Carlo Cattaneo
Intellettuale tra i più brillanti e acuti del suo secolo, Carlo Cattaneo difese con fermezza e perseveranza la facoltà di ogni popolo di autodeterminarsi e guadagnarsi i propri spazi di emancipazione e di libertà, pur nel quadro di un federalismo europeo. Autore raffinato e capace di muoversi abilmente fra i più svariati rami del sapere, nelle sue opere si fece interprete di un originale spirito di concretezza che ripudia coerentemente ogni possibile inclinazione metafisica. L’impegno di tutta una vita profuso nella battaglia civile e politica è la cifra distintiva che contraddistingue la sua «filosofia militante».
Carlo Cattaneo nasce a Milano, allora capitale della Repubblica cisalpina, il 15 giugno 1801, secondogenito di una famiglia di commercianti non abbienti che gestiscono un negozio di oreficeria. Per continuare gli studi, entra in seminario, rimanendovi dal 1810 al 1817. Dal 1819-20 prende contatti con l’ambiente de «Il Conciliatore», dove conosce Gian Domenico Romagnosi, diventandone poi allievo e seguendone privatamente i corsi di diritto, riconosciuti validi per chi, come lui, si era iscritto all’Università di Pavia, dove nel 1824 si laurea «in ambo le leggi» a pieni voti.
Non eserciterà mai l’attività forense; ma sarà il mondo degli studi ad attrarlo e a coinvolgerlo per tutta la vita. Nel 1822 esordisce come pubblicista, con l’articolo-recensione Assunto primo della scienza del diritto naturale di G. Romagnosi pubblicato sulla rivista «Antologia» (20, pp. 202-11) diretta da Giovan Pietro Vieusseux. Dal 1820 al 1835 esercita l’attività di docente al ginnasio Santa Marta di Milano, dedicandosi al tempo stesso con forte impegno alla ricerca, in primis in storia e geografia, discipline che considera indispensabili per meglio intendere i rapporti fra l’ambiente e gli sviluppi della civiltà.
Dal 1829 collabora agli «Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio», e nel Manifesto della Società degli «Annali» (gennaio 1833) evidenzia che, oltre alle «pratiche informazioni della statistica e dell’etnografia», occorre arricchire la rivista con «discussioni ragionate e dottrinali di economia pubblica». A cavallo fra il 1835 e il 1836 scrive una delle sue opere più importanti, Interdizioni israelitiche (il cui titolo esatto è Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti, e che, una volta finito il blocco della censura, verrà data alle stampe nel 1837, pur se datata 1836). Sposata l’angloirlandese Anne Pyne Bridges Woodcock, per migliorare le proprie precarie condizioni economiche dal 1835 sviluppa una presenza attiva nel settore industriale, partecipando (come azionista o come amministratore) alle iniziative di diverse società, soprattutto nel campo ferroviario.
Di questo interesse per il mondo industriale si trovano tracce su «Il Politecnico», la rivista (con il sottotitolo «Repertorio mensile di studj applicati alla prosperità e alla coltura sociale») da lui fondata nel 1839 con il proposito (perseguito fino al 1844, quando ha termine la prima serie) di far conoscere ai non specialisti quanto accade nei vari campi tecnico-scientifici, per chiarirne i vantaggi pratici e operativi ai fini del miglioramento di ogni società.
Nel 1844, in occasione del VI Congresso degli scienziati italiani svoltosi a Milano, promuove e cura la pubblicazione del volume collettaneo Notizie naturali e civili su la Lombardia, di cui scrive anche alcune parti, in particolare la celebre Introduzione (pp. XI-CXII).
Durante le Cinque giornate di Milano (18-22 marzo 1848) assume un ruolo politico pubblico, come membro prima del Consiglio di guerra e poi del Comitato di guerra; ma il 31 marzo, nove giorni dopo la vittoria dell’insurrezione, si dimette, in dissidio con i moderati del governo provvisorio in merito alla collaborazione con il Regno di Sardegna; con il ritorno degli austriaci è costretto all’esilio. Dopo aver soggiornato a Parigi si rifugia in Svizzera, prima a Lugano e poi a Castagnola (nel Canton Ticino), località in cui rimarrà, pressoché ininterrottamente, fino alla morte (1869).
Dopo la pubblicazione, a Parigi nel 1848, de L’insurrection de Milan, ne prepara una nuova edizione in italiano, più ampia, uscita a Lugano nel 1849 con il titolo Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra. Dal 1852 al 1865 è professore di filosofia al liceo cantonale di Lugano; intanto raccoglie documenti del periodo luglio 1847-aprile 1848, che pubblica nei tre volumi dell’Archivio triennale delle cose d’Italia (1850-1855). Inoltre, riprende la pubblicazione della rivista «Il Politecnico» (seconda serie: 1859-1865), cercando – senza riuscirvi – di conservarne la ‘linea’, oltre alla direzione (fino al 1863), sempre convinto che
la politica del mio giornale è come il timone che deve stare in una sola mano, altrimenti non so dove andremo. Gli scogli sono molti; il peggio è quello di contraddirci fra di noi (lettera a Gino Daelli del 18 novembre 1859, in Epistolario, a cura di R. Caddeo, 3° vol., 1954, p. 217).
