci e inverosimili. Melodrammi e fantascienza fecero a gara per mostrare, direttamente o metaforicamente, le atrocità dei rossi in film che, rivisti dopo decenni, hanno dell'incredibile.
È possibile che proprio per queste ragioni il genere più apparentato con l'incredibile, insieme all'horror, ossia la fantascienza, trovò negli anni Cinquanta uno spazio ben più ampio che nel passato. Da un lato infatti il pericolo atomico era un suo tema naturale, dall'altro le minacce di invasione, che spesso quel genere aveva tratto dall'ambito letterario, potevano bene essere intese come metafora di invasioni molto più verosimili. Dall'altro, lo sviluppo del cinema fantascientifico in quel decennio non può essere spiegato unicamente in relazione alla situazione politica. Nel 1944 era andata in onda la prima trasmissione televisiva sperimentale e in pochi anni la televisione era diventata il primo mezzo di intrattenimento nazionale. Negli anni Cinquanta, di conseguenza, il cinema entrò in crisi. Se a questo si aggiunge l'inevitabile crisi attoriale (i divi degli anni Trenta e Quaranta stavano naturalmente invecchiando) non è difficile comprendere che stava prendendo corpo un enorme ricambio che coinvolgeva l'intero cinema degli Stati Uniti. La televisione aveva profondamente cambiato il pubblico. Mezzo domestico per eccellenza, essa aveva lasciato il cinema nelle mani di platee giovani e giovanissime per le quali un melodramma con Bette Davis o un musical esotico non avevano molta attrattiva. Questo portò Hollywood sull'orlo di una crisi catastrofica, dalla quale essa tentò di riprendersi investendo in ambiti diversi da quello cinematografico (la Paramount nel petrolio, la Warner Bros. nell'editoria, la MGM nell'industria discografica e alberghiera e così via). Uno spazio importante dunque si aprì per le piccole case indipendenti che, ben più attente e intraprendenti delle maggiori, si lanciarono su un cinema che attirasse il giovane pubblico (v. indipendente, cinema; new american cinema). Mentre le majors si limitavano a proporre volti nuovi che interpretassero il disagio, l'irrequietezza e la rivolta delle giovani generazioni (Marlon Brando e James Dean, in primo luogo), piccole case come la AIP (American International Pictures), non godendo di un apparato capace di imporre nuove e forti personalità, elaborarono una politica dei generi di basso budget su ambienti e argomenti in qualche modo familiari ai giovani e comunque abbastanza irridentemente sensazionalistici da ammiccare al loro senso dell'ironia (v. giovanile, cinema). Un esempio, eloquente anche nei titoli, di tali politiche produttive è fornito da film come Sorority girl (1957) di Roger Corman, I was a teenage werewolf (1957) di Gene Fowler, Teenage caveman (1958) ancora di Corman, High school confidential (1958; Operazione segreta) di Jack Arnold.
Nel frattempo, e per la stessa ragione, Hollywood si stava prodigando nella ricerca di altri motivi di richiamo del pubblico nelle sale: è degli anni Cinquanta il lancio del Cinemascope (e poi, con meno successo, del Cinerama), del 3D e di altre tecniche, spesso poco più che attrazioni da baraccone, la cui funzione era appunto quella di rinvigorire un interesse per il cinema che si stava progressivamente affievolendo. Forse mai come in quel decennio il cinema statunitense era tornato alle sue origini di spettacolo delle meraviglie, nel tentativo di riguadagnare alle sale un pubblico che questa volta era tutt'altro che ingenuo. Così gli horror e la fantascienza di Corman, che cinquant'anni prima avrebbero potuto impressionare una platea nuova al cinema, non potevano ormai essere concepiti e intesi altrimenti che come camp, come intenzionale e ammiccante esercizio di cattivo gusto.
