cùneo fiscale La differenza tra quanto costa un dipendente al datore di lavoro e quanto riceve al netto lo stesso lavoratore, calcolata in percentuale del salario lordo. In termini nominali, il cuneo fiscale è ottenuto ponendo al numeratore la differenza tra, da un lato, il salario lordo nominale e gli oneri sociali pagati dal datore di lavoro, dall’altro, lo stesso salario, da cui sono però tolte le imposte dirette e gli oneri sociali versati dal dipendente, e mettendo al denominatore ancora il salario nominale lordo. Poiché gli oneri sociali e le imposte dirette sono pari a un’aliquota moltiplicata per il salario nominale lordo, che ne è la base imponibile, il cuneo fiscale (in inglese tax wedge) in termini nominali è uguale alla somma dell’aliquota delle imposte dirette sui redditi da lavoro e dell’aliquota dei contributi sociali sborsati sia dal datore di lavoro, sia dal lavoratore. In termini reali, il cuneo fiscale si calcola ponendo, nella frazione sopra discussa, al numeratore la differenza fra, da un lato, il costo del lavoro deflazionato per i prezzi alla produzione, rilevanti per il datore di lavoro, dall’altro, il salario netto deflazionato per i prezzi al consumo, significativi per misurare il potere d’acquisto dei lavoratori, e mettendo al denominatore il salario reale lordo. Poiché i prezzi al consumo sono pari a quelli alla produzione, aumentati delle imposte indirette su di essi pagate in base alla corrispondente aliquota, il cuneo fiscale in termini reali è approssimativamente eguale alla somma delle aliquote sulle imposte indirette, su quelle dirette e sugli oneri sociali a carico del reddito da lavoro dipendente.
Al di là dei tecnicismi, si capisce che quanto maggiore è il cuneo fiscale, tanto più è possibile abbassare i costi per l’impresa e/o contemporaneamente alzare i benefici per i lavoratori, senza danni per alcuno, salvo che per l’erario della Pubblica Amministrazione. Inoltre, tenuto conto che sia le imposte dirette sia le indirette e i contributi sociali provocano distorsioni nei comportamenti degli agenti, perché li modificano, non essendo tasse di tipo fisso/capitario (in inglese, di tipo lump-sum tax), una contrazione del cuneo fiscale ha presumibilmente l’effetto di ridurre l’area delle distorsioni create dalla presenza pubblica nel sistema economico.
Una stima empirica del cuneo fiscale in termini nominali è regolarmente fornita dall’OCSE nella sua pubblicazione annuale Taxing Wages. Nei principali paesi extraeuropei (USA e Giappone) il cuneo fiscale nominale non supera il 31%, mentre in Europa oscilla tra il minimo del 28% in Irlanda e il massimo del 70% in Belgio; Francia e Germania sono a livelli alti, tra il 60 e il 67%, il Regno Unito è sul 34%. Per quanto riguarda l’Italia, il cuneo fiscale nominale è del 60% o del 63%, a seconda che si ignori o si includa anche l’IRAP. Per analizzare invece il cuneo fiscale in termini reali, è necessario trarre ulteriori informazioni dalla fonte Revenue Statistics dell’EUROSTAT, dalla quale si evince l’aliquota media sulle imposte indirette, pagate cioè sulla produzione e vendita di beni e servizi, in primo luogo l’IVA e le accise. Ne deriva così una stima del cuneo fiscale reale, che in Italia si attesterebbe sul 71 o sul 74%, a seconda che si escluda o meno l’IRAP, a fronte di un livello maggiore in Francia (78%), pressoché identico in Germania, ma esattamente dimezzato negli Stati Uniti e in Giappone (al 35,6% e al 36%, rispettivamente).