Diplomazia
Secondo il Dizionario Enciclopedico Italiano, 'diplomazia' è "l'arte di trattare, per conto dello Stato, affari di politica internazionale. Più concretamente, l'insieme dei procedimenti attraverso i quali uno Stato mantiene le normali relazioni con altri soggetti di diritto internazionale (Stati esteri e altri enti aventi personalità internazionale), al fine di contemperarne gli interessi in contrasto e di favorire la reciproca collaborazione per la soddisfazione di comuni bisogni". Secondo l'Oxford English Dictionary, 'diplomazia' è la "condotta delle relazioni internazionali attraverso negoziati: il metodo grazie al quale tali relazioni vengono equilibrate (adjusted) e condotte da ambasciatori e inviati; il mestiere e arte del diplomatico".
In ambedue le definizioni è nascosta una possibile contraddizione. Ciascuna di esse sostiene che la diplomazia è un mestiere o una tecnica, da non confondersi con la politica estera. Ma ambedue - e l'italiana in particolare - mettono l'accento sul carattere negoziale e pacifico dell'attività diplomatica. Il diplomatico sarebbe quindi un avvocato a disposizione dello Stato, titolare di alcune conoscenze ed esperienze che possono facilitare il perseguimento dell'interesse statale. Ma non sarebbe privo al tempo stesso di una propria particolare vocazione alla pacifica composizione dei conflitti d'interesse nella vita internazionale. Mette la propria tecnica al servizio dello Stato e applica le direttive di coloro a cui spetta definirne gli interessi e gli obiettivi; ma la tecnica tende a trasformarsi in politica e a condizionare il suo atteggiamento. Egli sarebbe quindi il volto pacifico e conciliante dell'attività internazionale d'uno Stato, il suo modo d'essere nelle circostanze in cui esso ritiene possibile armonizzare i propri interessi con quelli degli altri Stati, e si trarrebbe in disparte ogniqualvolta l'armonizzazione degli interessi diventa impossibile.
Nonostante questa potenziale contraddizione, le due definizioni circoscrivono con sufficiente precisione l'argomento di questo articolo. Converrà tenere presente sin d'ora, comunque, che la differenza tra diplomazia e politica estera è meno facile e netta di quanto non si creda, e rischia di dar luogo, se condotta sino alle sue estreme conseguenze, a una di quelle oziose distinzioni tra forma e contenuto che hanno lungamente viziato i dibattiti estetici. Come nell'arte anche in diplomazia il mezzo espressivo e il messaggio che esso trasmette sono una stessa realtà, difficilmente scindibile. Vedremo infatti più in là che i modi, i tempi e le forme della diplomazia sono direttamente collegati alla natura degli Stati, al concetto che essi hanno dei loro interessi e agli obiettivi che si propongono di raggiungere. Al tempo stesso sarà bene tener presente che non sempre l'attività diplomatica è diretta alla composizione delle vertenze e alla conciliazione degli interessi nazionali. Vi sono circostanze in cui essa prepara l'affermazione della potenza e mette le sue tecniche al servizio di un disegno egemonico o violento. Con queste necessarie distinzioni possiamo entrare in argomento.
L'invio di messi e legati presso sovrani o governi stranieri per concludere alleanze, stringere rapporti commerciali o comporre litigi, risale certamente all'antichità. Vi ricorsero con grande frequenza i Greci, costretti dalle dimensioni dei loro Stati a ricercare modi d'intesa e convivenza con i loro vicini, meno frequentemente i Romani, che potevano far sentire sugli altri il peso della loro forza. Il diplomatico, in questa fase, è spesso un retore, inviato a perorare con argomenti politici e persuasiva eleganza l'interesse del suo paese presso uno Stato straniero. Ha uno specifico mandato e si trattiene all'estero per il tempo necessario ad assolverlo. Sin d'ora, tuttavia, cominciano a porsi i caratteristici problemi delle missioni diplomatiche: libertà di passaggio attraverso il territorio straniero, salvacondotti, immunità. Per tutelare la persona del diplomatico si ricorre spesso a impegni formali, talora sanciti con giuramenti di carattere religioso. Si delinea al tempo stesso un altro aspetto dell'attività diplomatica: il carattere solenne e rituale delle cerimonie che accompagnano l'arrivo, l'accoglienza e la partenza. Perché tutti siano consapevoli della forza e della ricchezza del paese che egli rappresenta, il diplomatico deve vestire solennemente, avere un largo seguito, portare doni lussuosi; e deve essere accolto con la solennità dovuta al suo rango e all'importanza del suo paese. Sin dalle sue prime manifestazioni la diplomazia comincia a parlare un linguaggio apparentemente futile e vacuo, in realtà traslato e simbolico.Il passaggio da una diplomazia occasionale, motivata dalla necessità d'affrontare e risolvere problemi specifici, a una diplomazia residente, in cui il diplomatico è titolare di un generale mandato per la rappresentanza del suo Stato presso uno Stato straniero, avviene in Italia nel corso del Quattrocento e riflette le nuove esigenze degli Stati italiani. Con la pace di Lodi (1454) e la costituzione di una 'santissima lega' - la Lega italica - che comprendeva tutti gli Stati della penisola, cominciò, dopo le guerre dei decenni precedenti, una fase di assestamento, nel corso della quale gli Stati regionali badarono soprattutto a consolidare la loro autorità e a perfezionare gli strumenti necessari per l'esercizio del loro nuovo potere. Occorreva quindi evitare che l'equilibrio così faticosamente raggiunto a Lodi venisse turbato dalle ambizioni egemoniche di questo o quello Stato. A tale generale obiettivo, che tutti dichiaravano di condividere, anche se ogni Stato diffidava della sincerità e delle reali intenzioni degli altri, la diplomazia dette un contributo determinante. Grazie a essa gli Stati italiani poterono meglio controllarsi e sorvegliarsi, evitare sorprese, dissipare malintesi, mantenere intatto con continui aggiustamenti di rotta l'equilibrio di Lodi. Nasce quindi in Italia nella seconda metà del Quattrocento la diplomazia moderna, ma è lecito chiedersi se gli Italiani abbiano motivo per esserne orgogliosi, giacché la sua prima missione fu quella d'impedire che nella penisola, a differenza di quanto era accaduto in Francia, Inghilterra e Spagna, uno degli Stati avesse il sopravvento sugli altri. Essa raggiunse perfettamente il suo scopo: ne fu prova la facilità con cui Carlo VIII, re di Francia, invase la penisola nel 1494. Da allora l'Italia cessò d'essere un centro di potere autonomo e i suoi Stati dovettero generalmente, per sopravvivere o soddisfare le loro ambizioni locali, adeguarsi alla politica di un potente protettore. Con gli spazi della sovranità si restrinsero di conseguenza anche quelli dell'attività diplomatica, che divenne da allora conforme al ruolo riflesso della penisola italiana nella storia europea. Ma gli anni del declino furono ancora, dal punto di vista diplomatico, molto fecondi. Basta ricordare le numerose missioni di Machiavelli in rappresentanza della Repubblica fiorentina agli inizi del Cinquecento. Di quelle missioni rimangono fra l'altro due grandi relazioni, modelli di scrittura diplomatica per le generazioni successive: il Ritratto di cose di Francia e il Rapporto di cose della Magna.