Nell’agosto del 1859 a Milano, all’Istituto lombardo di scienze e lettere, legge la prima parte del ciclo di conferenze sulla Psicologia delle menti associate, che Giovanni Gentile definirà «il maggior sforzo e il maggior merito del Cattaneo nel campo degli studi filosofici» (Le origini della filosofia contemporanea in Italia, 2° vol., 1921, pp. 15-16). Collabora anche con il settimanale milanese «Il crepuscolo», considerandolo «il miglior giornale d’Italia», e affidando a quelle pagine La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858, nn. 42, 44, 50 e 52).
Benché eletto in Parlamento nel 1860 (nel quinto collegio di Milano), rimane a Castagnola a dibattere i problemi italiani, giudicando che la tribuna de «Il Politecnico», è «la migliore politica deputazione ch’io possa avere». Sempre nel 1860 (in settembre), si reca a Napoli da Giuseppe Garibaldi, confermando però la propria assoluta contrarietà ad «annettere» il Meridione al Regno sabaudo: «si tratta – ribadisce – di affratellare i popoli d’Italia e non di sopprimerli» (lettera a Giorgio Pallavicino del 12 ottobre 1860). Eletto di nuovo deputato nel 1867 (ancora per Milano), va a Firenze, nuova capitale, ma neppure questa volta entra alla Camera, rifiutando ancora di prestare giuramento monarchico. Muore a Castagnola il 6 febbraio 1869. Poco dopo le sue spoglie verranno trasportate a Milano.
Lettore onnivoro e scrittore capace di affrontare gli argomenti più disparati (dall’economia alla linguistica, dalla storia alla fisica), Cattaneo non concepisce che un intellettuale scelga di isolarsi, di vivere au dessus de la mêlée. Al contrario, come ha spiegato Norberto Bobbio,
anche se non coltivò la filosofia, ebbe – quel che più conta – una sua filosofia, che tiene nella storia della cultura italiana del secolo XIX un posto più importante di tanti sistemi addottrinati, nati e morti coi loro autori (Bobbio 1971, p. 83).
L’impegno profuso in ogni campo del sapere spiega e giustifica l’immagine di «una filosofia militante», usata da Bobbio per indicare lo sforzo costante, cui Cattaneo non si sottrasse mai, di capire e far capire le regole e i principi che, attraverso i secoli, continuano a dominare il mondo: in primis, l’idea di varietà e di progresso (anche se quest’ultimo non è da lui inteso come un fenomeno costantemente rettilineo, ma contrastato e non privo di ritorni indietro), che accompagna il corso storico, senza primati né sudditanze per nessuno, individuo o popolo, in base a questo netto convincimento: «fermi nel gran principio della comune natura dei popoli […] noi vogliamo onorare la natura umana in tutte le sue manifestazioni »; convincimento così ribadito: «non riconosciamo egemonie del genere umano» (Scritti storici e geografici, a cura di G. Salvemini, E. Sestan, 3° vol., 1957, pp. 128 e 246).
Polemico verso ogni filosofia non sperimentale e verso ogni inclinazione metafisica, che «semina la certezza assoluta per raccogliere il dubbio universale» (Recensione alla “Filosofia della rivoluzione” di G. Ferrari, «Monitore bibliografico italiano», 1851, 16; ora in Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, 1° vol., 1960, p. 282), poco più tardi, in Cosmologia, quarto capitolo del suo programma per il liceo di Lugano nell’anno scolastico 1852-53 dedicato a questo tema insolito e innovatore (e che pubblicherà poi in «Il Politecnico», 1860, 48, pp. 596-606), Cattaneo insiste a ritenere che nella storia umana, e altrettanto nel più vasto mondo intorno a noi, nulla rimane mai statico, fisso, immutabile:
Ci sta inanzi l’infinito nel tempo, come ci sta inanzi l’infinito nello spazio: ed è tanto inaccessibile alla nostra mente il concepirlo pieno di esseri, come il concepirlo vuoto e deserto (Scritti filosofici, cit., 2° vol., p. 103).
Anzi, a precisare meglio la sua visione fortemente dinamica – e libera da ogni riferimento di tipo metafisico o trascendente –, specifica che «la creazione è continua e perpetua […]. Nessuno può impor termini alla potenza creatrice» (p. 105). A conferma dell’ampiezza di un simile orizzonte culturale, capace di spaziare in campi solo apparentemente lontani, e che invece servono a porre in luce i caratteri distintivi di quella «filosofia civile» (o dell’incivilimento), nutrita degli insegnamenti romagnosiani, Cattaneo fra il 1835 e il 1844 scrive due delle sue opere forse più significative.