Ma proprio Corman e gli altri produttori indipendenti si trovarono destinati a salvare il cinema nazionale ormai nelle spire di una crisi che aveva termini di paragone solo nell'avvento del sonoro. Non si trattò soltanto di una questione economica. Gli indipendenti vararono un tipo di cinema che, nella sua involontaria ispirazione alla semplicità e all'ingenuità delle origini, funse da lavacro e da rinnovamento per l'intero cinema statunitense. Anche perché, elemento non trascurabile, sotto la loro egida militarono, giovanissimi, quelli che sarebbero ben presto divenuti i migliori nomi della rinascita industriale di Hollywood. Per Corman lavorarono Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Jack Nicholson, Monte Hellman, Jonathan Demme, Joe Dante e tanti altri.Naturalmente Hollywood era ben lungi dall'essere defunta. Tuttavia, è un fatto che negli anni Cinquanta si assistette al lento e inesorabile declino di almeno due generi un tempo gloriosi, il western e il musical, mentre altri generi, come il film drammatico e la commedia, subirono notevoli involuzioni che li allontanarono sensibilmente dai loro modelli classici. Si pensi alle commediole casalinghe con Doris Day, magnifico segnale, fra l'altro, del tentativo di recuperare le donne a spazi, ruoli, funzioni e ideologia precedenti il periodo bellico; si pensi a quanto i melodrammi, per es., di Mark Robson o, su un piano artistico superiore, di Minnelli ‒ fra i vari titoli, e rispettivamente, From the terrace (1960; Dalla terrazza) e Home from the hill (1960; A casa dopo l'uragano) ‒ siano debitori all'allora nascente soap opera televisiva. A Hollywood insomma tirava aria di smobilitazione: persino la Republic Pictures, una casa piccola ma agguerrita che aveva continuato a produrre nella direzione delle majors, nel 1958 si sciolse, mentre la Universal passava di proprietà, la Columbia era in passivo, e la Paramount si trovò in attivo soltanto perché le furono pagate le percentuali arretrate di 700 film anteriori al 1948 venduti alla televisione.
Pure, gli anni Cinquanta non mancarono di registi eccezionali e di capolavori. Furono gli anni del miglior Hitchcock, delle ultime opere americane di F. Lang, del grande momento di maturazione del western fordiano, della cinematografia sofferta e barocca di Nicholas Ray, dell'esplosione melodrammatica di Kazan e Sirk, degli esordi di un genio innovativo come Robert Aldrich (per non parlare dei grandi Wilder e di Minnelli). La crisi, insomma, non era certo di intelligenza e di ispirazione. Essa dunque non ebbe particolari contraccolpi sulla qualità dei prodotti, ma agì soprattutto sull'aspetto finanziario del sistema e, su un piano formale e creativo, sull'organizzazione del prodotto. Risale proprio a tale crisi, infatti, quella che successivamente sarebbe stata definita la 'contaminazione dei generi', vale a dire una revisione della suddivisione categoriale istituita dallo studio system a fini di economia industriale.
Oppresso dalla censura maccartista, piantonato dalle associazioni religiose, assediato dalla competizione del nuovo mezzo televisivo, il cinema delle majors vedeva ogni giorno ridursi il suo terreno: privato per speciose ragioni politiche dei migliori sceneggiatori, costretto a una descrizione castigata del mondo (marito e moglie, per es., non potevano essere mostrati insieme in un letto matrimoniale: i letti dovevano essere rigorosamente separati), impreparato al radicale ricambio di pubblico che le piccole case indipendenti stavano riuscendo in certa misura a strappargli, esso tentò con impaccio di adeguarsi alla situazione. Con impaccio perché, se da un lato cercò di trattare temi difficili, controversi e scabrosi che attirassero l'attenzione del pubblico, giovane o meno, dall'altro non poté fare a meno di imporsi restrizioni e distinguo che vanificarono tali tentativi. Due esempi per tutti: la censura sull'ammissione di omosessualità in Serenade (1956; Serenata) di Anthony Mann e in The children's hour (1961; Quelle due) di William Wyler. Ma forse ancor più esemplare è il caso di A summer place (1959; Scandalo al sole) di Delmer Daves, opera paradigmatica del tipo di risposta che Hollywood fu capace di dare al cinema adolescenziale proposto con successo dai piccoli indipendenti. Zeppo delle più diverse problematiche (i conflitti basati sulle differenze di classe, l'alcolismo, le difficoltà inerenti al divorzio, la sessualità giovanile e altro ancora), il film finisce per non trattarne esaurientemente nemmeno una. E le stesse giovani promesse attoriali che tentò di lanciare, Troy Donahue e Sandra Dee, con i loro eleganti maglioni di cachemire e le gonne a campana, impallidiscono davanti ai pur stereotipati liceali della produzione Corman.
