India
La pluralità espressiva del cinema indiano può essere apprezzata considerando che nel Paese sono ufficialmente riconosciute dalla Costituzione numerose lingue, con la loro letteratura scritta e orale. Ogni anno vengono prodotti film in almeno dodici di queste lingue, con buoni riscontri sia di pubblico sia di critica. L'hindi, lingua originaria della pianura del Gange, nell'I. settentrionale, è compresa e parlata da circa un terzo della popolazione ed è la lingua ufficiale dell'Unione Indiana dal 1950, dell'apparato burocratico statale e della televisione di Stato. La sua diffusione è dovuta anche alla popolarità del cinema commerciale prodotto a Bombay (recentemente rinominata Mumbai). Ma il cinema d'autore si esprime anche in altre lingue: bengalese nel Bengala, malayālam nel Kerala, kannaḍa nel Karnataka, tamil nel Tamil Nadu e telugu nell'Andhra Pradesh. Più del 15% della popolazione ha una conoscenza di base della lingua inglese, parlata e scritta; nonostante ciò la penetrazione del cinema statunitense è piuttosto contenuta (intorno al 10% del mercato) così come quella del cinema europeo, presente in una percentuale del 2%. Esiste pertanto una pluralità di cinematografie che definisce il vasto cinema del subcontinente.
Fin dal 1896 ebbero luogo a Bombay proiezioni del Cinématographe Lumière e dall'anno successivo vennero importati regolarmente film europei. Dopo l'opera per lo più documentaristica di pionieri quali Harischchandra Sakhran Bhatvadekar, F.B. Thanavalla, Jamshedji Framji Madan, Ramchandra Gopal Torney, nel 1913 Dhundiraj Govind Phalke girò il primo film indiano di fiction, Raja Harishchandra (Il re Harishchcandra), inaugurando un genere che ebbe grande successo in tutto il Paese, il filone mitologico ispirato alle epopee nazionali Rāmāyaṇa e Mahābhārata. I circa 1300 film girati all'epoca del muto da cineasti quali Dhirendranath Ganguly, Debaki Kumar Bose, Chandulal Jesangbhai Shah, quasi totalmente perduti, manifestano già pienamente temi e generi che saranno propri di tutto il periodo successivo, fino alla produzione recente: oltre al mitologico, il genere storico e quello di ambientazione moderna, con temi quali la divisione in caste, il contrasto tra città e campagna e l'istituzione familiare.
Ardeshir Marwan Irani girò nel 1931 in lingua hindi il primo film indiano sonoro, Alam ara (La luce del mondo). Anch'esso perduto, conteneva diverse canzoni, secondo uno schema che sarebbe diventato ben presto quasi obbligato e che si rifà alla tradizione lirica del teatro sanscrito e a quella del dramma popolare, basato sull'alternanza di canti e danze in funzione fortemente emotiva. Il cinema indiano divenne così uno spettacolo largamente popolare, anche se il suo consumo, proprio per le caratteristiche dette, si limitava al mercato interno. Non di rado la produzione di film, distinti secondo le diverse zone linguistiche, era coordinata con l'industria discografica, e i manifesti della pubblicità cinematografica segnalavano a grandi caratteri l'autore delle canzoni (il cui numero originario di circa quaranta per film è sceso in tempi recenti a quattro o cinque).
