verità
Un’insopprimibile esigenza dell’uomo
La verità è un concetto assai difficile da definire in modo univoco, ma di cui non possiamo fare a meno. Qualsiasi tipo di discorso – da quello comune, che ci permette di stabilire relazioni con gli altri, a quello scientifico, che riguarda la sfera della conoscenza, sino a quello morale, politico e religioso – implica il riferimento alla nozione di verità. Persino il dubbio, così importante per la moderna cultura occidentale, è in fondo un omaggio reso alla verità. Quando dubitiamo, infatti, non ci stiamo forse chiedendo: «ma le cose stanno veramente così?»
Definizione di verità. Anche se la verità è un concetto indispensabile per qualsiasi tipo di discorso, è stata soprattutto la filosofia a riflettere sul suo significato. Sin dall’antichità i filosofi si sono posti essenzialmente due domande: cosa significa definire qualcosa come vero? E a quali condizioni lo possiamo fare? La prima domanda corrisponde al problema della definizione della verità, la seconda corrisponde, invece, al problema dei criteri che la rendono possibile. Nel primo caso ci chiediamo ‘cos’è la verità’, nel secondo ‘qual è la strada per giungere a essa’.
La risposta più antica e più diffusa alla prima domanda è quella che definisce la verità come corrispondenza tra il discorso e le cose, tra il pensiero e la realtà. Vero, secondo Platone, è il discorso che ci dice le cose come sono; falso quello che ci dice le cose come non sono. Aristotele fa sua questa definizione e vi aggiunge i seguenti teoremi: la verità appartiene al discorso, non alle cose, ragion per cui è il discorso a essere vero o falso, non la realtà, ma la misura della verità appartiene alle cose e non al discorso. Ne consegue che per stabilire se il discorso è vero o falso, dobbiamo rapportarlo alla realtà.
Criteri di verità. Questa impostazione implica quindi una chiara distinzione tra il soggetto conoscente (che produce il discorso) e l’oggetto da conoscere e definisce la verità come quel discorso che corrisponde perfettamente all’oggetto, che rispecchia fedelmente la realtà. Tale definizione verrà ripresa dagli epicurei (epicureismo) e dagli stoici (stoicismo), che tuttavia adotteranno un diverso criterio di verità: i primi si affideranno all’esperienza sensibile, cioè alle sensazioni, mentre i secondi si affideranno alle rappresentazioni catalettiche, ossia alle rappresentazioni mentali dotate di assoluta evidenza.
La concezione della verità come corrispondenza dominerà il pensiero medievale e troverà una delle sue più celebri formulazioni nell’opera di Tommaso d’Aquino, che la definirà adaequatio rei et intellectus «adeguazione della cosa e dell’intelletto».
A partire dalla seconda metà del 13° secolo nella scolastica – cioè nella principale scuola filosofica del Medioevo – si fa strada l’idea che la cosa cui deve conformarsi l’intelletto non è la cosa in sé, ma la cosa così come è appresa dall’intelletto (res intellecta). Viene progressivamente meno, in altre parole, la fiducia nella possibilità di cogliere l’essenza della realtà – la realtà così come è, indipendentemente dal soggetto conoscente – che costituiva il cuore della metafisica.
Su questa strada si collocano i principali filosofi moderni – da Cartesio a Kant – secondo i quali noi non abbiamo a che fare con le cose in sé stesse, ma soltanto con le rappresentazioni delle cose, cioè con le idee (idealismo gnoseologico o conoscitivo). Questi filosofi non negano l’esistenza di una realtà indipendente dal soggetto, ma sottolineano il ruolo cruciale svolto dal soggetto nel processo conoscitivo. Per questa ragione essi non abbandonano la definizione della verità come corrispondenza, ma si concentrano sul problema dei criteri che la rendono possibile, dando luogo a un dibattito che vede contrapporsi teorie della conoscenza basate sulla ragione, sull’esperienza o su una loro combinazione.