Non tutti gli Stati della penisola furono abbassati a un livello regionale. Gli Stati della Chiesa, per l'influenza che il papato esercitava direttamente o indirettamente sugli Stati europei, e la Repubblica di Venezia, per l'importanza dei suoi interessi nel Levante, non erano esclusivamente regionali ed ebbero una parte nelle vicende europee dei secoli seguenti. Sono questi per l'appunto gli Stati italiani che dedicano maggiore attenzione alla diplomazia e che maggiormente contribuiscono a fissarne i caratteri, le norme, le tradizioni. Venezia, in particolare, è troppo consapevole della propria vulnerabilità internazionale e della fragilità del proprio potere per non dedicare particolare attenzione agli avvenimenti mondiali. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 e il consolidamento dell'Impero ottomano sulle frontiere meridionali dell'Europa, essa è ormai uno Stato di frontiera, in continuo contatto per terra e per mare con un potenziale nemico. Mentre le prospettive di una grande crociata dei principi cristiani contro l'avversario comune divengono, col passare del tempo, sempre più remote, la Repubblica presta una crescente attenzione alla politica internazionale ed è sempre più interessata a carpirne per tempo ogni più piccolo segnale. Non basta quindi seguire attentamente la politica estera delle maggiori potenze. Occorre valutarne l'importanza economica, la forza militare e la stabilità politica per meglio pesare il loro ruolo, analizzare l'importanza delle forze in campo, anticipare per quanto possibile l'esito di un confronto. Con un provvedimento del 1425, che ribadiva un obbligo più antico, la Repubblica prescrisse a tutti i diplomatici che rientravano da una missione straniera l'obbligo di riferire, inizialmente a voce poi per iscritto, il risultato delle loro osservazioni ai Consigli di governo. Relazioni esemplari furono quelle di Zaccaria Contarini dopo la missione in Francia del 1492, di Andrea Gritti dopo la missione a Costantinopoli del 1503 e di Vincenzo Quirini, dopo la missione in Germania del 1507. Vi si leggono notizie politiche, geografiche, economiche, religiose, insieme a penetranti ritratti del sovrano straniero, dei suoi ministri e dei maggiori esponenti della sua corte. L'ampiezza delle informazioni fornite è tale da rendere queste relazioni importanti anche per avvenimenti che non avevano diretta incidenza sulla politica e sugli interessi della Repubblica Veneta. Quando la Hugeunot Society di Londra si mise alla ricerca di testimonianze sulle lotte religiose che precedettero in Francia il massacro della notte di san Bartolomeo, constatò che una delle fonti più obiettive e documentate era rappresentata dai dispacci che due ambasciatori veneziani, Michele Soriano e Marc'Antonio Barbaro, inviarono da Parigi fra il 1° novembre 1560 e il 10 novembre 1561.
Il sistema italiano della diplomazia residente si era gradualmente esteso nel frattempo al resto d'Europa, dove ebbe subito per molti aspetti una funzione analoga a quella che aveva svolto nella penisola durante la seconda metà del Quattrocento. In un sistema caratterizzato dall'apparizione di grandi Stati, che avevano consolidato il loro potere sul territorio originale e si contendevano il dominio dell'Europa continentale, la diplomazia residente ebbe una funzione equilibrante. Permise ai governi di tenersi d'occhio, raccogliere notizie sulle loro reciproche intenzioni, sventare sorprese. Di qui certamente l'ambivalenza che caratterizza sin da allora il trattamento riservato agli inviati d'uno Stato straniero. Da un lato essi rappresentano un sovrano o, come nel caso di Venezia, il patriziato che regge le sorti di una repubblica oligarchica: hanno quindi diritto a essere accolti con gli omaggi formali che verrebbero riservati al loro padrone. Numerose stampe del Cinquecento e del Seicento ci descrivono minuziosamente le cerimonie che accompagnano l'introduzione del bailo veneziano alla corte del sultano e quelle meno appariscenti, ma altrettanto solenni, con cui gli ambasciatori stranieri vengono accolti nelle corti europee.
Proprio perché rappresentanti di una potenza straniera, gli ambasciatori, tuttavia, suscitano diffidenza e sospetto, soprattutto là dove si teme che essi possano complottare contro lo Stato di cui sono ospiti o attentare, in nome di una diversa lealtà, ai vincoli che uniscono i sudditi al loro legittimo sovrano. In Stati che si reggono sul principio della fedeltà dinastica è questo il pericolo da cui ogni principe si guarda continuamente le spalle, ed è pericolo particolarmente avvertito dopo le grandi riforme religiose agli inizi del Cinquecento. Il rispetto dovuto allo Stato straniero vuole che a un ambasciatore sia permesso di seguire i precetti della sua religione, avere al seguito un ministro della sua fede, disporre di un luogo in cui questi possa celebrare i servizi religiosi. Ma come impedire che egli divenga in tal modo un punto di attrazione per i ribelli, siano essi nostalgici o innovatori? In alcune città europee e nella loro toponomastica rimangono ancora tracce della extraterritorialità spirituale che gli ambasciatori pretesero e ottennero nell'esercizio delle loro funzioni. A Londra la chiesa portoghese nei pressi di Regent Street era la cappella dell'ambasciatore del Portogallo e l'albergo Savoy, fra lo Strand e il Tamigi, occupa lo spazio su cui sorgevano un tempo la casa e la cappella del duca di Savoia. A Roma il cimitero detto degli stranieri, accanto alla piramide di Caio Cestio, è tuttora amministrato da un consiglio in cui siedono i rappresentanti degli Stati protestanti che ottennero dalla Santa Sede il diritto di seppellirvi i loro connazionali.
Dell'ambivalenza con cui gli ambasciatori vengono accolti nelle corti europee fra il 1500 e il 1600 troviamo traccia nella pubblicistica dell'epoca. A Londra, nel 1651, apparve postumo il libro di un grande erudito, Robert Cotton (1571-1631), che aveva dedicato la sua vita alla raccolta di antichi manoscritti, ora conservati al British Museum. Nel suo trattato, intitolato A relation of the proceedings against ambassadors who have miscarried themselves, Cotton prendeva in considerazione il caso dell'ambasciatore spagnolo, sospettato di avere seminato zizzania fra il re e il Parlamento. Ammetteva che egli non potesse venir processato per alto tradimento, ma proponeva come rimedio due misure: occorreva confinarlo nella sua casa, affinché non potesse avere alcun contatto con cittadini inglesi, e denunciare il suo comportamento con una lettera al re di Spagna. Cotton proponeva in altre parole che l'ambasciatore straniero venisse dichiarato persona non grata e che gli fosse impedito di esercitare le sue funzioni. Nel secolo seguente la materia fu trattata con maggiore rigore da un giurista olandese, Cornelius van Bynkershoek, in un libro che apparve nel 1721 sotto il titolo De foro legatorum. Van Bynkershoek chiarì che gli ambasciatori dovevano considerarsi immuni perché continuamente soggetti, nel corso delle loro missioni, alla giurisdizione del sovrano di cui erano i rappresentanti. Non erano al di sopra della legge; erano semplicemente sottoposti a una legge diversa. Se lo Stato ricevente avesse cercato di assoggettarli alla propria legge, avrebbe inevitabilmente provocato le rappresaglie del sovrano offeso e impedito di fatto qualsiasi rapporto diplomatico. Fu subito chiaro in altre parole che il criterio fondamentale con cui regolare la materia delle relazioni diplomatiche era quello della reciprocità.