Nella prima, le citate Interdizioni israelitiche, non si limita a denunciare quanto era successo ai fratelli Wahl, israeliti francesi che avevano acquistato un terreno nel cantone svizzero di Basilea-campagna ma si erano visti annullare il contratto perché in quel cantone era fatto divieto agli ebrei di possedere beni immobili. Al di là dell’insopportabile aspetto discriminatorio nei confronti di una minoranza, a Cattaneo interessa dimostrare i danni gravi, sul piano dello sviluppo economico, che l’intera società subisce dal fatto che gli ebrei – come ogni altro gruppo sociale – non possono investire le loro ricchezze come meglio credono (per es., industrializzando l’agricoltura); con la duplice, disastrosa conseguenza di imporre agli ebrei di dedicarsi ai famigerati prestiti usurari e, soprattutto, di impedire l’impiego del loro denaro in attività socialmente più produttive.
Lo stile, il linguaggio, di Cattaneo è vibrante di sdegno, quando annota che
l’interdizione della possidenza agli Israeliti è una improvvida cosa in ogni paese, ma in nessun paese del mondo riesce così pregiudicievole come in un territorio [= quello della campagna di Basilea] che, abbandonato dai capitali consueti, è attualmente posto in uno stato di economico patimento (Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, 1° vol., 1972, pp. 151-52).
E diventa addirittura carico di sarcasmo nel capitolo conclusivo, con quel ruvido ammonimento:
Dacché dunque una potenza prevalente ha disposto che il genere umano, vita nostra durante, appartenga a diverse credenze: cerchiamo almeno di comporci in modo che questo dissidio perturbi men che si possa quella pace che per noi può godersi (p. 267).
Anzi, Cattaneo prosegue calcando i toni, con queste precisazioni sottilmente provocatorie:
Né dalla pacifica coesistenza di Israeliti e Cristiani sullo stesso suolo v’è a temere pel contatto delle opinioni. Facile potrà forse essere il passaggio dall’una all’altra delle comunioni cristiane; ma non so se ai nostri tempi si sia notato alcun esempio di cristiani giudaizzanti (p. 267).
Di un così originale spirito di concretezza Cattaneo darà prova durante tutta la vita, convinto – ogni volta che gli toccherà affrontare un qualunque tema – tanto della «costante natura del genere umano» (come si legge nella prefazione a Frammenti d’istoria universale, 1847, ora in Scritti storici e geografici, cit., 2° vol., p. 98), quanto del principio, precisato in Del diritto e della morale (una lezione scritta nel 1863 per il liceo di Lugano), per cui
ogni individuo può considerar sé medesimo come centro comune di più circoli di sempre maggiore ampiezza; e sono il circolo della famiglia, del commune, dello stato, della nazione, della religione, del commercio, della scienza, dell’umanità (Scritti filosofici, cit., 3° vol., p. 342).
Ecco perché, rifiutando ogni discriminazione e ogni pretesa di superiorità individuale o collettiva, in base a quello che considera «il gran principio della comune natura dei popoli», Cattaneo non finirà mai di ripetere «che l’uomo riconosce in tutti gli uomini se stesso, che l’uomo sente nell’io l’umanità» (p. 340).
Simili criteri di giudizio (di merito e di metodo) sono destinati ad accompagnare tutti gli scritti che contraddistinguono il suo operoso attivismo. E infatti si ritrovano nelle pagine che Cattaneo dedica al secondo dei suoi testi importanti del periodo 1835-44, la lunga Introduzione a Notizie naturali e civili sulla Lombardia (1844), una poderosa serie di ricerche cui oggi non è difficile riconoscere un efficace, e anticipatore, carattere ‘interdisciplinare’. Alternando analisi storiche con descrizioni sugli sviluppi (e sui mutamenti) politico-amministrativi e con frequenti richiami geografici, nell’Introduzione Cattaneo riesce a illustrare sia «il corso del nostro incivilimento» – nonostante i ritardi e le battute d’arresto –, sia «lo sviluppo dell’intelligenza umana fra noi» (Opere scelte, cit., 2° vol., p. 393). Così, senza la minima arroganza ma con un trasparente orgoglio lombardo, Cattaneo sostiene che
noi [= noi lombardi] abbiamo recato il nostro contributo alle lèttere, alle arti, alla filosofia, alle matemàtiche, all’idràulica, all’agricoltura, all’elettrologìa [...].
Senza dirci migliori degli altri pòpoli, possiamo règgere al paragone di qual altro sìasi più illustre per intelligenza, o più ammirato per virtù [...].
È una scortese e sleale asserzione quella che attribuisce ogni cosa fra noi al favore della natura e all’amenità del cielo; e se il nostro paese è ubertoso e bello, [...] possiamo dire eziandìo che nessun pòpolo svolse con tanta perseveranza d’arte i doni che gli confidò la cortese natura (p. 470).
