Pseudonimo sotto il quale è noto Johann Nikolaus von Hontheim (Treviri 1701 - Montquintin, Lussemburgo, 1790), storico e canonista. In De statu ecclesiae deque legitima potestate Romani pontificis liber singularis ad reuniendos dissidentes in religione constitutus (1763) contestò il primato giurisdizionale del papa, attribuendolo al concilio. La dottrina giurisdizionalista che da lui prende il nome, il febronianesimo, negava al papa il diritto di ingerenza nella condotta delle Chiese nazionali e influenzò la politica religiosa di Giuseppe II d'Austria e del granduca Pietro Leopoldo di Toscana nella seconda metà del Settecento.
Studiò diritto a Lovanio sotto la guida del giansenista Z.-B. van Espen, e poi a Leida dove lesse per la prima volta U. Grozio e S. Pufendorf. Entrato nel clero, fu a Roma dove acquistò conoscenza della prassi curiale; tornato a Treviri, coprì alti uffici ecclesiastici, e nel 1748 era nominato vescovo ausiliare di Treviri. La passione politica per l'autonomia episcopale e la simpatia per la polemica giurisdizionalistica traspaiono già nella monumentale Historia Trevirensis diplomatica et pragmatica (3 voll. in folio, 1750; più un volume sulle fonti, 1757), formidabile documento delle sue capacità critiche e storiche. Questi problemi egli affronterà con risolutezza polemica nella più nota delle sue opere, De statu ecclesiae deque legitima potestate Romani pontificis liber singularis ad reuniendos dissidentes in religione constitutus (1763), sotto lo pseudonimo appunto di I. Febronius. Da J.-B. Bossuet e dal giansenismo gallicano egli riprende l'esigenza dell'unità della Chiesa, fondando il nuovo pactum unionis sulla discriminazione tra diritti essenziali, concessi direttamente da Cristo, e diritti accidentali, acquistati e usurpati dai papi nel corso dei secoli: sui primi soltanto andava basato l'accordo; dei secondi F., sul filo della tradizione gallicana, si adoperava a dimostrare il carattere storico. Punto di partenza erano le cosiddette "libertà" che il clero gallicano rivendicava, vale a dire quei privilegi tradizionali di cui - nell'interpretazione giurisdizionalistica - una volta avrebbero goduto tutte le chiese nazionali, e che i papi in seguito avevano usurpato con la scaltrezza o la violenza. F. voleva quindi riportare tutta la Chiesa all'età e allo stato di libertà originaria, segnando precisi confini all'autorità del papa, primus inter pares di fronte ai vescovi che non da lui ma dalla Chiesa (e perciò da Cristo) ricevevano la consacrazione e i carismi. Là dove però F. si staccava dal gallicanesimo (donde la condanna concorde del suo libro da parte della Facoltà di teologia di Parigi), era nell'appello al concilio e al braccio secolare contro il papa usurpatore, con una chiara intonazione politica e scismatica; egli assumeva così la responsabilità della prassi politico-religiosa che si intitolerà al suo nome. La sua opera infatti rispondeva a tendenze politico-religiose allora assai diffuse in Europa ed ebbe quindi una enorme popolarità, ma anche provocò un'amplissima letteratura polemica: nel 1764 era posta all'Indice. Nel 1778, sotto la pressione di punizioni canoniche, F. si indusse a scrivere un Commentarius in suam retractationem (1781), che peraltro confermava, più che non confutasse, il suo sistema. Delle repliche al De statu ecclesiae le più importanti sono l'Antifebronio (1767) e l'Antifebronius vindicatus (1771-72) del gesuita F. A. Zaccaria.