Prima del trattato di van Bynkershoek altre opere avevano definito i compiti, i privilegi e le immunità degli ambasciatori. Alberico Gentili (1552-1608), autore di un importante trattato De iure belli, pubblicò a Londra nel 1585 il De legationibus. Un contemporaneo francese di Cotton, Charles Paschal (1547-1625), pubblicò il Legatus, e sullo stesso argomento apparve a Strasburgo nel 1624 un'opera di Christoph Besold (1577-1638), convertito dal protestantesimo al cattolicesimo, professore alle Università di Tubinga e Ingolstadt. A Padova, quasi contemporaneamente (1627), apparve L'ambasciatore di Gaspare Bragaccia Piacentino. Nasceva in tal modo una dottrina a cui gli Stati potevano fare riferimento per dirimere conflitti e risolvere punti controversi.
Abbiamo accennato più sopra all'influenza dei conflitti religiosi sullo sviluppo dell'attività diplomatica. Furono i negoziati di pace con cui si concluse una guerra di religione, la guerra dei Trent'anni, che marcarono una svolta nella storia della diplomazia. Il primo successo dei diplomatici consistette nella soluzione di uno spinoso problema di cui la storia delle relazioni internazionali contiene altri esempi, sino ai nostri giorni. Poiché i rappresentanti del papa non potevano incontrare i messi protestanti, fu deciso che le trattative si sarebbero svolte in due città della Vestfalia: a Münster, dove l'imperatore avrebbe negoziato con gli inviati delle potenze cattoliche, e a Osnabrück, dove egli avrebbe negoziato con quelli delle potenze protestanti. Iniziati il 23 novembre 1644 e conclusi con la pace di Vestfalia il 24 ottobre 1648, i negoziati dovettero affrontare un complicato intreccio di questioni politiche e religiose: i rapporti dell'imperatore con i suoi sudditi protestanti e di conseguenza il suo effettivo potere nell'ambito del Sacro Romano Impero, la libertà di culto nei territori dell'Impero, la sorte del demanio ecclesiastico negli Stati protestanti, lo status internazionale della Svizzera e dell'Olanda, le ambizioni territoriali della Francia e della Svezia. Ne uscì un complesso di decisioni che modificò profondamente la carta politico-religiosa del continente e definì equilibri che sopravvissero, con qualche aggiustamento, sino alla Rivoluzione francese. Furono la lunga guerra, la tenacia dei protestanti, l'intervento della Francia e della Svezia, l'abilità di Mazzarino e, alla fine, la stanchezza dei combattenti che gettarono le basi del negoziato e fissarono le grandi linee entro le quali esso si sarebbe svolto. Ma furono i diplomatici che dovettero sciogliere nodi, inventare soluzioni, mutuare dal diritto privato le formule più adatte a conciliare i contrastanti interessi delle parti. Nel lavorare pazientemente ai trattati, essi dovettero affrontare e risolvere altri problemi d'ordine formale e procedurale che concernevano lo svolgimento delle loro funzioni: credenziali, immunità, precedenze, libertà di transito e di comunicazione. Come spesso accade, il lavoro costringeva lo strumento ad affinare se stesso. Due diplomatici, ambedue italiani, dettero alla pace di Vestfalia il contributo della loro straordinaria competenza professionale: il nunzio pontificio a Colonia, Fabio Chigi (1599-1667), che divenne poi papa col nome di Alessandro VII, e l'ambasciatore veneziano, Alvise Contarini (m. 1684), che divenne doge nel 1676. Rappresentavano le più antiche diplomazie europee, ma né l'uno né l'altro ricavarono dai trattati, per la Chiesa e per la Repubblica di Venezia, i vantaggi sperati, al punto che Chigi si astenne dall'apporre su di essi la propria firma. Per quanto abile ed esperta, la diplomazia non bastava a modificare i rapporti di forza.
Mentre si combatteva la guerra dei Trent'anni, un grande umanista e giurista olandese, Huig van Groot (in italiano Ugo Grozio: 1583-1645) scriveva un'opera che apparve a Parigi nel 1625 sotto il titolo De iure belli ac pacis. Fortemente colpito dagli orrori di un conflitto che aveva devastato la Germania e che si combatteva ormai senza pietà, con spaventose sofferenze per la popolazione civile, van Groot si dedicò allo studio e all'elaborazione delle norme che dovevano a suo giudizio regolare la condotta degli Stati nei loro rapporti di pace e di guerra. Nasce così una disciplina - il diritto internazionale - la cui storia tende d'ora in poi a intrecciarsi e a confondersi con quella della diplomazia. Per due ragioni. In primo luogo perché una parte del diritto internazionale concerne l'insieme degli obblighi che gli Stati assumono per disciplinare e facilitare l'attività dei diplomatici. In secondo luogo perché il diritto internazionale è per i diplomatici uno strumento analogo, per certi aspetti, alle raccolte di leggi per gli avvocati. Con una fondamentale differenza: mentre la società nazionale è soggetta a un potere che può imporre la propria volontà ai singoli, la società internazionale ne è priva e i suoi membri si conformano al 'diritto delle genti' soltanto quando la sua osservanza non appare a essi incompatibile con la difesa dei loro interessi nazionali. I diplomatici sono quindi custodi di una legge evanescente e mutevole che essi stessi contribuiscono a modificare per adattarla ai rapporti di forza e alle nuove circostanze della vita internazionale. Abbiamo accennato al modo in cui i diplomatici di Vestfalia dovettero risolvere il problema dei negoziati fra i rappresentanti della Santa Sede e quelli delle potenze protestanti. Col senno di poi, le puntigliose resistenze dei primi a qualsiasi contatto diretto col nemico possono apparire dettate da una testarda arroganza. In effetti il problema si presenta ogniqualvolta un potere costituito è costretto a negoziare con un potere ribelle che cerca di affermare il proprio diritto all'indipendenza. La madrepatria - e a Vestfalia la Chiesa di Roma era certamente la patria originale dei cristiani riformati - rifiuta generalmente di accordare ai ribelli, nella fase negoziale, il riconoscimento formale della loro legittima esistenza, perché il riconoscimento è per l'appunto il principale oggetto del negoziato. È assurdo in altre parole dare all'avversario, sin dall'inizio d'una trattativa diplomatica, ciò che egli maggiormente desidera; ed è particolarmente assurdo quando l'inizio del negoziato, come accadde a Vestfalia e spesso accade in queste circostanze, non interrompe le ostilità.