Ma tutto questo appartiene a un mondo che stava ormai per finire. L'anticomunismo degli S. U. aveva perso il suo smalto allo scadere del decennio, e di lì a poco, nel 1960, fu eletto presidente J.F. Kennedy. Non fu tanto il suo slogan della 'nuova frontiera' a cambiare le cose, quanto il suo assassinio a Dallas (1963), un evento che mutò profondamente l'intera cultura americana gettando una lunga ombra di sospetto e di incertezza sull'intero Paese. Da quel momento non vi fu una sola espressione del pensiero elaborato dalla nazione su sé stessa che non fosse condizionato da ciò che quella tragedia nascondeva. Nella narrativa, per es., si aprì una lunga catena di romanzi a carattere paranoico (dei quali Th. Pynchon è probabilmente l'autore più rappresentativo), il cui registro è riconoscibile in alcuni film degli anni Sessanta e in non pochi altri del decennio seguente. John Frankenheimer, in particolare, avrebbe dato a Hollywood due opere in questo senso eloquenti: The Manchurian candidate (1962; Va' e uccidi) e Seconds (1966; Operazione diabolica). Nessuna delle due tratta direttamente dell'assassinio di J.F. Kennedy: la prima sembra respirare ancora il clima di isterico anticomunismo maccartista nel racconto di una diabolica macchinazione dei 'rossi' per spingere un americano a un attentato politico poco dopo la guerra di Corea; il secondo tralascia ogni riferimento di carattere politico per descrivere un mondo di sospetto e paura che a ben vedere può essere letto tanto come quello del periodo maccartista quanto come quello vissuto dagli S. U. dopo i fatti di Dallas.
Un cinema, quindi, che in passato aveva goduto di attenzione e successo risultava ormai obsoleto. Il crollo al box office di Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz rias-sume perfettamente la fine della vecchia Hollywood con i suoi fasti superproduttivi, la sua celebrazione epica della Storia e persino il suo star system. Come nel mondo sognante del musical si era insinuata una realtà sociale problematica e drammatica (West Side story, 1961, di Robert Wise e Jerome Robbins) così quello eroico del western avrebbe lasciato posto a una visione crepuscolare del cowboy (Ride the high country, 1962, Sfida nell'Alta Sierra, di Sam Peckinpah). La fantascienza stessa cambiò registro, abbandonando i suoi tradizionali fantasmi d'invasione: l'assassinio di Kennedy aveva mostrato che il pericolo non sempre viene dall'esterno e che talvolta va ricercato entro i confini del Paese. Per questo il tema del pericolo atomico tornò trasformato in problematica fantapolitica, preoccupazione per il destino del pianeta davanti ai diversi modi possibili di attuazione dell'olocausto nucleare da parte di schegge impazzite del potere: ne sono esempi film come Seven days in May (1964; Sette giorni a maggio) di Frankenheimer, Fail safe (1964; A prova di errore) di Sidney Lumet, The Bedford incident (1965; Stato d'allarme) di James B. Harris e naturalmente l'antesignano Dr. Strangelove: or how I learned to stop worrying and love the bomb (1964; Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba) di quello Stanley Kubrick che, come Joseph Losey e altri, aveva preferito emigrare in Gran Bretagna.
Anche l'afroamericano Melvin van Peebles emigrò in Europa e visse dieci anni in Francia, dove realizzò La permission (1968), tratto da un suo romanzo e vorticosamente sperimentale. Approdato poi negli S. U., il film lo segnalò come una promessa molto originale e gli valse una produzione hollywoodiana, The watermelon man (1970; L'uomo caffelatte), ma la sua opera d'eccezione fu, l'anno dopo, Sweet sweetback's baadasssss song, produzione indipendente di carattere molto violento, piena d'azione, ma anche di una forte critica alla società bianca.