Per Cartesio il criterio della verità sta nella corretta concatenazione del ragionamento deduttivo, a partire dall’evidenza del cogito (la certezza di esistere come esseri pensanti); per Locke, invece, all’origine di ogni nostra conoscenza c’è l’esperienza, che poi l’intelletto provvede a ordinare. Per Kant, infine, la conoscenza vera trova il suo fondamento nella conformità alle regole necessarie dell’intelletto, le sole che possono conferire ordine, universalità e necessità ai dati provenienti dall’esperienza sensibile; quest’ultima, tuttavia, rimane l’ineliminabile punto di partenza di ogni processo conoscitivo e l’orizzonte oltre il quale l’uomo non può avventurarsi, se vuole raggiungere un vero sapere.
Kant afferma che noi conosciamo non le cose come sono (le cose in sé o noumeni), ma le cose come necessariamente ci appaiono (le cose per noi o fenomeni) per il tramite del nostro apparato sensoriale e intellettivo. Egli conferisce quindi piena centralità al soggetto conoscente, ma non per questo si spinge a negare l’esistenza di una realtà indipendente dal soggetto: quest’ultima rimane irraggiungibile, ma è pur sempre all’origine delle nostre rappresentazioni, cioè dei fenomeni.
I filosofi successivi a Kant – i protagonisti dell’idealismo tedesco – criticano questa posizione, affermando che è assurdo sostenere l’esistenza di una realtà che non possiamo mai raggiungere. L’idea di una realtà indipendente dal soggetto è, per questi filosofi, un residuo metafisico del quale occorre liberarsi, per affermare che non esiste alcuna misura esterna al pensiero stesso. La realtà viene così a coincidere, nella filosofia di Hegel, con la ragione nel suo incessante divenire storico: e la verità consiste nella ricostruzione complessiva di questo sviluppo, in tutti i suoi momenti e le sue articolazioni. Si raggiunge così il punto di vista del Tutto o Assoluto: il vero, come afferma Hegel, è l’intero, la totalità.
Questa concezione verrà ripresa, nel Novecento, dai filosofi del neoidealismo angloamericano, per i quali la verità non sta nella corrispondenza tra enunciati e realtà, ma nella coerenza logica degli enunciati con un più ampio sistema di cui fanno parte, cioè con quel Tutto razionale che è l’Assoluto.
Una versione della teoria della verità come coerenza è presente anche in alcuni esponenti del neopositivismo (positivismo e neopositivismo), come Otto Neurath, secondo il quale la verità di un enunciato consiste nel suo essere coerente con il sistema complessivo degli enunciati già ritenuti veri, che in questo caso coincide con il sistema teorico delle scienze. In altre parole, l’uomo non può uscire dal linguaggio scientifico.
Per i filosofi del pragmatismo, infine, la verità coincide con l’utilità: una proposizione è vera se è utile a estendere il dominio dell’uomo sulla natura o a consentire un migliore ordinamento sociale e politico.
Un’altra concezione della verità è quella che la fa coincidere con una rivelazione, che può essere di natura empirica o metafisico-teologica. Nel primo caso essa è una forma di evidenza che si rivela immediatamente attraverso la sensazione o l’intuizione. Come sosteneva il filosofo italiano Bernardino Telesio (16° secolo), le cose – se osservate attentamente – «manifestano da sé» le loro capacità, le loro forze e la loro natura.
Nel secondo caso la verità viene svelata all’uomo in modi eccezionali, grazie ai quali si rende evidente l’essenza delle cose o il principio che sta a loro fondamento (Dio). Tale concezione è presente nel filosofo greco Plotino (3° secolo d.C.), secondo il quale la verità non consiste nel rispecchiamento di una realtà esterna o nell’accordo con altre verità, ma in una enunciazione che non ha nulla fuori di sé. È presente anche nei filosofi cristiani della patristica e della scolastica. In particolare, Agostino (4°-5° secolo) sottolinea come la verità sia una sorta di illuminazione, derivante da Dio, che l’uomo può raggiungere se abbandona l’osservazione del mondo esterno e guarda dentro sé stesso: «la verità – afferma infatti il filosofo cristano – abita nel cuore dell’uomo».
Anche nel pensiero di alcuni importanti filosofi del Novecento la verità ha il carattere di una rivelazione: secondo Martin Heidegger, per esempio, il luogo in cui si manifesta la verità non è il giudizio intellettuale, ma l’essere, che si autorivela all’uomo ma in modo sempre parziale e incompleto. Non a caso Heidegger sottolinea l’etimologia greca del termine verità (alètheia), che indica una condizione di non-nascondimento.