Teologo (n. Laodicea 310 circa - m. 390 circa), fu uno dei massimi oppositori dell'arianesimo, ma le sue posizioni cristologiche vennero condannate in vari sinodi. Proprio con lui ha inizio una nuova fase - quella relativa alla cristologia - delle controversie dogmatiche. Dei numerosi scritti restano scarsi frammenti.
Figlio di A. di Laodicea il Vecchio, con lui collaborò come letterato e retore, e fu - con Atanasio - uno dei massimi oppositori dell'arianesimo, difendendo le definizioni del concilio di Nicea. Ma presto le sue idee cristologiche, che attenuavano l'umanità di Cristo, destarono sospetti e reazioni: onde la condanna, pur senza nominare A., da parte di un concilio di Alessandria (362). Il suo intervento nello scisma di Antiochia (tra i vescovi rivali, entrambi ortodossi, Melezio e Paolino) e l'attività del suo discepolo Vitale (che A., ordinandolo vescovo, mise a capo di un gruppo dissidente) aggravarono la situazione; le sue dottrine sull'Incarnazione furono condannate in vari sinodi (Roma, 377; Alessandria, 378; Antiochia, 379; Costantinopoli, 2º ecumenico, 381).
Dei numerosi scritti (oltre quelli in collaborazione col padre) contro Giuliano l'Apostata, Porfirio, gli ariani, Marcello d'Ancira, e degli ampi commenti biblici, restano scarsi frammenti; la Dimostrazione dell'incarnazione divina (certo la sua maggiore opera dogmatica) è ricostruibile grazie alla confutazione (Antirrheticus) di s. Gregorio di Nissa. Il pensiero teologico di A. s'incentra nella redenzione, quindi nell'Incarnazione; con lui comincia una nuova fase delle grandi controversie dogmatiche, quella relativa alla cristologia. A. affermò, spinto dalla sua polemica antiariana, che il Verbo, consustanziale al Padre, si unì in Gesù Cristo al corpo e all'anima vegetativa, prendendo il posto dell'anima razionale (è chiaro il fondamento platonico delle tre anime), ma con ciò A. tendeva a sminuire il valore dell'incarnazione di Gesù negando alla sua umanità una propria anima razionale e rendendo tra l'altro difficile spiegare come questa si redima se non assunta dal Verbo (anche per lui solo ciò che è assunto è redento). A. intendeva dunque l'Incarnazione come semplice assunzione della "carne": letteralismo al quale, come al fortissimo sentimento della realtà dell'Incarnazione, può essere ricondotto anche il suo millenarismo. Restò anche poco definito il concetto di "persona" (egli usa il termìne ϕύσις "natura"): da ciò la formula una natura Dei Verbi incarnata, accolta da s. Cirillo di Alessandria, ma divenuta poi espressione caratteristica dei monofisiti.