Non era un caso che proprio a cavallo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta fosse attecchito negli S. U. un cinema d'arte antihollywoodiano che aveva come riferimento il newyorkese New American Cinema Group di Jonas Mekas, propugnatore di una cinematografia libera dalle costrizioni industriali ed economiche della produzione mainstream e disposta ad audaci sperimentazioni (v. sperimentale, cinema). Era quello tuttavia un fenomeno che, con diverse sfumature, investì in quel tempo più di una cinematografia occidentale. Si assistette anche alla nascita della Nouvelle vague francese e del Free Cinema britannico, segni certi che qualcosa stava mutando nella cultura dell'intero pianeta. Si tratta di eventi importanti perché testimoniano ben più di un tentativo di rinnovamento cinematografico. Il cinema risulta solo il terreno di manovra del disagio che investiva le nuove generazioni: il Nouveau roman nella narrativa francese, gli Angry Young Men in quella britannica (e anche nel teatro, v. Gran Bretagna), la Nueva ola spagnola erano altre facce contigue di quel disagio e di quella volontà di rinnovamento, che del resto toccò anche l'Italia con la formazione del Gruppo 63. Il problema era ormai quello di rinnovare modelli, strutture, modalità di produzione, gusto, forme e contenuti.
La caduta dei tradizionali valori culturali, del resto, aveva investito, soprattutto negli S. U., anche un altro ambito di operazioni visuali, quello delle arti figurative. Eredi dello scardinamento formale delle avanguardie prebelliche, gli artisti che inaugurarono la Pop Art furono tra i pionieri della nuova sensibilità: una sensibilità che si esercitò in primo luogo sui prodotti effimeri della cultura di massa, dalle star della cronaca (Marilyn Monroe, Jacqueline Kennedy) ai cibi e ai prodotti domestici di pronto consumo (le scatolette di minestre Campbell, il detergente Brillo ecc.). Il quotidiano più domestico, semplice e banale era assurto a oggetto culturale emblematico di un'intera società e dei suoi valori.
Il cinema, ormai avviatosi a una profonda trasformazione verso la fine degli anni Sessanta, operò nella stessa direzione. Una nuova generazione di giovani produttori rifiutò i dettami del passato, rigettò la tradizione degli studios, finanziò una serie di film a basso budget che intendevano focalizzare l'irrequietezza e il disagio del momento. Non si trattava più, tuttavia, della mitologia frastornante legata all'avvento del rock and roll di una decina d'anni prima; l'intenzione non era quella da un lato di épater le bourgeois e dall'altro di attirarsi le superficiali simpatie dei teenager domenicali con filmetti vagamente scandalistici conditi di batteria, urli e sassofono. Questa volta da quel cinema emergeva una visione del mondo, una prospettiva talvolta nostalgica che collocava l'eventuale ribellione dei suoi eroi (o meglio, antieroi) in un'area esistenziale di introversione, di interiorità, di privatezza. Fu insomma anche un cinema di riscatto: riscatto dall'opinione diffusa che le nuove generazioni fossero violente, superficiali, caparbie, polemiche, aggressive. Certo, a metà degli anni Sessanta c'erano stati i disordini all'università di Berkeley (per non parlare della convention di Miami e dell'assedio di Chicago, così duramente narrati dalla voce controcorrente di Norman Mailer) e all'inizio dei Settanta quelli della Kent University. Ma proprio da questa immagine di violenza che le era stata incollata addosso la nuova ondata generazionale intendeva prendere le distanze. E fu la stessa Hollywood a darle una mano.Il termine Hollywood, tuttavia, è a questo punto inesatto. Tutti i mezzi di stampa dell'epoca parlarono concordemente di una New Hollywood. Il rinnovamento della capitale del cinema statunitense avvenne su diversi piani e in varie direzioni. Sul versante della produzione si fece largo una nuova generazione di investitori che puntavano su film in gran parte a basso budget; sul versante registico si registrò l'arrivo di una altrettanto nuova e giovane ondata di directors, alcuni con un retroterra televisivo (Sydney Pollack, Stuart Rosenberg, lo stesso Robert Altman), altri usciti dalle scuole universitarie di cinema che nel frattempo erano incominciate a fiorire nel Paese (George Lucas, per es.) o formati attraverso una dura gavetta presso il gruppo di Corman. Questi ultimi in particolare portarono a Hollywood una componente che sino a quel momento le era sconosciuta: la cinefilia. Nutriti del cinema americano classico, questi giovani ne tradussero in varia misura la cultura nei loro film: P. Bogdanovich, l'esempio più clamoroso, girò per alcuni anni film che erano in fondo delle (splendide) imitazioni da Hawks e da altri maestri del passato. In altre parole, il cinema degli S. U. era giunto a un punto di saturazione tale da rimettersi in scena sotto diverse forme grazie alla competenza e all'entusiasmo della nuova generazione di autori.