A parte «lo splendore di questo testo che ne fa uno dei vertici della prosa di Cattaneo», come sostiene Giuseppe Armani (1997, p. 83), uno dei suoi più attenti interpreti, l’esame così dettagliato della Lombardia e della sua diffusa volontà di autonomia diventa uno dei primi esempi di quello che più tardi sarà destinato a costituire uno dei punti-forza del progetto cattaneano: ossia quella teoria della libertà che farà da coerente presupposto per il suo federalismo, meglio approfondito durante gli anni del soggiorno in terra elvetica, tanto da fargli affermare – in una lettera a don Giulio Curioni del 18 marzo 1864 – che si è sempre sentito «federalista, come veramente e incorreggibilmente sono» (Epistolario, cit., 4° vol., 1956, p. 216). Anche se va subito aggiunto che questo federalismo, così fondamentale da permeare tutto il suo pensiero, si precisa e arricchisce negli anni, in rapporto con quanto sta accadendo, non solo in Italia.
Infatti, pur nella sua brevità, l’esperienza del 1848 lascia un segno, perché contro la politica sostanzialmente identica, cioè accentratrice, perseguita dai vari governi (il Piemonte sabaudo come l’Austria-Ungheria, da lui definita nel 1850 «una federazione di satrapi militari»), Cattaneo sostiene il diritto di ogni popolo a conquistarsi spazi di autonomia e di libertà, pronto addirittura a replicare – come farà anni dopo, il 26 dicembre 1856, rivolto all’amico Mauro Macchi – che
quando i mazziniani fanno evviva all’unità, bisogna rispondere facendo evviva agli Stati Uniti d’Italia. In questa formula, la sola che sia compatibile con la libertà e con l’Italia, vi è la teoria e la pratica; tutte le questioni possibili vi stanno già sciolte (Epistolario, cit., 2° vol., 1952, p. 433).
Del resto, già qualche anno prima – scrivendo a Enrico Cernuschi nell’agosto del 1851 –, oltre a ribadire, con un totale spirito liberale, che «il sottomettersi agli altrui dettami è da ciechi o da servili. Il transigere è da scoscienziati e imbroglioni», ha addirittura confessato: «io credo che il principio federale, come conviene agli Stati, conviene anche agli individui» (Epistolario, cit., 2° vol., 1952, p. 88).
Né basta. Infatti, Cattaneo sta ormai da oltre un quinquennio nel suo eremo ticinese, quando, il 16 novembre del 1855, in un’efficace lettera-autoritratto all’abate Carlo Cameroni, ammette che (nonostante la sua partecipazione al «diavolezzo dei cinque giorni», come ha sostenuto già nel 1852)
la politica fu sempre parte affatto secondaria dei miei pensieri, essendomi io sempre ingegnato di servire quietamente il mio paese. E se nondimeno ebbi a prendere qualche impegno di tal fatta, fu per necessità di circostanze (p. 242).
E del resto – se si consulta il suo vastissimo Epistolario – se ne trova una testimonianza in una lettera del 17 febbraio 1849, nella quale Cattaneo confida a un altro amico, Francesco Restelli, che
per natura rifuggo da ogni posizione troppo cospicua, dove le transazioni sono inevitabili, eccetto un momento d’assoluta necessità, come furono i cinque giorni di Marzo. Io posso farmi utile alla causa quando mi si lasci lavorare nel mio angolo e a modo mio (1° vol., 1949, p. 319).
Con queste parole Cattaneo intende non già cancellare ogni interesse per le cose politiche, ma, al contrario, spiegare che il suo principale impegno rimane quello di dedicarsi a far capire quanto è accaduto, pur senza prendere più parte diretta nell’agone politico. Per convincersene, basta l’edizione italiana delle cosiddette memorie, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1849), considerata ormai un vero e proprio manifesto del federalismo. Infatti, se Milano ha perso e gli austriaci sono potuti tornare, la colpa principale è dei moderati, cioè di quelle «forze retrograde», incapaci di comprendere che è stato soprattutto il popolo, composto da artigiani e operai, a insorgere, e anche a finire ucciso, come risulta chiaramente dai registri mortuari dell’insurrezione presi in esame da Cattaneo.
Così, nell’ultimo capitolo, indicato con il termine Corollarii, appare chiara e netta la denuncia della sostanziale connivenza fra Carlo Alberto («non come a uomo, bensì come a simbolo e specchio di tutti i cortigiani suoi», precisa: L’insurrezione di Milano, a cura di M. Meriggi, 2011, p. 238) e gli esponenti di casa d’Austria; emerge altresì il fermo convincimento cattaneano – tanto osteggiato da «Gioberti e li altri piaggiatori della corte» – che «non si perviene all’indipendenza, cioè alla vittoria nazionale, se non per la via della libertà» (p. 237). Ecco perché, contro «il sogno dei cortigiani e dei sofisti, il sogno […] dell’Italia non Italia» (p. 232), l’obiettivo che Cattaneo ribadisce, diventa perentorio: «ogni Stato d’Italia deve rimanere sovrano e libero di sé» (p. 233). Altrimenti,
finché l’Italia avrà governi sconnessi, muniti di forze ineguali, infetti dalla barbarica ambizione d’assoggettarsi i vicini, la parte debole o corrotta sarà sempre tentata d’invocare contro il fratello la spada straniera; e si ripeterebbe eternamente la scelerata istoria della nostra servitù (p. 233).
