utopia
Un sogno che può trasformarsi in incubo
Utopia è il titolo del romanzo di Tommaso Moro (1516) nel quale si narra di un’isola immaginaria dove era stata realizzata una società perfetta. Moro creò la parola partendo dal greco, dove ou significa «non» e tòpos «luogo»: Utopia era quindi un «luogo inesistente». Ma egli giocò sul fatto che la prima lettera della parola poteva derivare anche da eu («buono»), nel qual caso Utopia indicava un «luogo felice». Dalla sovrapposizione di questi due significati è nato quello corrente: l’utopia è qualcosa di bello, ma irrealizzabile
Coniando la parola utopia Tommaso Moro creò un termine nuovo per esprimere un’idea antica: quella di una società giusta e felice, che in virtù della sua perfetta organizzazione riesce a liberarsi da tutti i mali che affliggono la convivenza umana. Proiettando all’indietro questo termine moderno si può quindi sostenere che la prima grande utopia fu quella disegnata da Platone nella Repubblica.
A differenza della Repubblica platonica, però, le prime utopie moderne erano dei romanzi. Moro inaugurò insomma un nuovo genere letterario, al quale si rifecero la Città del Sole (1623) del frate italiano Tommaso Campanella, La Nuova Atlantide (1627) del filosofo inglese Francesco Bacone e molti altri ‘racconti immaginari’ apparsi sino alla fine del Settecento. Al centro di questi racconti vi è sempre un viaggio, nel corso del quale il protagonista finisce su un’isola sconosciuta o lontana, dove scopre una società perfettamente governata.
Tanto l’Isola di Utopia quanto la Città del Sole incarnano il modello di società egualitarie, dove non esiste la proprietà privata e dove la vita degli uomini, regolata in ogni dettaglio da governanti sapienti, è sobria e serena. La Nuova Atlantide contiene invece la prefigurazione di una società basata sulla scienza e sulla tecnologia, che permettono di migliorare radicalmente le condizioni di vita dell’uomo.
Nel corso del Settecento avviene un’importante trasformazione. Dallo spazio l’utopia si trasferisce nel tempo: essa non è più un luogo immaginario, ma la società giusta e felice che, grazie al progresso, attende l’uomo nel futuro. Non a caso, le nuove utopie – ispirate al socialismo – non sono più romanzi, ma opere sociali e politiche: esse non si limitano più a immaginare una società più giusta, ma contengono un progetto socioeconomico di trasformazione della società.
Le opere dei pensatori francesi Claude-Henri de Saint-Simon e Charles Fourier e dell’industriale inglese Robert Owen – tutti vissuti tra 18° e 19° secolo – si basano su una critica radicale della società capitalistica, fondata sull’individualismo e sulla concorrenza, alla quale viene contrapposta una società fondata sullo spirito comunitario, sull’eguaglianza economica e sulla cooperazione. Alcuni di questi pensatori cercarono anche di tradurre le loro idee in fatti concreti: Owen fondò la comunità di New Lanarck, ispirata ai principi della cooperazione, mentre i seguaci di Fourier tentarono di realizzare le comunità armoniche e autosufficienti teorizzate dal maestro (falansteri). Tutti costoro vennero definiti da Karl Marx socialisti utopisti, perché il loro socialismo non si basava su un’analisi scientifica della realtà, ma su ideali astratti e quindi irrealizzabili. Lo stesso Marx, tuttavia, quando delinea le caratteristiche della futura società comunista – senza classi, senza divisione del lavoro, senza conflitti, senza Stato – finisce per cadere nel pensiero utopistico.
Il pensiero utopistico è da sempre oggetto di diverse valutazioni. I suoi sostenitori affermano che le utopie, pur con tutte le loro stranezze, contengono l’insopprimibile aspirazione umana a un mondo migliore, mentre i suoi detrattori sostengono che si tratta soltanto di sogni a occhi aperti, del tutto inutili per governare la difficile realtà del mondo.
Nel corso del Novecento, tuttavia, si è fatta strada l’idea che l’utopia non sia soltanto inutile, ma anche pericolosa: in altre parole, che questo sogno, se mai si potesse realizzare, si tramuterebbe in un incubo, come hanno dimostrato i regimi totalitari del Novecento, tutti ispirati a qualche utopia sociopolitica.
Da questa idea sono nati quei romanzi novecenteschi – le cosiddette utopie negative, da 1984 di George Orwell a Il mondo nuovo di Aldous Huxley – che dimostrano come gli ideali ispirati alla realizzazione di un mondo perfetto conducano inevitabilmente all’edificazione di un mondo oppressivo e disumano.