Nel caso della guerra americana d'indipendenza, tuttavia, gli Inglesi dettero prova di una maggiore spregiudicatezza. Quando i 7.000 uomini di Cornwallis dovettero deporre le armi in Virginia, il 19 ottobre 1781, di fronte all'offensiva congiunta delle forze americane e francesi, gli Inglesi si adattarono rapidamente alla prospettiva di un negoziato diretto e Giorgio III tollerò che un emissario andasse a Parigi per trattare con Benjamin Franklin, il quale divenne poi, con John Jay e John Adams, membro della delegazione americana ai negoziati di pace. La Gran Bretagna accantonò qualsiasi scrupolo formale perché comprese che in tal modo avrebbe meglio frustrato le ambizioni francesi e impedito che gli Stati Uniti divenissero il satellite della Francia nel continente americano. Sfruttò il desiderio d'indipendenza degli Americani per meglio rompere l'isolamento di cui aveva sofferto in Europa e altrove dopo lo scoppio della rivolta. Mette conto segnalare come singolare esempio di realismo politico il fatto che i rapporti 'speciali' fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti nascano, quasi senza soluzione di continuità, nel momento stesso in cui le due parti cessano di farsi la guerra.
Ma il trattato preliminare di pace che gli Inglesi e gli Americani firmarono alle spalle dei Francesi, il 30 novembre 1782, merita d'essere registrato anche per un'altra ragione: perché segna l'ingresso ufficiale nella vita internazionale d'una diplomazia di stile nuovo. Lo stile si manifestò anzitutto nella scelta degli abiti con cui i nuovi diplomatici vollero comunicare al mondo la sobrietà, il rigore, l'altero disprezzo della loro patria per le frivole convenzioni della società europea. L'apparizione nei salotti parigini, durante gli anni settanta del XVIII secolo, di Benjamin Franklin, severamente vestito d'una redingote confezionata con un rozzo tessuto marrone, dovette avere sull'opinione francese del tempo un impatto analogo a quello dell'apparizione a Ginevra, nell'aprile del 1954, di Chou En-lai, primo ministro della Repubblica Popolare di Cina, vestito con una giacca di foggia militare. In ambedue i casi l'abito era nuovo, ma la sua funzione restava tradizionale e lasciava intravedere un uso accorto, volutamente spregiudicato e provocatorio, della simbologia diplomatica. A confronto i rivoluzionari che presero il potere in Russia dopo la Rivoluzione d'ottobre, e adottarono rapidamente, per i loro contatti con l'estero, le convenzioni vestimentarie della diplomazia 'borghese', dettero prova di minore immaginazione e spregiudicatezza. Conviene aggiungere che il nuovo stile della diplomazia americana non si limitò agli aspetti esteriori. Quando decise di non ripresentare la sua candidatura per la terza volta alla presidenza degli Stati Uniti, Washington pronunciò un discorso d'addio con cui esortò i suoi connazionali a "non stringere alleanze permanenti con nazioni straniere". Con quelle parole il fondatore della repubblica esprimeva diffidenza per la diplomazia delle potenze europee e proclamava la diversità, anche in questo campo, della nazione americana. Su questa diversità degli Stati Uniti e sul modo in cui essa si manifestò nel concepire l'attività diplomatica torneremo parlando del contributo americano alla prima guerra mondiale.Il maggior convegno diplomatico europeo dopo la pace di Vestfalia fu quello di Utrecht con cui si mise fine, nel 1713, alla guerra di successione spagnola. Anche in questo caso le trattative diplomatiche cominciarono mentre ancora durava la guerra e dettero luogo a un generale 'rimpasto' della carta politica europea. L'Austria divenne la potenza egemone della penisola italiana, l'Inghilterra ebbe Gibilterra e il controllo dei mari, il Piemonte e la Prussia cominciarono a emergere dai ranghi delle piccole potenze, la Francia rinunciò alla corona di Spagna e a una parte dei suoi possedimenti americani. Come a Vestfalia, la diplomazia dovette risolvere intricate questioni formali e sostanziali. Occorrerà attendere cento anni per un'occasione analoga, su scala maggiore. A Vienna, nel novembre del 1814, dopo la pace di Parigi del 30 maggio, convennero i rappresentanti di tutti gli Stati europei. Interrotti durante la ripresa delle operazioni militari, dopo il ritorno di Napoleone dall'Elba, i negoziati si conclusero con numerosi trattati e un atto finale, sottoscritto il 9 giugno 1815. Benché tutta l'Europa fosse presente a Vienna in quei mesi, furono i quattro vincitori - Austria, Russia, Prussia e Inghilterra - che negoziarono con la Francia e definirono i nuovi equilibri politici e territoriali del continente europeo. Ma fu il rappresentante della potenza sconfitta, Talleyrand, che suggerì alla diplomazia delle grandi potenze un principio - la legittimità - a cui ispirare la ricostruzione politica dell'Europa sconvolta. Il principio non impedì che alcuni vecchi sovrani perdessero il trono e alcune province passassero di mano in omaggio ad altre esigenze, ma esso rappresentò pur sempre, insieme al diritto dei vincitori, una sorta di stella polare su cui la diplomazia europea poté orientare la sua navigazione sino al 1848.