Comunque, Cattaneo non esaurisce qui la sua denuncia, ma proietta il futuro dell’Italia, collegandolo con quanto dovrà verificarsi «in mezzo a un’Europa tutta libera e tutta amica». E in tale prospettiva, nella pagina finale non solo auspica che
il principio della nazionalità, provocato e ingigantito dalla stessa oppressione militare che anela a distruggerlo, dissolverà i fortuiti imperii dell’Europa orientale; e li trasmuterà in federazioni di popoli liberi (p. 242)
ma conclude il libro con un imperativo, destinato a diventare famoso: «Avremo pace vera, quando avremo li Stati Uniti d’Europa».
Il tema storico-critico sulle vicende italiane lo riprende nelle Considerazioni al primo volume dell’Archivio triennale (apparso nel 1850), che riguardano «le cose d’Italia nel 1848», dove spicca severissimo il giudizio – che è di condanna – relativo all’atteggiamento via via «più aspro e cavilloso» assunto dal governo austriaco, sempre più teso, secondo Cattaneo, a «configgere sul letto di Procuste tutte l’altre nazioni», o addirittura a togliere «alle provincie italiane le armi, la bandiera, il pubblico onore e la privata sicurezza» (Opere scelte, cit., 3° vol., pp. 288 e 289). Non solo: Cattaneo esprime il proprio netto contrasto anche nei confronti della Giovine Italia mazziniana, che a suo avviso «parlava una lingua ardua alle plebi, […] non era popolare, non penetrava addentro nella carne del popolo» (p. 301).
Ma, una volta di più, Cattaneo supera le angustie dei confini nazionali e – consapevole che «l’oceano è agitato e vorticoso; le correnti vanno a due capi: o l’Autocrata d’Europa [= l’Austria-Ungheria], o li Stati Uniti d’Europa» (p. 301) – non rinuncia a guardare con fiducia all’avvenire, nell’attesa di
quel giorno che l’Europa potesse, per consenso repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile all’America, quel giorno ch’ella si scrivesse in fronte: Stati Uniti d’Europa (pp. 329-30).
E questa attenzione rivolta alle due realtà – quella elvetica e quella statunitense (l’una apprezzata direttamente attraverso il soggiorno a Castagnola, l’altra conosciuta anche in base alla lettura del capolavoro di Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835-1840) – spiega come il federalismo cattaneano acquisti sempre maggiore arricchimento.
Infatti, pochi anni dopo, nell’Avviso al lettore in apertura del terzo volume dell’Archivio triennale (1855), la ripetuta denuncia della «fallace politica» (Archivio triennale delle cose d’Italia, a cura di L. Ambrosoli, 1974, t. 2, p. 1496) perseguita dal governo piemontese – tale da produrre «tutta quella tenace catena d’errore, di disordine e di meravigliosa impotenza» (p. 1496) –, porta Cattaneo a chiarire
la differenza pratica tra il principio della federazione e quello dell’egemonia, tra quello dell’eguaglianza e quello della preminenza, tra quello dell’emulazione e quello della gelosìa (p. 1498).
E per fare intendere ancora meglio che «ogni popolo» deve avere ben chiari gli interessi che è chiamato a «trattare egli solo», e quelli da «trattare in comune con altri popoli», Cattaneo evidenzia bene il ruolo spettante a ogni entità statale e, insieme, i necessari collegamenti fra le altre entità nazionali, chiamando in causa quel complesso, fecondo e articolato sistema federale che – a differenza di ogni rigido sistema unitario – comprende «il diritto dei popoli, il quale deve avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell’umanità» (pp. 1500-01).
Già una decina di anni prima, affrontando un tema diverso, a proposito delle Considerazioni sul principio della filosofia – apparse su «Il Politecnico» (1844, 39, pp. 292-313) – Cattaneo, per meglio spiegare che «l’istoria è l’eterno contrasto fra i diversi principii che tendono ad assorbire e uniformare la nazione», si era premurato di ribadire che «la varietà è vita, e l’impassibile unità è morte» (Opere scelte, cit., 2° vol., pp. 357 e 358): con la conseguenza che se si vuole andare avanti (consapevoli, come già ribadito da Romagnosi, che «il progresso si fa quasi per addentellato», p. 362), occorre procedere per «successione di mutamenti» (p. 362), senza mai dimenticare che
la fòrmula suprema del buon governo e della civiltà è quella in cui nessuna delle domande nell’èsito suo soverchia le altre, e nessuna del tutto è negata (p. 361).