Dal 1931 al 1935 la produzione venne quasi decuplicata (da 27 a 233 film), ma si frammentò nella molteplicità di lingue e dialetti parlati sul territorio nazionale (fu comunque il cinema in lingua hindi a conquistarsi un'egemonia che avrebbe attraversato tutta la storia del cinema indiano, fino agli inizi del 21° secolo). Gli anni Trenta furono dominati da tre grandi case di produzione: la New Theatres Ltd di Calcutta, che produsse le commedie di D. Ganguly, i film religiosi di D.K. Bose (tra cui Seeta, del 1934, primo film indiano presentato alla Mostra del cinema di Venezia) e i film di Pramatesh Chandra Barua (tra cui il popolarissimo Devdas, 1935, storia di un amore impedito dalle differenze di casta); la Prabhat Film Company di Puna, fondata, tra gli altri, dal regista Rajaram Vankudre Shantaram (Kunku ‒ Duniya na mane, 1937, L'inatteso) e da Vishnupant Govind Damle e Sheikh Fattelal, ai quali si deve il primo film indiano premiato in una competizione internazionale (a Venezia): Sant Tukaram (1936, Il santo Tukaram); la Bombay Talkies, fondata dall'attore Himansu Rai, che raccolse intorno a sé alcuni dei migliori giovani talenti (l'attore, poi regista, Raj Kapoor, l'attore Dilip Kumar, lo sceneggiatore, poi regista anch'egli, Khwaja Ahmad Abbas) e produsse film mitologici e drammi sociali. Negli anni Quaranta emersero numerosi produttori indipendenti, mentre decaddero le grandi compagnie che negli anni Trenta avevano prodotto film religiosi, mitologici o a sfondo sociale. Concorrenzialità e instabilità economica delle produzioni, parossismo del fenomeno divistico (il divo era ormai un vero e proprio oggetto di culto), imitazione dei film hollywoodiani e utilizzazione di finanziamenti provenienti da attività criminose, divennero le caratteristiche di una produzione in costante espansione (300 film alla fine degli anni Cinquanta), nella quale tuttavia si persero sempre più i legami con i problemi reali del Paese. Un anno prima dell'indipendenza dalla Gran Bretagna, Abbas realizzò contro corrente Dharti ke lal (1946, I figli della terra), film a carattere sociale che venne mostrato a Londra, Parigi e Mosca. Al medesimo autore si deve nel 1954 il primo film in-diano senza canzoni né danze, Munna (Il bambino per-duto), e numerose sceneggiature di film di R. Kapoor, che innestano temi sociali sui moduli della commedia popolare in voga: Awara (1951, Il vagabondo), Shri 420 (1955, Il Signor 420). Altri autori di rilievo negli anni Cinquanta sono Bimal Roy (Do bigha zameen, 1953, Due ettari di terra, film influenzato dal Neorealismo italiano, e Sujata, 1959, sulla questione degli intoccabili), Guru Dutt (Pyaasa, 1957, L'assetato, e Kagaz ke phool, 1959, Fiori di carta) e soprattutto il bengalese Satyajit Ray, che con Pather panchali (1955, Il lamento sul sentiero) segnò l'inizio di un profondo rinnovamento non solo della cinematografia bengalese in crisi ma dell'intero cinema indiano. Premiato al Festival di Cannes del 1956, Pather panchali aprì così la carriera di uno dei massimi cineasti del dopoguerra (Aparajito, 1956, L'invitto; Parash pathar, 1957, La pietra filosofale; Apu sansar, 1959, Il mondo di Apu; Devi, 1960, La dea), mostrando la possibilità di un cinema indiano d'autore fuori dai rigidi schemi dei generi.
Quella del cinema indiano divenne allora la storia della progressiva affermazione del cosiddetto cinema parallelo accanto al tessuto del cinema commerciale, straordinariamente stabile e indenne dalle crisi vissute dagli altri mercati cinematografici internazionali. Insieme a Ray, un altro grande regista bengalese, Ritwik Kumar Ghatak, esordì negli anni Cinquanta raggiungendo la piena maturità nel decennio successivo con opere polemiche, intense e violente (Ajantrik, 1957, Il vagabondo; Meghe dakha tara, 1960, La stella velata di nubi; Subarna Rekha, 1962, Il fiume Subarna Rekha), in cui il destino d'intellettuale dell'autore s'intreccia indissolubilmente con quello di un popolo intero, diviso tra I. e Pakistan. Alla base del moderno cinema indiano, Ghatak divenne un punto di riferimento, umano e politico oltre che artistico, della nouvelle vague che nacque all'inizio degli anni Settanta. Presso il Film Institute di Puna furono