Termine coniato nell’Unione Sudafricana (dal 1961 Repubblica Sudafricana) per designare la politica di segregazione razziale e il sistema istituzionale e sociale in cui tale politica si è tradotta. Praticata fin dalla nascita (1910) dello Stato sudafricano, con misure quali il Natives land act del 1913, che vietava agli indigeni l’acquisto di terre al di fuori delle riserve (bantustan, pari al 13% del territorio sudafricano), la politica di a. fu teorizzata a partire dagli anni 1930, soprattutto per iniziativa del National party, e trovò un particolare sviluppo dopo l’avvento di quest’ultimo al governo (1948). Con una serie di provvedimenti legislativi (a cominciare dal Population registration act del 1950, che stabiliva la sistematica classificazione razziale della popolazione) fu edificato un complesso sistema segregazionista, che a partire dagli anni 1960 vide anche la concessione di una formale ‘autonomia’ ai bantustan. Condannata più volte dall’ONU, soggetta dalla metà degli anni 1980 a sanzioni economiche, la politica di a. suscitò una crescente opposizione (dal 1961 anche in forma di lotta armata), fino a determinare la crisi del regime razzista. A conclusione del difficile e complesso dialogo avviato nel 1990 tra F.W. de Klerk, leader della minoranza bianca, e N. Mandela, capo storico dell’African National Congress (ANC), principale forza di opposizione della Repubblica Sudafricana, si svolsero nell’aprile 1994 le prime elezioni a suffragio universale nella storia del paese che sancirono la fine dell’apartheid. Nel 1995 venne istituita la Truth and reconciliation commission, presieduta dall’arcivescovo anglicano D. Tutu, il cui obiettivo era quello di indagare sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini commessi durante il regime di a. sia dai Bianchi sia dai Neri. L’operato della commissione, nonostante le polemiche suscitate dall’amnistia ai reoconfessi, fu giudicato nel complesso positivo nell’ottica del processo di riconciliazione promosso da N. Mandela.