storicismo
La natura dell’uomo è la storia
Entrato nel linguaggio filosofico nel corso dell’Ottocento, il termine storicismo ha assunto nel Novecento due significati diversi. Esso viene usato, anzitutto, per indicare tutte le filosofie che identificano la realtà con la storia, cioè con un processo in continuo sviluppo, mai identico a sé stesso. Viene, però, utilizzato anche per indicare una specifica corrente del pensiero tedesco, sorta sul finire dell’Ottocento, che rivendica l’autonomia delle scienze storiche da quelle naturali e tenta di definirne i presupposti teorici e metodologici
Lo storicista è colui il quale porta alle estreme conseguenze il principio moderno secondo cui la verità è figlia del tempo. Cosa significa, infatti, questo principio? Vuol dire che la verità non è qualcosa di immobile – un’essenza che sta al di là del tempo, come pensavano i metafisici (metafisica) – ma è un processo, ossia qualcosa che diviene nel tempo. La verità, in altre parole, ha una natura storica, perché tutto quello che è umano vive e muta nel tempo.
Il precursore di questa concezione fu il filosofo napoletano Giambattista Vico, che nel 17° secolo – in polemica con il razionalismo di Cartesio, ispirato ai procedimenti logico-astratti della matematica – gettò le basi di una «scienza nuova», capace di intendere il mondo dell’uomo (istituzioni sociali e politiche, linguaggio, cultura) in modo storico, cioè come processo e sviluppo.
Il filosofo che più di ogni altro ha elaborato una concezione storicistica è Hegel, per il quale la realtà stessa è – nella sua più intima essenza – storia, cioè svolgimento razionale e necessario nel quale ogni momento, individuale e irripetibile, è il risultato di ciò che lo ha preceduto e porta in sé i semi di ciò che lo seguirà.
L’impostazione hegeliana verrà ripresa, nel 20° secolo, da Croce, che definirà la sua filosofia storicismo assoluto. La vita e la realtà, sosteneva il filosofo napoletano, sono «storia e nient’altro che storia»: ogni sapere autentico, pertanto, ha carattere storico e alla filosofia spetta soltanto il compito di riflettere sulla metodologia della ricerca storica.
Dilthey. Al centro dello storicismo tedesco – sviluppatosi tra la fine del 19° e i primi decenni del 20° secolo – sta la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito (o storico-sociali), che hanno per oggetto il mondo umano.
In polemica con il positivismo – e la sua pretesa di erigere le scienze naturali a modello di ogni sapere valido – il filosofo Wilhelm Dilthey rivendicò l’autonomia delle scienze dello spirito e, in analogia a quanto aveva fatto Kant con le scienze naturali, si assunse il compito di individuarne le fondamenta teoriche.
Mentre le scienze naturali si propongono di scoprire leggi di carattere generale, le scienze dello spirito – sosteneva Dilthey – studiano i fenomeni nella loro individualità. Lo storico, per esempio, non è interessato a stabilire perché si verifichino, in generale, le rivoluzioni, ma a comprendere perché una certa rivoluzione è scoppiata proprio in quel dato momento e non in un altro e perché ha assunto quelle specifiche caratteristiche e non altre. Lo storico, inoltre, non spiega i fenomeni osservandoli ‘dall’esterno’, ma li comprende rivivendone lo sviluppo: e può fare questo perché il mondo umano, a differenza di quello naturale, è opera dell’uomo, che lo conosce quindi ‘dall’interno’, grazie alla sua esperienza vissuta.
Weber e Spengler. Non tutti i protagonisti dello storicismo distinsero così nettamente tra i procedimenti delle scienze naturali e quelli delle scienze storiche.
Il sociologo Max Weber sostenne che anche queste ultime si servono di generalizzazioni, ossia di concetti (come feudalesimo o capitalismo) ottenuti isolando alcune caratteristiche tipiche da una molteplicità di fenomeni particolari. Tali concetti (detti tipi ideali) servono allo storico per formulare ipotesi sulle cause degli eventi storici e per conferire oggettività alla sua ricerca.
Nel filosofo Oswald Spengler, infine, lo storicismo si trasformò in relativismo, ossia nella convinzione che tutte le manifestazioni dello spirito umano siano relative al tempo in cui si sono sviluppate e che non esista quindi la possibilità di stabilire tra di esse una differenza di valore.
Ogni civiltà elabora dunque un proprio sistema di valori e di istituzioni, che non può essere giudicato dall’esterno e che è destinato a essere inghiottito, o prima o poi, dall’eterno flusso della vita.