suoi allievi Kumar Shahani (Maya darpan, 1972, Lo specchio dell'illusione; Tarang, 1984, Vibrazioni), Adoor Gopalakrishnan (Swayamvaram, 1972, La propria scelta; Kodiyettam, 1977, L'ascesa; Elippathayam, 1981, Trappola per topi) e soprattutto Mani R. Kaul, autore anticonvenzionale e intransigente, legato agli aspetti più profondi della filosofia indiana, che si segnalò per un cinema severo, spogliato di qualsiasi orpello commerciale, ispirato alla lezione di Ozu Yasujirō e di Robert Bresson, e per questo di non facile diffusione. Tra i suoi film si ricordano Uski roti (1969, Il suo pane), ritratto di una moglie, Duvidha (1973, Indecisione), da un racconto tradizionale indiano, Satah se uthata admi (1980, Emergendo dalla superficie) che riflette sul rapporto tra cinema e linguaggio verbale.Il nuovo cinema fu legato in gran parte ai finanziamenti della Film Finance Corporation (1960), che dal 1968 si dedicò interamente alla promozione dei giovani autori. Tra di essi da citare ancora Govindan Aravindan (Kanchana Seeta, 1977, La Sita d'oro, moderna trasposizione del Rāmāyaṇa), Girish Raghunath Karnad (Kaadu, 1973, La foresta; Ondanondu kaladalli, 1978, C'era una volta), Basu Chatterjee (Piya ka ghar, 1971, La casa del marito). Un posto a parte spetta a Shyam Benegal, dedito a un cinema di ampio impatto popolare e minor rigore autoriale, ricco di opere impegnate su temi sociali come l'oppressione della donna (Bhumika, 1976, Il ruolo; Kondura, 1977, Il talismano), i problemi della classe contadina (Ankur, 1973, Il germoglio; Nishant, 1975, L'alba), la corruzione dei ceti industriali urbanizzati (Kalyug, 1980).
Gli anni Settanta, tuttavia, furono dominati da un altro regista bengalese che, dopo Ray, è considerato il più autorevole del cinema nazionale: Mrinal Sen, autore dalla carriera irregolare, iniziata negli anni Cinquanta e segnata, nel 1969, da un'opera cardine come Bhuvan Shome (Il signor Shome) che diede l'avvio alla nouvelle vague indiana. Con la 'trilogia di Calcutta' (Interview, 1970; Calcutta '71, 1972; Padatik, 1973, Il guerrigliero), Sen affronta i problemi della disoccupazione e della miseria ispirandosi a B. Brecht e a Jean-Luc Godard. Anche i film successivi sono aperte denunce della miseria del Paese, dei problemi dell'urbanizzazione, dell'ipocrisia delle classi borghesi e dei retaggi feudali nell'I. coeva. Tra questi film, tutti segnati da una riflessione sottile sull'arte del cinema, si ricordano Chorus (1974), Mrigaya (1976, La caccia reale), Oka oorie katha (1977, Storia di villaggio), Chaalchitra (1981, Caleidoscopio), Khandhar (1983, Le rovine), il film televisivo Tasveer apni apni (1984, Detto francamente), Genesis (1986). Originario del Bengala è anche Buddhadev Dasgupta, intellettuale di formazione marxista (prima di dedicarsi al cinema insegnava economia all'università di Calcutta) che nel 1978 firmò la sua opera prima, Dooratwa (La lontananza), dimostrando quella notevole sensibilità artistica che lo porterà, venti anni dopo, a conquistarsi l'apprezzamento della critica occidentale.
Gli anni Ottanta hanno visto l'affermarsi di nuovi talenti come Ketan Metha (Bhavni bhavai, 1980, Una storia di cantastorie), Govind Nihalani (Aakrosh, 1980, Rabbia) e Akhtar Saeed Mirza (Albert Pinto ko gussa kyon aata hai, 1980, Cosa fa andare in collera Albert Pinto), sempre più orientati verso un cinema capace di recuperare forme d'intrattenimento popolare. Vanno infine segnalati alcuni film indiani che hanno riscosso successo di critica nei festival internazionali: Ekti jiban (1990, Ritratto di una vita) di Raja Mitra; Salaam Bombay (1988; Salaam Bombay!) di Mira Nair, uscito con successo anche sugli schermi italiani; Ganashatru (1989, Un nemico del popolo) di S. Ray ‒ che per tutti gli anni Settanta e Ottanta aveva continuato a realizzare opere di valore come Aranyer din ratri (1969, Giorni e notti nella foresta), Jana aranya (1975, L'intermediario), Ghare baire (1984, La casa e il mondo), e il cui ultimo titolo è Agantuk (1991, Lo straniero) ‒ e infine l'eccellente Ek din achanak (1988, Improvvisamente un giorno) di M. Sen, partecipata riflessione sui veri valori della vita, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1989.
