Etiopia (Atiopia)
Regione dell'Africa orientale che può identificarsi con il vasto altopiano estendentesi all'incirca tra 4° e 18° di latitudine nord, ristretto a N, slargantesi verso S. Nell'antichità il toponimo E. indicava il paese a sud dell'Egitto e, in senso lato, tutta l'Africa a sud del Sahara; anche nel Medioevo il toponimo ebbe un significato più estensivo dell'attuale (" Ethiopia " ed " Ethiopia inferior " del planisfero del Vesconte; cfr. Revelli, Italia 51).
Atiopia è adattamento volgarizzante toscano di E., che ricorre in Fiore CLXXXII 12, portato anche dal codice Laurenziano 40 22, peraltro umbro-marchigiano, in If XXIV 89 (latyopia; cfr. l'ediz. Petrocchi): l'espressione Que' che la vuol la cheggia 'n Atiopia è genericamente interpretata dai commentatori come " in capo al mondo " (Petronio) e simili.
Non pare però da escludere, anche per la qualità puntuale delle citazioni geografiche del Fiore, un riferimento ironico ai costumi sessuali degli Etiopi, quali circolavano nelle compilazioni scientifiche del tempo e in particolare nel Tresor, testo, com'è noto, che ispira largamente la geografia dantesca: " E sachiés que les gens d'Etyope e de Garremans ne sevent que mariages soit, ains ont entr'aus femes communes a tous ", ecc. (Tresor CXXIV 5, sulla base di Solino 30, 2). In particolare l'antitesi " femes communes a tous " / nessuna femina che sia sua propia pare troppo puntuale per essere casuale. Tale interpretazione suppone un valore incidentale e prevalentemente concessivo del v. 11 per don ched e' facesse di su' avere (difatti assente dal Roman de la Rose). Meno probabile un'allusione diretta alle pratiche dell'amore mercenario connesse con la barbarie sessuale degli Etiopi. La rima Etiopia (cod. Laurenziano 40 22 Atiopia) - elitropia è anche in If XXIV 89 e 93.
L'E. nella cultura dantesca. - L'assedio e la caduta di Acri segnarono nel 1291 la fine dell'Oriente Latino delle crociate. Sorsero allora i progetti di riconquista e s'intensificò la raccolta di notizie sui regni cristiani a sud dell'Egitto, che apparvero naturali alleati contro i Musulmani. Già le notizie raccolte da Marco Polo nel 1288, i progetti presentati al papa Clemente V dall'armeno Hayton nel 1304, da Marin Sanudo il Vecchio nel 1309, da Guglielmo Adamo, vescovo di Antivari nel 1317 davano informazioni ora sulla Nubia, allora cristiana, e ora sull'E. il cui sovrano veniva identificato col leggendario Prete Gianni. D., che pur altamente espresse la sua ira per quel che a lui pareva scarso interesse per la riconquista della Terra Santa (Pd IX 136-142), fu estraneo a questo movimento e a questi progetti concreti, com'è ovvio, date le circostanze della sua vita. La conoscenza che D. ha dell'E. è quindi limitata alle fonti classiche. Sembra così che egli ignori addirittura la presenza di un regno cristiano a sud dell'Egitto, se come tipico tal che non conosce Cristo - e sarà, tuttavia, più vicino al Signore che i falsi cristiani - egli cita l'Etiope il quale, pur non cristiano, tai Cristian dannerà (Pd XIX 106-111). L'E. è dunque, per D., parte della zona torrida insieme con l'India; e Indo ed Etiopo hanno sete di acqua fredda, appena meno che i lussuriosi condannati alle fiamme del Purgatorio (Pg XXVI 21). La citazione qui dell'E. insieme con l'India è caratteristica delle conoscenze geografiche delle scuole medievali, quando si riteneva appunto l'E. unita territorialmente con l'India, continuando la confusione antica tra E. e India, che del resto datava, nella letteratura, almeno da Virgilio, il quale aveva detto del Nilo: " usque coloratis amnis devexus ab Indis " (Georg. IV 293). E il Nilo ancora nel suo lontano corso superiore è tenuto dagli Etiopi, dei quali già Plinio diceva " vicini sideris vapore torreri adustisque similes gigni " (Nat. hist. II LXXX 1) e che D. cita appunto come esempio di colore nero nelle ali variopinte di Lucifero, una delle quali aveva proprio la tinta di coloro quali / vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla (If XXXIV 44-45).