Precisazione che costituisce un esempio della costante Weltanschauung liberale cattaneana.
Sempre attentissimo a richiamarsi alla lezione della storia, il federalismo come fattore costante di libertà (anzi, di liberazione dai vincoli oppressivi) Cattaneo lo ripropone anche nelle pagine che dedica a La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), convinto che «la città sia l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua» (Opere scelte, cit., 4° vol., p. 79). Infatti, risalendo indietro nel tempo, si ritrova come elemento costante che
le città sono mercati stabili, vaste officine, porti alimentati da lontani commerci; non hanno altro vincolo colle terre circostanti che quello d’un prossimo scambio delle cose necessarie alla vita, non altrimenti che navi ancorate sopra lido straniero (p. 82).
Ma, lungi dall’apparire un modello autarchico, «l’ordine municipale» è sempre stato un fattore di crescita e di sviluppo, fin tanto che la pretesa di egemonia non ha provocato qualche «profonda sovversione» con i tentativi di singole città di «primeggiare» (o addirittura prevaricare) sulle «città circostanti», portandosi dietro quella che Cattaneo indica come «catena eterna di gelosie, di discordia». E c’è stato chi ha sostenuto che «la città, in questo saggio famoso, si trasforma, diventa mito e metafora e quasi un programma politico» (D. Frigessi, La città: un principio popolare, in Carlo Cattaneo e il “Politecnico”, 1993, p. 225).
Intanto gli avvenimenti del 1859-60, ben diversi da quanto Cattaneo si augurava, lo spingono a riprendere «Il Politecnico» nella seconda serie, dove tra l’altro interviene per criticare quello che gli stessi governanti italiani «chiamano lo Stato compatto» e per polemizzare fin dal titolo con La circolare del ministro Farini sul riordinamento amministrativo («Il Politecnico», 1860, 50, pp. 281-85) che pretende (e si illude) di riuscire a trovare un equilibrio fra l’autorità centrale dello Stato e gli spazi di libertà che comuni e province vanno reclamando:
A noi pare che [...] l’unità dello Stato si sarebbe dovuta coordinare coll’alacre sviluppo della vita locale, e colla soda libertà [...]; se i ministri non avessero fatto l’infausta prova d’imporre alle provincie ciò ch’essi chiamano i vincoli della burocrazia centrale, non sarebbero, dopo sì pochi mesi, costretti a promettere di spezzarli (Opere scelte, cit., 4° vol., p. 257).
E, respingendo il prevalere centralistico delle burocrazie, «dai supremi e quasi augusti governatori fino agli ultimi loro scrivani» (p. 261), ripropone la sua concezione federalistica, sempre più convinto che
la formula degli Stati Uniti o Regni Uniti è in Italia l’unica possibile forma d’unità e di durevole amicizia e di pratica e soda libertà; essa esprime la sola possibile armonia delle libere forze (p. 261).
Proclamata l’unificazione (1861), Cattaneo non rinuncia alla sua battaglia contro il centralismo statale, di cui sono robusto esempio gli interventi che pubblica – con quattro lettere aperte – sulla testata torinese «Il diritto» fra il 7 giugno e l’8 luglio del 1864, dove contesta quanto sta succedendo, per cui
le municipalità dipendono dal prefetto o dal viceprefetto; eseguiscono gli ordini di questi; e in caso d’inobedienza, possono esser sospese o fatte supplire. L’unico diritto del nuovo comune italiano è il diritto d’obedienza (prima lettera; I problemi dello Stato italiano, a cura di C.G. Lacaita, 1966, p. 227).
Per Cattaneo ogni comune, qualunque sia la sua dimensione – come conferma una storia plurisecolare – costituisce un centro vitale, che non va aggregato forzatamente ad altri, ma di cui occorre garantire il «diritto di continuare». E il suo commento, nella seconda lettera (22 giugno 1864), è tagliente: «Meglio vivere amici in dieci case, che vivere discordi in una sola» (p. 235). Del resto – scrive sempre nella seconda lettera –, se già dopo la metà del 18° sec. la Lombardia è stata in grado, nonostante fosse così spesso «campo di guerra», di veder crescere di continuo la sua prosperità, lo
si deve alla molteplicità dei comuni, alla mutua loro dipendenza, a una larga padronanza delle cose proprie, a un più libero uso della ragione e della volontà nei proprii affari. Questo è il secreto; e questo vuolsi divulgare per tutta l’Italia (pp. 233-34).
Donde emerge, insieme al rifiuto di ogni tipo «di accentrazioni violente», la conclusione, dal chiaro sapore politico, che Cattaneo ribadisce nella quarta (e ultima) lettera:
espresso o tacito, il più efficace provvedimento di qualunque nuova legge comunale sarà questo: assicurare la più libera diffusione del diritto municipale su tutta la superficie dell’Italia (p. 248).