Il Congresso di Vienna ebbe un'altra, importante conseguenza diplomatica. Ancor più di quelli di Vestfalia e di Utrecht, sancì il principio che la pace d'Europa dipendeva dal suo equilibrio e che ogni mutamento chiamava in causa la responsabilità collettiva dei suoi membri o per meglio dire di quelli a cui la potenza attribuiva maggiori diritti e responsabilità. Gli Stati si accorsero ben presto che l'equilibrio non poteva essere preservato con l'immobilità, ma con pazienti, continui aggiustamenti di rotta diretti a ricostruire, ogni volta su basi diverse, l'equilibrio perduto. La diplomazia divenne così, per certi aspetti, una professione metanazionale. Per una parte il diplomatico era l'avvocato del proprio paese, pronto a tramare e a complottare, se necessario, per la sua sicurezza e le sue ambizioni; per l'altra era il custode delle norme di un ordine superiore, di una 'legge' che non era propria di un solo Stato, ma di tutti i membri della famiglia europea nel suo complesso. L'invocazione dell'equilibrio europeo si prestò in molte circostanze a una più ipocrita politica nazionale, e Bismarck poté dichiarare un giorno sarcasticamente, non senza ragione: "Ho sempre udito la parola Europa sulla bocca di coloro che volevano qualcosa da un altro e non osavano chiedere in nome dei propri interessi". Ma l'asserita virtù dell'equilibrio faceva dei diplomatici, quale che fosse l'ordine nazionale a cui essi appartenevano, gli adepti d'una stessa 'religione', i membri di uno stesso club. Non sorprende quindi che nel corso dell'Ottocento essi sviluppino e rafforzino comuni caratteristiche. Parlano una stessa lingua - il francese, che il secolo dei Lumi ha trasmesso all'Europa del concerto delle nazioni come veicolo di comunicazione internazionale -, usano gli stessi strumenti di lavoro - trattati, convenzioni, protocolli, note verbali, promemoria, memorandum -, frequentano gli stessi luoghi, adottano le medesime convenzioni sociali e rivestono le loro peculiarità nazionali con gli abiti di uno stesso cosmopolitismo. Vedremo fra poco quali fossero i loro compiti e come il secolo XIX abbia fortemente contribuito a definire i contorni della loro professione. Qui conviene accennare brevemente ai congressi, vale a dire alle circostanze in cui la diplomazia spiegò il massimo delle sue energie, perfezionò le sue tecniche, sviluppò quel sentimento di identità corporativa che accomuna i suoi membri, a qualsiasi paese essi appartengano.Il primo congresso, dopo quello di Vienna, si tenne ad Aquisgrana (Aix-la-Chapelle) nel settembre del 1818: decise il ritiro delle truppe alleate dal territorio francese, chiuse le pendenze relative all'indennità di guerra che era stata imposta al governo francese, ammise la Francia all'alleanza dei vincitori. Il secondo si tenne a Troppau (oggi Opava in Moravia), dal 23 ottobre al 17 dicembre 1820, e a Laibach (oggi Lubiana in Slovenia) dall'11 gennaio al 25 febbraio 1821: prese in considerazione i moti rivoluzionari in Spagna e Italia, avallò, con riserve inglesi, la politica di Metternich per la restaurazione dell'ordine nel Regno di Napoli. Il terzo si tenne a Verona nell'ottobre del 1822: creò le condizioni, nonostante l'opposizione inglese, per l'intervento francese in Spagna nell'aprile dell'anno seguente. Con quello di Verona la serie dei congressi che discendono direttamente da Vienna e appartengono al clima politico della Santa Alleanza può considerarsi conclusa. Sopravvive tuttavia la concezione dell'equilibrio come responsabilità collettiva delle maggiori potenze ed esse continuano quindi a incontrarsi collegialmente per riparare i danni causati da una guerra, da un'insurrezione o da un moto nazionale.
A Londra, nel 1829, gli ambasciatori di Russia, Gran Bretagna e Francia si riuniscono ripetutamente in conferenza per esaminare gli sviluppi della situazione greca e dare un principe al nuovo Stato. A Parigi, nel febbraio e nel marzo del 1856, si riuniscono i rappresentanti delle potenze che hanno partecipato alla guerra di Crimea, ma affrontano al tempo stesso altri problemi: l'autonomia dei principati danubiani, la questione italiana, la navigazione sul Danubio, la pirateria, il commercio di navi neutrali in tempo di guerra, le modalità del blocco marittimo. A Berlino, nell'estate del 1878, le potenze riprendono in esame i risultati della guerra russo-turca, ma colgono l'occasione per rimaneggiare da capo a fondo la carta politica della penisola balcanica e per concedere alcune compensazioni alle potenze, Francia e Austria, maggiormente danneggiate dall'unità italiana e tedesca. A Berlino, fra il novembre 1884 e il febbraio 1885, quattordici Stati, fra cui gli Stati Uniti, fissano le regole della loro espansione coloniale, decidono di adoperarsi per la soppressione della schiavitù, proclamano la libertà di navigazione sul Congo e sul Niger. All'Aia, fra il maggio e il luglio del 1899, si tiene, per iniziativa dello zar Nicola II, una conferenza della pace nel corso della quale le potenze si accordano genericamente sulla composizione pacifica delle vertenze internazionali, sulla proibizione di alcune armi, sul trattamento dei prigionieri di guerra. Ad Algeciras, in Spagna, fra il gennaio e l'aprile 1906, si tiene una conferenza sullo status internazionale dell'Impero marocchino. All'Aia, fra il giugno e l'ottobre del 1907, si tiene, per iniziativa di Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, una seconda conferenza della pace: vi si discutono i problemi dell'arbitrato, dei debiti internazionali, dei diritti e doveri degli Stati neutrali. A Londra, nel dicembre del 1912, si riunisce una conferenza degli ambasciatori delle maggiori potenze per discutere alcuni problemi territoriali - confini dell'Albania, isole dell'Egeo - sorti in relazione alla prima guerra balcanica.
L'espansione della potenza europea nel mondo diffonde la prassi e le convenzioni della diplomazia occidentale anche in paesi lontani, dove l'attività diplomatica era ancora occasionale e diretta al raggiungimento di particolari risultati. La crescente importanza della diplomazia, d'altro canto, costringe le potenze ad ampliare e a meglio organizzare i loro servizi in patria e all'estero. Nei paesi in cui la politica estera resta per molti aspetti una gelosa prerogativa del sovrano e in cui la scelta degli ambasciatori dipende dal suo beneplacito, la diplomazia è tuttora in buona parte riservata a ceti nobiliari che concorrono spesso con la fortuna personale alle spese della loro missione. In regimi 'borghesi' o in cui la pubblica opinione assume durante il secolo un'importanza crescente, la diplomazia si apre gradualmente ai rappresentanti di altri ceti sociali. Ovunque occorre fissare modalità di reclutamento, gradi, diritti e doveri dell'impiegato nel corso della sua carriera. Alcuni paesi dividono la professione in due grandi categorie: i funzionari che rimangono in patria e prestano il loro servizio presso il Ministero degli Affari Esteri; i funzionari che prestano servizio presso consolati, legazioni e ambasciate all'estero. In molti casi la carriera si scinde inoltre in 'diplomatica' e 'consolare'. In Italia un tentativo di regolare la materia, dopo i primi concorsi indetti prima della Restaurazione dai regimi d'obbedienza napoleonica, fu fatto dal Regno di Sardegna con il 'Regolamento per l'ammissione degli aspiranti alla carriera della R. Segreteria di Stato per gli Affari Esteri', riformato nel 1856. Ovunque nel corso del secolo assistiamo a una progressiva burocratizzazione della funzione diplomatica. Anche là dove il sovrano o il governo si riservano il diritto di scegliere gli ambasciatori fra coloro che godono della loro personale fiducia, il diplomatico diventa un impiegato dello Stato, dotato di particolari competenze professionali. Si precisano meglio in tal modo le sue funzioni. Un diplomatico inglese, Adam Watson, che ha dedicato una parte della sua vita agli studi ed è autore di un pregevole trattato sulla diplomazia, ne ha identificate quattro. Vediamo rapidamente di che cosa si tratta.Il primo compito, secondo Watson, consiste nel fornire al proprio governo ogni possibile informazione sulle condizioni morali e materiali, sulle vicende politiche e sulle intenzioni del paese presso cui il diplomatico è accreditato. È una delle funzioni più antiche della diplomazia veneziana ed è quella che in molti casi maggiormente indispettisce e insospettisce il paese ospitante. Se la funzione è rimasta col passare del tempo sostanzialmente la stessa, i metodi di lavoro sono notevolmente cambiati. Negli Stati dell'ancien régime e per certi aspetti anche in quelli della Restaurazione, dove le responsabilità della politica estera risalgono direttamente al sovrano o a coloro che godono della sua personale fiducia, l'ambasciatore straniero deve conquistare la fiducia di pochi interlocutori e da essi cercar di apprendere orientamenti, intenzioni, ambizioni segrete. Nelle democrazie, dove la politica estera è oggetto di frequenti dibattiti parlamentari e di continue discussioni in seno alla pubblica opinione, il suo lavoro è al tempo stesso più facile e più difficile. Più facile perché egli può attingere a una larga messe di informazioni, analisi, indiscrezioni, ipotesi. Più difficile perché egli deve, ancor più di quanto non accadesse negli Stati d'ancien régime, distinguere le notizie attendibili da quelle che vengono diffuse ad arte per meglio disorientare la pubblica opinione e gli osservatori stranieri, pesare attentamente le forze di tutti coloro che concorrono a definire la posizione internazionale del paese presso cui è accreditato. Egli non può svolgere il suo compito se non conosce il regime politico, la composizione culturale, le strutture amministrative, la vita sociale e le condizioni economiche dello Stato che è oggetto della sua osservazione. Ogni valutazione diplomatica è quindi la punta emergente di una conoscenza più profonda e diffusa che non ha apparentemente alcun rapporto con la politica internazionale. Particolarmente difficile è stato il lavoro diplomatico dopo la prima guerra mondiale nei paesi caratterizzati da regimi totalitari, come l'Unione Sovietica, dove nulla di ciò che attiene alla politica estera veniva discusso, ufficialmente o confidenzialmente, soprattutto con stranieri. In questi casi il lavoro di una missione diplomatica consiste in gran parte nella lettura comparata di testi ufficiali e nella paziente ricomposizione del quadro con la raccolta di numerosi frammenti politici, economici, sociali, culturali.