Alle nozioni della geografia classica si riferisce anche la seconda strofa della canzone ‛ petrosa ' (Rime c) Io son venuto al punto de la rota. Qui levasi de la rena d'Etiopia / lo vento peregrin che l'aere turba (vv. 14-15) a causa dell'eccessivo calore del sole; ma quel vento, passando di là il Mediterraneo, adduce nebbia e poi si solve addirittura in neve ed in noiosa pioggia (v. 21). È l'ipotesi di Plinio (Nat. hist. II XLVII-XLVIII) che ritiene come i venti del nord disperdono le nubi, mentre al contrario " humidi [venti] Africus et praecipue Auster Italiae ". Il vento australe è " aestuosus "; ma in Africa " noxius et magis siccus, fortassis quia humidus frigidior est "; è piovoso poi in Italia, dove è anche pericoloso per la navigazione (" Austro maiores fluctus eduntur quam Aquilone "). Ma forse, qui come altrove, D. ha tratto le sue notizie non direttamente da Plinio, ma per il tramite di Alberto Magno. La tesi è la stessa: " Auster autem dicitur quasi haurister eo quod aquas haurit " (Meteor. III I 23), perché il sole ascendente non riempie dei suoi raggi tutta la terra abitabile che quando sta " in loco circuli Meridiani et tunc operatio eius fortis est; ideo multum contrahit et elevat vaporem "; ma poiché non dura in tale posizione, anzi " declinat statim a cardine coeli sive a Meridiano, ideo non consumit vaporem in illis locis elevatum, sed generantur inde nives et pluviae " (I 24). E così " ventus Meridiei excitat nubes turbidas et aggregat eas quando sparsae sunt in coelo et inspissat partes earum " (I 26); e ancora egualmente il vento Australe " cum flat involvit in se partes nubium inventas et generatas suo calore in aere in omni via per quam transit " sì che le nubi " ingrossantur et efficiuntur turbidae et descendentes per pluvias " (I 26).
E forse anche il passo della canzone Tre donne intorno al cor mi son venute (Rime CIV), dove della tradizionale E. nell'alta valle niliaca D. dice (vv. 47-48): quivi dove il gran lume / toglie a la terra del vinco la fronda va ricondotto ad Alberto Magno e specialmente all'opuscolo De Passionibus aeris (n° 4): " Et tunc nihil spirat in locis illis de terra sed totum aduritur antequam elevatur ". E D., si noti, cita già nel Convivio quattro opere di Alberto Magno.
Infine i versi dell'Inferno (XXIV 88-90) sui serpenti dell'E. sono, senza dubbio, come tutto l'episodio, da ricondurre al libro IX della Farsaglia di Lucano e all'attacco dei serpenti della Libia contro i soldati romani. Specificamente, anzi, si è poi vista una similitudine di struttura tra il dantesco né tante pestilenzie né sì ree / mostrò già mai con tutta l'Etïopia e il lucaneo (IX 805) " Sed maiora parant Libycae spectacula pestes ", anche se Lucano non si riferisca ovviamente all'E. pur affermando (IX 704) che il serpente " Niloque tenus metitur arenas ". Eppure non sembra sia da escludere nella terzina dantesca il ricordo del passo di Plinio (Nat. hist. VIII XIII 3): " Generat eos et Aethiopia Indicis pares, vicenum cubitorum. Narratur in maritimis eorum quaternos quinosque inter se cratium modo implexos erectis capitibus velificantes ad meliora pabula Arabiae vehi fluctibus ". Questa pittoresca leggenda pliniana dei serpenti che traversano il Mar Rosso può - insieme con la maggiore ispirazione dall'episodio di Lucano - essere rimasta, almeno in ipotesi, nella memoria del poeta quando disse i serpenti della bolgia, le pestilenzie (" pestes " di Lucano), non eguagliati né da quelli di E. né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
La poesia di D. non ha avuto alcuna eco nella letteratura etiopica. D'altra parte non sono rare in quella letteratura le visioni - totali o parziali - dell'oltretomba: dall'Apocalisse di Maria, apocrifo (del quale si hanno i testi originali greco e arabo; l'etiopico è traduzione) a brani di Vite di Santi come quella del monaco Os di Kuezara (che vede anche s. Michele giudicare favorevolmente le anime, movendo le ali), della monaca Krestos Samra (alla quale ancora s. Michele mostra in visione il demonio e risolve negativamente il problema della redenzione di Satana) e così via. Ma i soli contatti indiretti tra la letteratura etiopica e la visione dantesca dipendono invece dalla diffusione in E., dalla fine del Trecento durante il regno del Negus Dawit I, della collezione europea dei racconti del Libro dei Miracoli di Maria. Così l'episodio di Buonconte da Montefeltro (Pg V 100-108) va riconnesso con il contrasto tra angeli e demoni alla morte del devoto di Maria, contrasto che trovasi nelle collezioni europee del Libro dei Miracoli e, per conseguenza, anche nella traduzione trecentesca in etiopico. E ancora, se mai si accettasse un'ipotesi del Powicke, si vedrebbe nelle parole biece dell'episodio di Raimondo Berlinghieri (Pd VI 136-142) un'analogia col racconto del cortigiano falsamente calunniato nelle collezioni ora menzionate, racconto che fu tradotto anche nell'etiopico.
Bibl. - E. Cerulli, Etiopi in Palestina. Storia della comunità etiopica di Gerusalemme, Roma 1943-1947; ID, Il Libro etiopico dei Miracoli di Maria e le sue fonti nelle letterature del Medio Evo Latino, ibid 1943; F.M. Powicke, Ways of Medieval Life and Thought, Londra 1949.