Delitto commesso da un pubblico ufficiale, o da persona incaricata di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce qualcuno a dare o a promettere indebitamente a lui o a un terzo denaro o altra utilità. La pena prevista (art. 317 c.p.) è la reclusione dai 4 ai 12 anni a cui si aggiunge la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Prevista nel diritto romano con formulazioni comprensive del delitto di estorsione e di corruzione, dal periodo del diritto intermedio e, soprattutto, dall’entrata in vigore dei codici preunitari, la concussione ha acquisito la configurazione di abuso di autorità commesso dal pubblico ufficiale che sfrutta il cosiddetto timore dell’autorità del privato cittadino rispetto alla pubblica amministrazione. L’abuso della qualità implica che il soggetto agente usufruisca della propria qualifica soggettiva per costringere o indurre altri a dare o a promettere denaro o altra utilità indipendentemente dal legame con atti del proprio ufficio. La giurisprudenza, infatti, ha affermato che non è necessario che l’abuso sia correlato ad atti effettivamente rientranti nella competenza del soggetto agente, essendo sufficiente che la qualità oggettiva faccia riferimento a una specifica competenza di fatto. Presupposto dell’abuso dei poteri è invece la capacità di esercitarli legittimamente, ossia di porre in essere atti rientranti nei limiti della propria competenza, e consiste nell’esercizio della potestà di cui il soggetto è investito per uno scopo a essa difforme. La condotta può estrinsecarsi con modalità diversificate in quanto non è vincolata a forme predeterminate e tassative. Oggetto giuridico della norma in esame è il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. In quanto configurabile solo se posto in essere dai soggetti indicati dalla norma, tale delitto appartiene alla categoria dei cosiddetti reati propri.