La seconda funzione compete principalmente al Ministero degli Esteri e consiste nel vaglio del materiale informativo che esso riceve soprattutto dalle proprie rappresentanze diplomatiche e consolari, o desume dalla lettura della stampa internazionale. Mentre l'ambasciatore o il console cercano d'interpretare le intenzioni e gli orientamenti di un singolo paese, il Ministero può confrontare le informazioni, promuoverne la verifica, collocarle in una più larga prospettiva e fornire al governo in tal modo una più sicura base d'appoggio per le sue decisioni.
La terza funzione consiste nel suggerire al governo il da farsi in una particolare circostanza internazionale. Essa è di gran lunga la più delicata e quella che maggiormente mette in rilievo l'ambivalenza della professione diplomatica. L'ambasciatore è un tecnico delle relazioni internazionali e può quindi apprezzare le conseguenze internazionali di una qualsivoglia iniziativa. Meglio di altri egli è in grado di dire al suo governo che cosa accadrebbe sul più vasto scacchiere internazionale se esso riconoscesse lo Stato A, accedesse a una richiesta dello Stato B, concludesse un particolare accordo con lo Stato C. Ma nell'apparente tecnicità e neutralità delle diverse opzioni s'inseriscono sempre giudizi e preferenze personali, valutazioni etico-politiche, percezioni dell'interesse nazionale. Pensare che l'ambasciatore sia semplicemente un ingegnere della diplomazia, fornitore di progetti a cui egli è moralmente indifferente, e che egli possa mettersi all'opera con lo stesso zelo, quale che sia il progetto prescelto fra quelli di cui ha prospettato l'adozione, non è realistico. Il disagio e le tensioni che derivano da tale ambivalenza sono per molti aspetti il risultato di quella burocratizzazione della carriera diplomatica a cui abbiamo fatto cenno più sopra. Quando apparteneva alla cerchia dirigente del suo paese ed esercitava le sue funzioni sulla base di un rapporto di fiducia con le autorità che lo avevano nominato, egli era necessariamente in sintonia con la politica estera del suo governo o tenuto a dimettersi se mai questa sintonia avesse cessato di esistere. Divenuto funzionario dello Stato egli è fra i suoi colleghi delle altre amministrazioni quello che talora avverte maggiormente il disagio della sua posizione. Alcuni governi sfuggono a questa possibile contraddizione adottando, in un contesto democratico, il criterio a cui si ispiravano i regimi autoritari e scelgono i loro maggiori ambasciatori al di fuori della burocrazia, fra coloro che condividono gli orientamenti del governo o gli interessi della parte politica che esso rappresenta. È il caso degli Stati Uniti. Altri governi, soprattutto europei, scelgono i loro ambasciatori nell'ambito della burocrazia, ma fra coloro che hanno rapporti di simpatia, consonanza, dimestichezza con i partiti al governo.
La quarta funzione di un ambasciatore consiste da un lato nel comunicare, illustrare e motivare ai governi stranieri i giudizi, le valutazioni e le posizioni negoziali del proprio, dall'altro nel ricevere analoghe illustrazioni e valutazioni dal governo presso cui è accreditato. Nello svolgimento di questa missione l'ambasciatore è spesso chiamato a negoziare, vale a dire a impegnarsi in una discussione da cui dovrebbe emergere in ultima analisi una posizione comune: un comunicato congiunto, un'azione coordinata, un passo da compiersi insieme, un accordo, un trattato. È questo probabilmente l'aspetto dell'attività diplomatica che ha subito nel corso di questo secolo la maggiore evoluzione. La lentezza delle comunicazioni e la particolare autorità di cui un ambasciatore godeva, per l'appartenenza alla classe dirigente del suo paese, gli conferivano nelle varie fasi del negoziato una certa autonomia di giudizio e un certo margine di libertà. Oggi la rapidità delle comunicazioni e la burocratizzazione della carriera diplomatica hanno considerevolmente ridotto questo margine. Accade spesso quindi che i negoziati diplomatici di maggiore importanza vengano condotti direttamente dal ministro degli Esteri e che egli tenga a tal fine contatti diretti con i suoi interlocutori, talvolta all'insaputa della sua ambasciata o senza chiederne l'avviso.