Sul piano tecnico il nuovo cinema si adattò magnificamente alla diversa situazione produttiva. Lasciati gli spazi degli studios, esso si avventurò nel corpo di un Paese esplorato sul campo nella sua quotidianità e nelle sue contraddizioni. Un film per taluni versi pionieristico come Easy rider (1969; Easy rider ‒ Libertà e paura) di Dennis Hopper rappresenta bene la nuova situazione hollywoodiana. Girato negli spazi aperti dell'Ovest, esso riprese la tradizione del road movie, ma allontanandosi dai dettami restrittivi della Hollywood classica. Il cinema della New Hollywood fu un cinema in movimento continuo, che si adattava alla mobilità dei suoi protagonisti. Non per nulla l'operatore Fouan Said inventò all'inizio del decennio la Cinemobile Mark IV, un veicolo attrezzato per facilitare le riprese di soggetti mobili nello spazio. La fotografia stessa non poté non subire forti variazioni rispetto alla tradizione classica: laddove gli anni Trenta erano stati caratterizzati da una luministica high key (leggermente sovraesposta) e i Quaranta dal chiaroscuro, nei Settanta trionfò la pellicola a grana grossa, come a dare all'azione un tasso di realismo, di improvvisazione, di verità normalmente assenti dal cinema hollywoodiano. A sua volta il montaggio si fece più spezzato e nervoso (i film di Peckinpah sono, tra l'altro, famosi per l'altissimo numero di jump cuts), insinuando nelle storie un correlativo oggettivo della nevrosi dei personaggi. Lo zoom sostituì progressivamente il carrello in avanti, in modo da rendere il movimento più oggettivo, libero cioè dalla schiavitù di un qualsiasi punto di vista (famosi in particolare gli zoom altmaniani). La sensazione generale, davanti a un film della New Hollywood, era quella di una profonda libertà dai canoni ufficiali che rimandava alle esperienze rapide e insofferenti del nuovo cinema europeo di qualche anno prima.
A tali novità formali corrispose un mutamento radicale nei contenuti: la rivolta nei confronti del cinema classico si attuò in modo vistoso nell'operazione storico-morale che non pochi film attuarono. In quasi tutte le opere ambientate in un passato più o meno lontano i valori tradizionali furono ribaltati: l'indiano emergeva come il vero e nobile eroe, bistrattato e tradito dall'infido governo dei bianchi, il fuorilegge veniva rappresentato come un Robin Hood schiacciato da un potere che lo assumeva come alibi per le proprie malefatte. Hollywood insomma riscrisse la storia nazionale dal punto di vista della controcultura (erano gli anni del movimento hippy) e la visione della classe media proposta nei film contemporanei era ben diversa da quella, pure notevolmente critica, della Hollywood del passato: un film come The graduate (1967; Il laureato) di Mike Nichols ne mostra uno spaccato che non ha nulla a che fare con quelli a suo tempo intravisti in The man in the grey flannel suit (1956; L'uomo dal vestito grigio) di Nunnally Johnson o No down payment (1957; Un urlo nella notte) diretto da Martin Ritt.
