Adunanza della gerarchia di una comunità religiosa e in particolare l’adunanza dei vescovi della Chiesa cattolica.
Riunioni del genere dei c. ricorrono nella storia di religioni come la buddhista e la giudaica, anche se in nessuna hanno mai assunto il rilievo che ebbero sin dall’inizio della storia cristiana. La primitiva comunità cristiana si adunava per decidere l’elezione dei presbiteri e per ascoltare i profeti, ma anche per deliberare su questioni di carattere politico-religioso (l’ammissione dei gentili nella comunità, l’osservanza o meno della legge mosaica ecc.). Con l’ampliarsi della Chiesa e la costituzione della gerarchia ecclesiastica, ogni deliberazione passò progressivamente in mano al clero. Dai primi del 3° sec., i c. furono non più adunanze di fedeli, ma di soli vescovi. Nel corso del secolo si ebbero poi i primi c. provinciali, convocati dal vescovo della metropoli, cui partecipavano tutti i vescovi delle città minori della provincia. Il primo c. ecumenico (universale) fu convocato a Nicea dall’imperatore Costantino con lo scopo di decidere sulla dottrina trinitaria (325). Esso confermò l’uso della convocazione annuale dei c. provinciali, ai quali però fu sottratta ogni deliberazione riguardante dottrine teologiche; la loro funzione, oltre che all’elezione del patriarca e, presso le Chiese della provincia, del vescovo, si venne quindi restringendo sempre più a questioni amministrative. La Chiesa cattolica riconosce solo alcuni dei c. ecumenici, rifiutando gli altri o per non essere stati convocati dal papa (è da notare però che fino al 10° sec. è l’imperatore che convoca i c.) o perché poi non riconosciuti dal papa. In base a questo computo il Vaticano II (1962-65) è stato il 21° c. ecumenico.
Il c. ecumenico è l’assemblea di tutti i vescovi del mondo, attraverso la quale il collegio episcopale esercita, in modo solenne, la potestà sulla Chiesa universale. Viene convocato esclusivamente dal pontefice, che lo presiede in persona o tramite un suo delegato, ne stabilisce l’ordine del giorno e il regolamento dei lavori (pur potendo, i padri conciliari, aggiungere altri argomenti da trattare ma solo con l’approvazione del pontefice). Il pontefice può trasferirlo, sospenderlo o scioglierlo e approvarne i decreti. Partecipano al c., con voto, tutti e soltanto i vescovi membri del collegio episcopale. Il pontefice può convocare anche altri soggetti (per es., superiori di ordini religiosi), determinandone le modalità di partecipazione. La vacanza della sede apostolica sospende ipso iure il c. finché il nuovo pontefice non ordini la ripresa dei lavori o decida di scioglierlo. I decreti del c. ecumenico acquistano forza obbligatoria solamente se sono stati approvati dal romano pontefice, unitamente ai padri conciliari, o dal pontefice stesso successivamente confermati e, per suo comando, promulgati.
Gli antichi Romani chiamavano concilium l’assemblea di popoli stranieri e di confederazioni e le riunioni della sola plebe, divisa per tribù, che si differenziavano pertanto dai comitia. Sorti, al pari delle altre istituzioni plebee, come espediente spontaneo, ed anzi rivoluzionario, col quale la plebs cercava di opporsi ai soprusi dell’oligarchia patrizia, i concilia furono progressivamente integrati nell’assetto costituzionale repubblicano, tanto che già nella prima metà del 4° sec. a.C. furono investiti di funzioni ufficialmente riconosciute. Pur non essendo mai divenuti assemblee popolari in senso stretto, rappresentative dell’intera cittadinanza – come i comizi –, con il passar del tempo furono tuttavia assimilati a esse, sia per il venir meno di ogni contrasto patrizio-plebeo sia per essere rimasti i patrizi una parte oltremodo esigua della popolazione sia, infine, perché il procedimento previsto per la convocazione e lo svolgimento dei c. era assai più agevole e snello di quello previsto per i comizi.
I concilia plebis (che erano detti anche tributa, in quanto ciascuno era chiamato a votare nella propria tribù territoriale, come avveniva pure nei comizi), erano convocati e presieduti dai tribuni, ed esercitavano le proprie competenze in materia legislativa (i plebisciti ottennero, con la legge Ortensia del 287 a.C., la completa equiparazione alle leggi, vincolando così formalmente anche la parte patrizia della popolazione), elettorale (rispetto ai funzionari tradizionalmente plebei, quali gli edili e gli stessi tribuni), giudiziaria (in merito a processi vari, talora istruiti anche contro provvedimenti emessi dai magistrati cittadini, non solo dai tribuni plebis).
In età imperiale, il termine passò a indicare l’assemblea dei notabili di una provincia o di un conventus per la celebrazione del culto dell’imperatore.