Ma le critiche nei confronti della «fallace politica» del governo piemontese, che pretende «d’acquistare a primo tratto nuove provincie», si spiegano ancora meglio appena si legge quanto Cattaneo ha già chiarito nell’Avviso ai lettori (indicato anche come Proemio) al terzo volume dell’Archivio triennale, sottolineando come «la differenza pratica tra il principio della federazione e quello dell’egemonia» si identifica con la differenza che esiste «tra quello [= il principio] dell’eguaglianza e quello della preminenza, tra quello dell’emulazione e quello della gelosia!» (Archivio triennale, cit., p. 1498). Altro che «sistema delle vecchie repubblichette», come pretendono quanti non capiscono la differenza sostanziale fra «la federazione» e «l’unità», o, peggio ancora, fingono di ignorare qual è «l’effetto del principio federale e fraterno» (p. 1497). E proprio il termine fraterno chiama in causa il ruolo della solidarietà come fattore propulsivo di coesione sociale.
Si spiega così perché Cattaneo è un critico severo dei plebisciti quale strumento per aggregare – durante il processo di unificazione – le nuove popolazioni al Piemonte sabaudo. Una simile procedura può servire – secondo la graffiante immagine cattaneana contenuta nel saggio Savoia e Nizza («Il Politecnico», 1860, 8, pp. 365-77) – soltanto ad accrescere la monarchia piemontese: anzi, a produrre un «regno ambulante» (Scritti politici, a cura di M. Boneschi, 4° vol., 1965, p. 52), mentre occorre saper creare uno Stato nuovo, coinvolgendo tutti i cittadini attraverso un effettivo patto fra liberi ed eguali, pur senza mai indulgere a scelte rivoluzionarie (come ha ben chiarito Armani in Cattaneo riformista. La linea del “Politecnico”, 2003).
Del resto, quando decide, nel settembre del 1860, di allontanarsi da Lugano per rispondere all’invito di Garibaldi e raggiungere Napoli, Cattaneo si accorge che persino il generale fatica a comprendere il suo federalismo, al punto da chiedere ad Alberto Mario «come mai un tanto uomo è federalista e sì fieramente avverso all’unità per la quale combattiamo» (Armani 1997, p. 171). È verissimo che Garibaldi lo accoglie «come un fratello» (così Cattaneo scrive subito alla moglie) e vuole trattenerlo vicino; ma è altrettanto vero che il ricorso al plebiscito – complice Camillo Benso conte di Cavour – finisce per accrescere quel processo di «annessione» che è inaccettabile per Cattaneo. Il quale se ne torna a Castagnola, e sulle pagine de «Il Politecnico» pubblica l’articolo non firmato L’Italia armata (1861, 10, pp. 706-19, in seguito ripubblicato con il titolo Nazione armata; ora in Scritti politici, cit., 4° vol., pp. 130-47), dove rinnova il suo severo giudizio nei confronti di quanto è avvenuto, perché quello che doveva costituire «un eroico atto di liberazione» (con il popolo napoletano – e meridionale, in genere – quale autentico protagonista) ha finito per degenerare in un «atto di conquista», ancora una volta a vantaggio della politica incarnata da Vittorio Emanuele II e da Cavour.
Un altro degli argomenti che misurano quanto Cattaneo sia sempre stato indipendente, e spesso molto originale, nelle sue prese di posizione, riguarda la grande importanza da lui riservata ai problemi militari, e soprattutto al tema della «nazione armata». Fin dalla Prefazione apparsa anonima su «Il Politecnico» nel 1860 (9, pp. 5-24), ha voluto chiarire:
Tra l’armamento stanziale, che vive d’assidua prodigalità, e l’armamento popolare, che fa costante risparmio di tempo e di denaro, ferve quella stessa guerra come tra un’industria fruttifera e un’industria che non compensa il capitale (Opere scelte, cit., 4° vol., p. 210).
Da qui la preferenza – rispetto al modello francese, o napoleonico – che Cattaneo accorda all’armamento popolare – o «nazionale», come specifica –, perché
ha in sé un principio di moralità eminente; poiché mentre è irresoluto e inefficace alle guerre ambiziose e invasive, è tanto più poderoso nelle guerre d’incolpabile difesa. È dunque un pegno dato alla giustizia, alla pace del mondo, alla concordia del genere umano (p. 210).