Una svolta importante nella storia della diplomazia fu rappresentata dalla crescente partecipazione degli Stati Uniti alle vicende politiche internazionali nell'ultima parte della prima guerra mondiale. Qualche mese dopo l'ingresso dell'America nel conflitto, il presidente, Woodrow Wilson, indirizzò al Congresso un programma nel quale egli elencava le condizioni necessarie per una pace giusta e durevole. Fra queste condizioni la prima - "open covenants openly arrived at": accordi pubblici, pubblicamente negoziati - concerneva direttamente l'esercizio dell'attività diplomatica. Con quella implicita condanna della diplomazia segreta, Wilson formulava in termini diversi lo stesso giudizio negativo che Washington aveva espresso sulla diplomazia europea nel discorso con cui aveva preso congedo dalla nazione. Ma rappresentava al tempo stesso un sentimento fortemente diffuso nell'Europa d'allora. A Pietrogrado i bolscevichi, verso la fine del 1917, presero a pubblicare nelle "Izvestja" gli accordi segreti di cui avevano trovato copia negli archivi imperiali al momento della conquista del potere, e più tardi insistettero affinché i negoziati con la Germania e i suoi alleati, a Brest Litovsk, si svolgessero pubblicamente sotto gli occhi della stampa. In Germania, dopo la fine della guerra, il governo tedesco promosse la pubblicazione dei documenti relativi al periodo fra il 1871 e il 1914 (Die grosse Politik der europäischen Kabinette) e il suo esempio fu seguito negli anni successivi da molti paesi. In Italia Giolitti non aveva mai nascosto la sua disapprovazione per la segretezza con cui il governo Salandra e la corte avevano condotto le trattative di Londra prima dell'intervento. Quando annunciò il suo ritorno alla lotta politica con il discorso di Dronero del 12 ottobre 1919, propose di modificare la Costituzione affinché il Parlamento avesse in materia di politica estera gli stessi poteri di cui disponeva in materia di politica finanziaria. Queste pubblicazioni, riforme costituzionali e prese di posizione erano l'inevitabile conseguenza di una guerra che aveva sconvolto l'Europa, ucciso milioni di combattenti, assoggettato le popolazioni civili a sofferenze che ricordavano la guerra dei Trent'anni. Comprensibile e giustificabile quando le guerre erano brevi o condotte prevalentemente da eserciti di professione, la diplomazia segreta diventava inammissibile quando i suoi effetti precipitavano intere nazioni, come era testé accaduto, nell'abisso d'un conflitto mondiale, combattuto per cinque anni senza esclusione di colpi.
Quella diffusa richiesta di pubblicità, d'informazione e di consenso ebbe una grande influenza sulla prassi diplomatica degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Mentre molti governi, prima del 1914, potevano impunemente sottrarsi, invocando il superiore interesse dello Stato, a qualsiasi interrogazione parlamentare sulla loro politica internazionale, dopo il 1918 quasi tutti dovettero rendere conto pubblicamente della loro azione. Ben presto, tuttavia, fu chiaro che la pubblicità prescritta da Wilson come supremo rimedio per i mali del mondo, si sarebbe scontrata con alcuni limiti e avrebbe provocato, se adottata integralmente, alcuni inconvenienti. Per comprendere limiti e inconvenienti converrà fare qualche osservazione sulla natura del segreto diplomatico e sulla sua funzione.
Molti pensano che l'attività diplomatica sia oscura e misteriosa perché ammantata di segreto. Ma, ogni qualvolta viene rimosso il velo del segreto, essi constatano con sorpresa che il fatto nascosto agli occhi del mondo è assai meno 'chiaro' di quanto essi non immaginassero. Certo vi sono circostanze in cui il segreto serve a mascherare le intenzioni di una potenza sino al giorno in cui essa non ritenga giunto il momento di agire: a questo, per l'appunto servì il protocollo segreto che Ribbentrop e Molotov firmarono a Mosca nell'agosto del 1939 per la spartizione della Polonia e del Baltico. Ma nella maggior parte dei casi, soprattutto nel corso di un negoziato, la funzione del segreto non è quella di nascondere vicende e documenti chiari, ma di coprire vicende e documenti oscuri. E l'oscurità del documento dipende a sua volta dal carattere conflittuale e policentrico delle relazioni internazionali. Ogni Stato deve tener conto dei rapporti di relazione in cui è inserito e seguire attentamente l'incessante evoluzione del sistema. Costretto a modificare continuamente la sua rotta in funzione dei mutamenti altrui, esso non può limitarsi ad avere una sola politica. Deve avere politiche alternative che gli consentano di garantire comunque, in circostanze mutevoli, il massimo d'indipendenza e di sicurezza. La diplomazia è raramente fortunata quando persegue un solo obiettivo. È abile e fortunata quando all'obiettivo iniziale può sostituire un secondo o terzo obiettivo, quando ogni sua iniziativa si presta potenzialmente a raggiungere finalità diverse. Di qui la necessaria ambiguità del linguaggio diplomatico che non può e non deve prestarsi a interpretazioni univoche. Di qui la necessità di sottrarre l'attività diplomatica, soprattutto nelle fasi negoziali, allo sguardo indiscreto e inquisitivo della pubblica opinione. Un governo che deve chiarire la propria posizione è necessariamente un governo dimezzato, costretto a ridurre drasticamente il ventaglio delle proprie opzioni e i suoi margini di libertà sulla scena internazionale. Dopo lo scompiglio iniziale provocato dalle rivoluzionarie proposte di Wilson e dalle provocatorie iniziative di Lenin, tutte le diplomazie, comprese quelle degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, si resero rapidamente conto di questa realtà.
L'appello alla pubblicità della diplomazia, così vigorosamente lanciato da Wilson e da Lenin alla fine della prima guerra mondiale, produsse tuttavia effetti durevoli. Come si è detto, nessun governo, da allora, poté interamente sfuggire all'obbligo di render conto periodicamente, in parlamento o di fronte alla pubblica opinione, delle proprie iniziative diplomatiche e del loro sviluppo. I risultati non furono sempre e necessariamente quelli che i fautori della pubblicità avevano auspicato, giacché i governi appresero rapidamente a servirsi della pubblicità come di un'arma in più per meglio dissimulare le loro intenzioni, saggiare gli orientamenti dell'opinione pubblica, disorientare l'avversario, costringerlo a reagire e a palesare le sue intenzioni. Non v'è governo che non abbia fatto uso di indiscrezioni strumentali, e non v'è negoziato diplomatico che non sia accompagnato da un continuo flusso di voci, regolato ad arte dai protagonisti, una sorta di duello recitato alla luce del sole per meglio vincere quello vero, combattuto nell'ombra. Di questo scaltro uso della pubblicità i giornali si fanno spesso involontario strumento e megafono.