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Negli anni Novanta vi è stato un notevole sviluppo dei film in lingua telugu, tamil, malayālam, kannaḍa (circa il 60% della produzione globale), mentre il numero dei biglietti venduti si è attestato sui cinque miliardi annui. Di recente la distinzione tra cinema 'parallelo' e cinema 'popolare', ossia tra il cinema d'autore e quello commerciale, si è attenuata fino quasi a scomparire. Il termine Bollywood, con cui si è usato indicare il cinema commerciale in lingua hindi prodotto a Bombay, considerato da molti uno stereotipo negativo, ha dovuto la sua popolarità a una formula che amalgama melodramma, commedia, azione e soprattutto canzoni e coreografie. Tali film di consumo, popolati da eroi positivi, belle e virtuose eroine e venali 'cattivi', comprimono e proiettano le fantasie collettive, riproponendo, in forma semplificata, lo scontro tra il bene e il male, tra dei e demoni, presente nella mitologia indù. Il pubblico di questi film a volte ha raggiunto, in una settimana, i 70 milioni di spettatori, come nel caso di due campioni d'incassi degli anni Settanta: Sholay (1975, Fiamma) di Ramesh Sippy, un melodramma-western proiettato per cinque anni di seguito nei cinema di Mumbai, e Amar Akbar Antony (1977) di Manmohan Desai, storia di tre fratelli, separati dalla nascita, che si ritrovano adulti dopo aver adottato tre differenti religioni. In entrambi i film recita la superstar Amitabh Bachchan, divenuto l'indiscusso protagonista del cinema popolare hindi dei tre decenni successivi, con più di 120 film al suo attivo. Tra i successi più recenti, va ricordato Hum aapke hain kaun…! (1994) di Sooraj Barjatya, noto anche come Who am I to you?, scene di un matrimonio in un Paese che non vuole distaccarsi dai valori tradizionali, storia d'amore senza conflitti che ha come protagonista femminile Madhuri Dixit, diva adorata da milioni di indiani.
Negli anni Novanta l'I. ha vissuto, parallelamente a un rallentamento della crescita demografica, un rapido cambiamento culturale, dovuto anche all'apertura economica al mercato mondiale, con una forte crescita della televisione, anche via cavo e satellitare e l'arrivo di Internet. Nelle grandi città è emersa, insieme al cambiamento economico-sociale, una insoddisfazione per i contenuti ripetitivi dei film hindi prodotti a Bombay. Ma a fronte di questa richiesta non si è registrata una crescita significativa del cinema d'autore o 'parallelo'. Mentre il cinema commerciale ha prodotto annualmente nell'ultimo decennio una media di 670-900 film (di cui circa la metà in hindi), la produzione di film d'autore non ha superato la media di 15-20 film. Secondo la più autorevole critica cinematografica indiana, A. Vasudev, la visibilità del cinema d'autore si è ridotta in alcuni casi alle proiezioni in occasione dell'annuale IFFI (International Film Festival of India). L'assenza di sale destinate a un cinema d'autore e di incentivi che ne favoriscano la distribuzione potrebbe aver provocato una disaffezione nel pubblico ‒ eccetto in Kerala e nel Bengala, dove diverse facilitazioni hanno incoraggiato la distribuzione di questi film ‒ segnando così il positivo ingresso di nuovi talenti orientati verso un 'cinema medio commerciale di qualità'. È il caso di Mani Rathnam, regista leader del nuovo cinema prodotto a Madras, che in Bombay (1995) racconta i massacri ai danni della comunità musulmana della città, avvenuti nel 1992, in seguito alla distruzione della moschea di Ayodhya per opera di fanatici indù. A questa nuova categoria si possono ricondurre Santosh Sivan con The terrorist (1997), film che narra, ancora in lingua tamil, la crisi di una terrorista che all'ultimo momento rinuncia a commettere un attacco suicida contro un'alta personalità politica; Nagesh Kukunoor con Hyderabad blues (1997), commedia su un matrimonio combinato; Ram Gopal Verma, produttore e regista, con Satya (1998, Verità), ritratto del brutale mondo del crimine e dei politici corrotti di Mumbai; Dev Benegal che con il suo secondo film, Split wide open (1999, in lingua inglese e hindi presentato anche alla Mostra del cinema di Venezia), narra le tribolazioni di un ragazzo di strada (Rahul Bose, uno degli attori e registi più interessanti dell'ultima generazione) alla ricerca della sorella dodicenne, intrappolata nel giro della pedofilia di Mumbai.