La rivoluzione toccò anche i generi, strutture un tempo inossidabili che a poco a poco persero la loro rigidità, spesso contaminandosi con altre in modo da rendere difficile la catalogazione. Tale fenomeno va letto all'interno di un mutamento ben più ampio, quello che fa capo all'avvento del postmoderno: una visione del mondo che rinuncia a qualsiasi ordine e classificazione per presentare la realtà come un ammasso indistinto delle componenti più diverse e inconciliabili. Negli anni Settanta la cultura occidentale divenne insomma un universo alternativo (e in seguito virtuale) caratterizzato dall'affastellamento del collage, dalla giustapposizione di incongrui, dalla gratuità noncurante. Non è difficile rintracciare su questa linea connessioni eloquenti fra diversi ambiti artistici: per es., un evidente debito della New Hollywood nei confronti delle arti figurative coeve, così che in un film come Taxi driver (1976) di Martin Scorsese è facilmente leggibile l'influenza dell'iperrealismo pittorico statunitense degli anni Sessanta (J. Salt, R. Estee ecc.). Vi furono anzi cineasti che, come Bogdanovich, tentarono un'applicazione delle istanze iperrealiste non in termini di semplice riproduzione, ma costruendo il film come esatta ripetizione del modello 'reale': The last picture show (1971; L'ultimo spettacolo) fu infatti una riproduzione, non solo visiva ma anche stilistica, del melodramma familiare provinciale alla Minnelli, tipico degli anni Cinquanta. Diversamente, ma allo stesso modo, nei primi film realizzati da Bob Rafelson ‒ Five easy pieces (1970; Cinque pezzi facili), The king of Marvin gardens (1972; Il re dei giardini di Marvin) ‒ la realtà veniva osservata dalla macchina da presa con un'attenzione così ravvicinata e tranquilla da far rinvenire momenti del più domestico Neorealismo italiano. Ma un'ombra incombeva su quel cinema, il fantasma del crollo di fiducia, ottimismo, speranza verificatosi nei primi anni Sessanta. L'America non era più quella di un tempo e sapeva bene che non sarebbe potuta tornare all'epoca felice delle sue certezze. Ciò spiega la fortissima componente nostalgica della New Hollywood, la sua continua rivisitazione di un passato magari non sempre edificante, ma nel quale comunque le antiche virtù nazionali erano ancora vigenti. L'America contemporanea, lo si vedeva chiaramente nei film che se ne occuparono, era ben altra. In particolare, ne emergeva l'immagine di una nazione in preda a potenti e segretissime forze cospirative. Non soltanto in film come WUSA (1970; Un uomo oggi) di Stuart Rosenberg, The parallax view (1974; Perché un assassinio) di Alan J. Pakula, Executive action (1973; Azione esecutiva) di David Miller, che mettevano in scena più o meno velatamente quel poco che si sapeva dei fatti relativi all'assassinio del presidente Kennedy (nel frattempo erano stati uccisi anche M.L. King e R. Kennedy), ma anche film di altro tipo e fattura lasciavano chiaramente trapelare un disagio paranoico che l'esplosione del caso Watergate nel 1974 aveva contribuito ad allargare. Film come The Anderson tapes (1971; Rapina record a New York) di Lumet e Tree days of the Condor (1975; I tre giorni del Condor) diretto da Pollack mostrano una realtà monitorata da un potere oscuro nella quale tutti sono osservati incessantemente grazie a efficienti tecnologie, o sono addirittura in pericolo di vita a causa di organizzazioni che, colluse o meno con il potere, agiscono sotterraneamente eliminando tutti gli elementi devianti. La voga nostalgica rende conto dunque del perché gli anni Venti, Trenta e Quaranta fossero così popolari in questo cinema, che li approfondì come mai era stato fatto prima, sia nella commedia, sia nel melodramma, sia nel gangster film.
Non va peraltro dimenticato che gli anni Settanta segnarono una svolta nell'atteggiamento di Hollywood nei confronti del pubblico nero. Per la prima volta infatti l'industria si rese conto che quel pubblico esisteva e che era un potenziale e forte acquirente. Fiorirono allora proposte a esso mirate, etichettate per lo più sotto il termine di blaxploitation, cioè sfruttamento in chiave nera, con film come Shaft (1971; Shaft il detective) di Gordon Parks, che ebbe un grande numero di sequels, o Coffy (1973) del regista bianco Jack Hill, che lanciarono nuovi divi neri, da Richard Roundtree a Pam Grier.La New Hollywood durò tuttavia lo spazio di un mattino. Alla metà degli anni Settanta due giovani autori della nuova ondata, G. Lucas e Steven Spielberg, realizzarono due film di fantascienza di enorme successo: rispettivamente, Star wars (1977; Guerre stellari) e Close encounters of the third kind (1977; Incontri ravvicinati del terzo tipo). Cominciò da quel momento una nuova New Hollywood, caratterizzata dal rilancio della superproduzione spettacolare (i cui valori produttivi furono questa volta tecnici e non artigianali), ma caratterizzata anche dal forte rilancio della fantascienza, che, insieme all'horror, sarebbe divenuta in breve il genere cinematografico che ha contraddistinto la fine del secolo. Non si trattava di evasione o di reazione al realismo della New Hollywood di qualche anno prima. Al contrario, i due fenomeni risultano legati da un filo rosso: la realtà puntigliosamente, iperrealisticamente ricostruita e osservata da tanto cinema della New Hollywood non poteva che dissolversi in uno spazio della mente. L'obiettivo, avvicinatosi a essa sin quasi a toccarla, non poteva prima o poi che ritrovarsi dall'altra parte dello specchio, in una zona che poteva essere così fisicamente interna al corpo da poterlo osservare e analizzare nelle sue funzioni e nelle sue eventuali anomalie (David Cronenberg), oppure penetrare al di là della parete materiale accedendo a un mondo che la tecnologia contemporanea aveva già battezzato come 'virtuale'.