Abbiamo detto che il mondo delle relazioni internazionali è policentrico e conflittuale. Ma dal Projet de paix perpetuelle entre les souverains chrétiens di Charles-Irenée Castel, abate di Saint-Pierre (1717) al Zum ewigen Frieden di Immanuel Kant (1796), dal progetto wilsoniano per una Società delle Nazioni al patto contro il ricorso alla guerra stipulato nel 1928 a Parigi dal ministro degli Esteri francese, Aristide Briand, e dal segretario di Stato americano, Frank B. Kellogg, gli studiosi e gli uomini politici non hanno mai rinunciato alla speranza di una radicale riforma della società internazionale. A un mondo lacerato da conflitti di potere si vorrebbe sostituire, sia pure gradualmente, un mondo in cui gli Stati rinunciano all'uso della forza e accettano di delegare a un superiore potere arbitrale la soluzione pacifica delle loro controversie. Non è questa la sede per rendere conto di tali tentativi e dei loro progressi, ma è questa bensì l'occasione per accennare all'influenza che essi hanno avuto sull'esercizio dell'attività diplomatica. Dopo il fallimento della Società delle Nazioni i vincitori della seconda guerra mondiale si accordarono sulla necessità di fondare una Organizzazione delle Nazioni Unite in cui le maggiori potenze avrebbero svolto una funzione direttiva per il mantenimento dell'ordine e della pace. Se i cinque 'Grandi' - Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia, Cina - si fossero accordati sul modo in cui governare il mondo avremmo probabilmente assistito al lento emergere di una nuova società internazionale, al tempo stesso unitaria e gerarchica, in cui le potenze minori avrebbero perduto gran parte della loro sovranità e quindi le necessarie premesse di una diplomazia nazionale. Di fatto lo scoppio della guerra fredda ha impedito la realizzazione di questo disegno e ha svuotato le Nazioni Unite del loro significato originale. Esiste tuttavia, dall'epoca della Società delle Nazioni e ancor più dalla fine della seconda guerra mondiale, una pluralità di organizzazioni, talora mondiali, talora regionali, in cui gli Stati cercano di affrontare congiuntamente i problemi della loro convivenza o si adoperano per raggiungere collegialmente obiettivi comuni. Benché diverse per materia - cultura, commercio internazionale, sanità, cooperazione finanziaria, assistenza al Terzo Mondo, sfruttamento delle risorse marittime, navigazione aerea, brevetti industriali, regime delle zone polari, esplorazione spaziale - queste organizzazioni presentano una caratteristica comune: creano consuetudini o norme convenzionali a cui gli Stati accettano di subordinare l'indiscriminato esercizio della sovranità nazionale e restringono, in prospettiva, il terreno d'azione della diplomazia nazionale. E poiché tale risultato può essere raggiunto, in mancanza di un'autorità supernazionale, soltanto con il necessario consenso delle parti interessate, ha preso corpo una diplomazia multilaterale di carattere permanente. Ciò non significa che la diplomazia bilaterale abbia perduto tutta la sua importanza originale. Anzi, non v'è negoziato multilaterale che non sia preceduto e accompagnato da contatti bilaterali nel corso dei quali gli Stati maggiormente interessati o più influenti si accordano per meglio imporre il loro punto di vista. E non v'è trattativa multilaterale che possa prescindere da quella reciproca conoscenza a cui la diplomazia bilaterale dedica, come abbiamo visto, una larga parte della sua attività. Ma il negoziato permanente a più voci in cui ogni Stato deve confrontare la propria posizione con quella di altri e ricercare, per quanto possibile, un denominatore comune ha ormai creato nuove prassi e nuove tecniche diplomatiche. Vi è oggi, accanto alla più tradizionale diplomazia bilaterale, una diplomazia multilaterale che richiede spesso una specifica esperienza.
Anche la diplomazia bilaterale ha subito nello stesso periodo notevoli trasformazioni. Mentre i rapporti fra gli Stati erano, prima del 1914, prevalentemente politico-militari e commerciali, da allora l'arco delle loro relazioni si è andato continuamente allargando, sino a includere questioni attinenti all'emigrazione, alla cultura, alla criminalità internazionale, all'assistenza ai paesi in via di sviluppo, e soprattutto una gamma sempre più vasta di problemi economico-finanziari. All'origine di questo ampliamento dell'attività diplomatica vi sono le grandi trasformazioni degli Stati moderni soprattutto dopo il 1848, le conseguenze economiche e sociali della rivoluzione industriale, i due grandi conflitti mondiali. A questi mutamenti qualitativi nei rapporti fra gli Stati, la diplomazia ha dovuto adeguarsi rinnovando le proprie strutture e le proprie competenze. I Ministeri degli Esteri hanno creato direzioni e servizi per gli affari sociali, culturali, economici e per la cooperazione con i paesi in via di sviluppo. Alla figura del diplomatico dotato di competenze generali si sono andati gradualmente sostituendo diplomatici con funzioni particolari: addetto economico e commerciale, finanziario, culturale, per l'emigrazione, per la cooperazione allo sviluppo. È inutile aggiungere che sia i Ministeri degli Esteri sia le rappresentanze diplomatiche e consolari all'estero hanno considerevolmente ampliato i loro organici. È stato quindi necessario rivedere alcune delle norme e consuetudini che avevano regolato in precedenza i rapporti diplomatici fra gli Stati. A Vienna, dove nel 1815 era stato stipulato un primo accordo sulla materia, sono state concluse nel 1961 e nel 1963 due convenzioni, di cui la prima concerne le relazioni diplomatiche, la seconda le relazioni consolari.
Abbiamo detto che lo scoppio della guerra fredda ha impedito all'Organizzazione delle Nazioni Unite di svilupparsi secondo il disegno originale dei suoi fondatori. Al tempo stesso le tensioni della guerra fredda e le particolari condizioni dell'Europa dopo la fine del conflitto hanno dato luogo alla nascita di organizzazioni che non si propongono di modificare l'intera società internazionale, ma di rafforzare la difesa, migliorare la collaborazione o addirittura promuovere l'integrazione di Stati che hanno affinità politiche e interessi comuni. Fra quelle che hanno avuto maggiore influenza sulla diplomazia occorre menzionare brevemente la Comunità Economica Europea, sorta a seguito della firma dei Trattati di Roma, il 25 marzo 1957. Poiché essa si propone, per l'appunto, l'integrazione dei paesi membri, la sua esistenza ha dato luogo a una complessa diplomazia multilaterale in cui i rappresentanti dei Ministeri degli Esteri dei singoli Stati sono affiancati dai rappresentanti dei ministeri nazionali - Tesoro, Finanze, Industria, Agricoltura, Sanità, Lavoro ecc. - le cui materie di competenza vengono gradualmente assoggettate a una normativa comune. Questo processo ha avuto due conseguenze. In primo luogo ha enormemente ampliato, in questa fase, la dimensione del lavoro diplomatico e il numero degli attori in esso coinvolti. In secondo luogo ha ristretto la sovranità degli Stati membri e ridotto il numero delle questioni che possono formare oggetto di trattativa diplomatica bilaterale. In altre parole ha prodotto un 'sovraccarico' di diplomazia il cui risultato finale potrebbe essere la soppressione di qualsiasi attività diplomatica fra i paesi membri. È accaduto infatti che l'estensione del processo unitario e in particolar modo l'inizio, negli anni settanta, di una sistematica consultazione politica fra gli Stati della Comunità (Cooperazione Politica Europea) erodesse gradualmente le competenze delle ambasciate 'bilaterali'.
Anche queste ultime osservazioni ci sembrano confermare quanto dicevamo all'inizio. La diplomazia è lo strumento di cui gli Stati si servono per i loro rapporti, ma non può essere isolata dal contesto storico e politico in cui essa svolge le sue funzioni. Lo strumento si è continuamente adattato agli scopi che esso doveva raggiungere e in alcuni casi, in particolare quello della Comunità Economica Europea, ha messo ogni sua risorsa al servizio di un fine che comporterebbe, una volta raggiunto, la sua scomparsa. (V. anche Guerra; Organizzazioni internazionali; Pace; Relazioni internazionali; Trattati internazionali).
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