Quasi non fosse stato sufficientemente esplicito, Cattaneo ricorre a un’esemplificazione che, pur senza indicare esplicitamente i nomi di Garibaldi e di Cavour, chiama in causa quanto sta succedendo nella realtà italiana:
Noi vediamo alle due estremità dell’Italia i due sistemi alla prova. Dall’un capo, un povero marinajo senza patria [= Garibaldi], con due navi inermi e un migliajo di giovani capitati a caso, può sfidare un re che ha cento cinquanta mila soldati [= Francesco II re delle Due Sicilie], un pontefice che ha cento cinquanta milioni di credenti, una potenza che fa paura al mondo [= l’Austria-Ungheria]. Dall’altro capo, chi [= Cavour] tiene in sua mano una nazione volente e fidente, un parlamento, un esercito, un tesoro, un credito, sta miseramente confitto in una politica che non dev’essere la guerra, e non può essere la pace; che non dev’essere il moto e non può essere la quiete; e si riduce ad un’alleanza [= quella con la Francia], a cui per forza d’origine già spuntano le ale della conquista (p. 211).
L’anno dopo, nel citato articolo L’Italia armata, usando l’immagine ancora più netta di «nazione armata» contro chi insiste sulla «necessità d’un ingente esercito stanziale», Cattaneo – fedele al principio: «noi seguiamo la via dell’esperienza» (I problemi dello Stato italiano, cit., p. 81) – invita a guardare a quanto avviene in Svizzera, dove
tutti i cittadini, dall’adolescenza ai confini della vecchiaja, stanno ammaestrati e ordinati con officiali, armi e corredo, sicché possono da sera a mattina rispondere ad un colpo di telegrafo che li chiami a servire di guerra. La popolazione svizzera, benché dieci volte minore di quella del nostro regno, non tiene altri soldati; nessuno è croupier, nessuno è péquin; tutto il popolo è una sola milizia; non v’è dualità; tutti sono fratelli d’arme (p. 92).
Lo stesso dovrebbe accadere in Italia, soprattutto perché – anche a motivo della posizione geografica – non dobbiamo dimenticare che «nessuna nazione ha tanti nemici come la nostra» (p. 94).
Senza la minima perplessità, nello stesso articolo Cattaneo conclude: «il nostro ideale è che la nuova generazione in Italia debba crescere tutta iniziata alle libere armi come ai liberi pensieri» (I problemi dello Stato italiano, cit., p. 100). È una posizione abbastanza insolita, questa di Cattaneo, che ne fa un «solitario» del nostro Risorgimento, e spiega perché Giovanni Spadolini ha voluto definirlo
un razionalista in un’epoca di miti, un individualista in una stagione di entusiasmi collettivi, uno studioso in un tempo di passioni eroiche, un loico in un momento di impeti disperati (G. Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, 1993, p. 125).
Comunque non va taciuta l’operosità, febbrile e ininterrotta – anche durante il soggiorno in Ticino –, mai puramente di studio (anche se dedicata ad affrontare argomenti di linguistica o di storia e geografia di paesi lontani, come la Cina o il Messico) ma collegata soprattutto a concreti problemi di attualità (Moos 1992). Per la verità, fin dagli anni Trenta Cattaneo ha affrontato e scritto sull’importanza delle vie di comunicazione, come dimostrano le sue pagine dedicate alle Ricerche sul progetto di una strada ferrata da Milano a Venezia (Scritti economici, a cura di A. Bertolino, 1° vol., 1956, pp. 112-77). Ma – sempre pronto a guardare al di là delle meschine divisioni fra i diversi Stati nazionali – è soprattutto nell’ultimo periodo che Cattaneo insiste sull’urgenza di trovare i più efficaci strumenti di collegamento fra le zone dell’Italia settentrionale e il resto dell’Europa centrale.
Da qui la sua ostinata insistenza a favore della realizzazione di una linea ferroviaria attraverso il Gottardo, l’unica in grado di collegare all’Europa una grande regione quale la Lombardia, in aperto dissenso con quanti, specie nel Cantone Ticino, insistevano nel privilegiare il passo di Lucomagno. Una volta di più al Cattaneo studioso si affianca il Cattaneo pragmatico, consapevole delle indiscutibili necessità di incremento del commercio internazionale in tutta l’area del continente europeo. Ma, nonostante i molteplici contatti, avverte di essere spesso isolato, anche se non esita a respingere ogni invito, pur con parole cariche di amarezza (come quando ripete: «di questo cencio di vita che mi resta, lasciatemi fare il bucato in casa e con la minima spesa», lettera a Gaetano Strambio del 14 settembre 1867, in Epistolario, cit., 4° vol., 1956, p. 503). Tuttavia non rinuncia mai a sostenere le proprie idee con leonardesco «ostinato rigore»; anzi, se gli tocca di trovarsi isolato o di rimanere in minoranza, si guarda bene dal cambiare rotta, sempre convinto – come scrive ad Agostino Bertani il 12 giugno 1861 – che «ognuno ha il suo destino nel suo carattere» (3° vol., 1954, p. 513).
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Epistolario, a cura di R. Caddeo, 4 voll., Firenze 1949-1956.
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Scritti storici e geografici, a cura di G. Salvemini, E. Sestan, 4 voll., Firenze 1957.
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