D'altra parte, i due film di Lucas erano delle superproduzioni, ma soltanto grazie al reparto effetti speciali che la nascente tecnologia digitale aveva reso possibili senza il dispendio scenografico dell'epoca classica degli studios. Da quel momento spuntarono importanti ditte e laboratori di computer graphics, come la Industrial Light & Magic di Lucas, responsabili dei più strabilianti effetti fino ad allora visti sugli schermi. Gli anni Ottanta, anzi, furono segnati da questo sviluppo, che rese possibili film come Blade runner (1982) di Ridley Scott, Total recall (1990; Atto di forza) di Paul Verhoeven, The terminator (1984; Terminator) e Terminator 2: Judgment day (1991; Terminator 2 ‒ Il giorno del giudizio) diretti da James Cameron, per non parlare delle saghe inaugurate dagli stessi Lucas e Spielberg, da quella, appunto, di Star wars (dal 1977 al 2002) a quelle di Indiana Jones (dal 1981 al 1989) e di Jurassic Park (dal 1993 al 2001).
Non v'è dubbio che il cinema dell'ultimo ventennio del secolo abbia segnato, come annunciava il cartellone di un film, 'il ritorno della grande avventura'. Ma non si trattava più del film western, del film esotico o di quello bellico, che erano tutti espressione di una concezione di espansionismo decisamente inopportuna in epoca di revisione anticolonialista. La grande avventura era ormai in uno spazio, come quello virtuale, la cui colonizzazione non offendeva nessuno, o comunque in un infinito spazio cosmico nel quale, come nella saga prima televisiva e poi cinematografica di Star Trek, si potevano vivere avventure senza necessariamente predicare un'ideologia di conquista.In questa chiave può essere letto anche il cinema d'ambiente afroamericano dell'ultimo periodo, quello che ha visto a suo tempo l'astro nascente di John Singleton e di Mario van Peebles (figlio di Melvin) i cui Boyz'n the hood (1991) e New Jack City (1991) hanno, sì, incontrato il favore delle majors, ma soltanto perché, in modi aggiornati, affrontano tematiche violente e metropolitane limitandosi a confermare gli stereotipi di vita nei ghetti neri. Diverso è il caso di Spike Lee (il primo regista nero assurto a fama mondiale), di estrazione borghese e di notevole cultura, che si è avvicinato al cinema con stilemi da Nouvelle vague (She's gotta have it, 1986, Lola darling) e che ha poi sviluppato un suo di-scorso coerente sulle contraddizioni del razzismo. Pur se con difficoltà ancora maggiori, negli anni Ottanta hanno esordito anche le prime registe nere, con opere focalizzate sulla dimensione sociale e professionale della donna di colore appartenente alla media borghesia: Losing ground (1982) diretto da Kathleen Collins e Illusions (1983) di Julie Dash.
A differenza della cinematografia di colore, quella degli indiani d'America, nelle figure di registi e produttori, non vanta una tradizione altrettanto significativa, e solo da breve tempo a essa sono stati dedicati spazi in festival e rassegne. Tra i registi vanno ricordati George Burdeau (Backbone of the world: the blackfeet, 1997), da trent'anni impegnato nella diffusione della cultura pellerossa, Sherman Alexie (Smoke signals, 1998) scrittore e poeta, e Wes Studi (Bonnie Looksaway's iron art wagon, 1997), più noto come attore per aver interpretato il ruolo di protagonista in Geronimo: an American legend (1993; Geronimo) di Walter Hill. Il cinema portoricano invece si è integrato di recente con quello statunitense, offrendo uno sguardo aperto a soggetti non limitatamente etnici: tra i registi, Marcos Zurinaga, autore di The disappearance of García Lorca (1997) con protagonista Andy Garcia, e il documentarista Luis Molina.
Ma altri mutamenti avevano da tempo cambiato il volto del cinema statunitense. I suoi rapporti con la televisione, per es., sono fondamentali per comprenderne l'evoluzione. Sin dall'inizio il rapporto fu, per così dire, d'affari: le grandi case di produzione vendevano ai vari canali televisivi pacchetti di film per i palinsesti. Ma con il tempo le stesse grandi case compresero che sarebbe stato più semplice allargare il proprio ambito commerciale alla televisione stessa. Fox, Warner Bros., Paramount ecc. crearono allora propri canali con series comiche e drammatiche, continuando però anche a produrre opere cinematografiche che, nelle loro intenzioni, avrebbero poi sfruttato con il passaggio televisivo. Il mercato televisivo (insieme a quello dell'home video) si rivelò ricchissimo, tanto che non di rado coprì le perdite di questo o quel film nelle sale. Per rendere un film più appetibile per il piccolo schermo, tuttavia, l'intera impostazione della sceneggiatura e delle riprese venne cambiata per adeguarla al formato e ai ritmi della televisione. Lo spettacolo televisivo viene infatti fruito in modi più rilassati di quello cinematografico, la natura logistica stessa del mezzo consente distrazioni e supplementi di benessere (le medesime interruzioni dei comunicati commerciali rientrano dopotutto in questa logica), cui è bene il film si adegui con momenti morti. Su un piano formale inoltre il piccolo schermo non consente riprese di grande profondità di campo, per cui il primo piano e il piano americano (o al massimo qualche totale) divengono i formati privilegiati. In altre parole, l'ultimo ventennio del 20° sec. ha varato una sorta di riduzione del cinema a televisione, decretando quindi il primato di quest'ultimo mezzo. D'altra parte, sia pure in termini ristretti, la televisione ha a sua volta sussunto generi che in passato erano stati quasi totale appannaggio del cinema. Per es., nei primi vent'anni di vita della televisione statunitense le series di carattere fantastico furono pochissime (la migliore: The twilight zone, 1959-65, Ai confini della realtà, di Rod Serling), laddove allo scadere del secolo esse si sono moltiplicate, talvolta addirittura riprendendo direttamente suggerimenti forniti da questo o quel film di successo. In ogni caso, il filo diretto instauratosi fra cinema e televisione è stato sempre più evidente nella produzione hollywoodiana, che volentieri ha attinto all'immaginario televisivo per confezionare le sue proposte. Questa pratica, tuttavia, rientra in quella più ampia e generale della contaminazione di aree un tempo autonome: il fumetto, per es., pur avendo attirato l'attenzione del cinema sin dai tempi dell'avvento del sonoro, ha trovato nella Hollywood degli anni Novanta e Duemila maggiore udienza e sfruttamento, da Dick Tracy (1990) di Warren Beatty a X-Men (2001) di Bryan Singer.
Il cinema statunitense, insomma, da grande spettacolo di intrattenimento si è trasformato in un enorme e onnivoro affresco delle istanze più diverse e aggiornate della cultura popolare contemporanea. Laddove in passato il suo ordinamento rifletteva quello di una società borghese altrettanto ordinata, con ambiti d'operazione chiaramente delimitati, allo scadere del Novecento esso rispecchiava ancora una volta la realtà entro la quale operava, una realtà caotica, controversa, multiculturale, superficiale, la cui tensione verso il fantastico non era più, com'era stata un tempo, un'effimera via di fuga, ma il contrassegno di una nuova e diffusa sensibilità nei confronti di un mondo alternativo svuotato di ogni finalità ideologica e politica. Non a caso il sistema produttivo non faceva più capo ad alcuni magnati-padroni, tiranni lungimiranti che forgiarono la grandezza di quel cinema anche attraverso i loro difetti. All'inizio del 21° secolo il cinema hollywoodiano risulta invece in mano a multinazionali senza volto, macchine operative efficienti ma contraddistinte non da una volontà, una personalità, un gusto, bensì, e tutt'al più, dai risultati delle ricerche di mercato. Si tratta, in fondo, di una sorta di 'globalizzazione americana', di un vero e proprio azzeramento dello spettacolo cinematografico al suo minimo comune denominatore, il quale è pur sempre il prodotto dell'industria cinematografica più ricca e potente del mondo e dunque si concretizza in produzioni di alta qualità tecnica e non di rado di notevole impegno finanziario.
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