Lo stesso cinema indiano più commerciale sembra aver aderito a questa nuova tendenza verso temi più impegnati e controversi ‒ guerra, terrorismo, nazionalismo e conflitti tra comunità religiose ‒ anche attraverso il lancio di nuove star, come Hrithik Roshan, interprete di grandi successi, tra cui Kaho naa…pyaar hai (2000; E dillo… che mi ami) di Rakesh Rosham e Gadar ‒ Ek prem katha (2001, Gadar ‒ Una storia d'amore) di Anil Sharma, storia d'amore ambientata nel 1948, all'epoca del conflitto con il Pakistan e della nuova demarcazione dei confini tra i due Paesi. Sempre al cinema commerciale di qualità appartiene Lagaan ‒ Once upon a time in India, (2001; Lagaan) di Ashutosh Gowariker, film in cui risultano fusi elementi tipici della cultura popolare ‒ il gioco del cricket e il sentimento nazionalista antibritannico ‒ e che ha ricevuto il riconoscimento sia della critica internazionale (la nomination all'Oscar per il miglior film straniero e il premio del pubblico al Festival internazionale di Locarno del 2001) sia del pubblico indiano (grazie anche alla partecipazione della star Aamir Khan, nella duplice veste di protagonista e produttore). Va anche ricordato Devdas (2002) di Sanjay Leela Bhansali, ennesimo adattamento cinematografico di uno dei romanzi più letti di Sarat Chandra Chatopadhye ‒ scritto nel 1917 e portato sullo schermo da una decina di registi di fama, a partire dal 1928 ‒ che si caratterizza per la sontuosa scenografia e la mirabile coreografia con cui viene raccontata l'intensa storia d'amore tra Devdas (interpretato dal popolarissimo Shahrukh Khan) e la sua amica d'infanzia Paro (Aishwarya Rai, eletta miss Mondo nel 2000), premiato come miglior film straniero dal BFTA (British Academy Film and Television Awards).
Con il terzo millennio sono tornati sulla scena anche molti degli autori che avevano animato il cinema 'parallelo' degli anni Settanta e Ottanta. Alla Mostra del cinema di Venezia il bengalese B. Dasgupta ha vinto il premio come miglior regista con Uttara (1999), storia controversa di una donna isolata dal mondo maschilista, cui fanno da sfondo i conflitti etnico-religiosi fomentati dai fanatici indù. Autore di grande talento si è rivelato anche il bengalese Gautam Ghose con Dekha (2001, Percezioni), che ripercorre su molteplici piani narrativi la vita di un vecchio intellettuale di Calcutta, alle prese con la trasformazione della società bengalese, avvalendosi dell'interpretazione di Soumitra Chatterjee (protagonista di molti film di S. Ray). Zubeidaa (2001) di S. Benegal ha segnato il ritorno di un pioniere della nouvelle vague indiana al formato tradizionale del cinema storico-popolare; con un cast di star e le musiche di Allah Rakha Rahman, il compositore più innovativo e popolare dell'ultimo decennio.
Alla cinematografia bengalese appartengono anche Aparna Sen, che, dopo il famoso 36 Chowrighee Lane (1981, in lingua inglese), ha diretto Mr. Mrs. Iye (2002, in lingua inglese), raccontando un viaggio attraverso i recenti conflitti tra indù e musulmani, e il decano del cinema d'autore, M. Sen, che nel 2002 ha firmato Aamar bhuvan (2002, La mia terra, in lingua hindi), storia di una donna (interpretata da Nandita Das) divisa tra due uomini in un villaggio del Bengala. Nello stesso anno è uscito anche Dweepa (L'isola) di Girish Kasaravalli, regista proveniente dal Karnataka e cresciuto con la new wave degli anni Settanta (nel 1977 aveva firmato Ghatasharaddha, Il rituale, considerata una delle migliori opere della storia del cinema indiano); il film, in lingua kannaḍa, premiato come migliore opera indiana del 2002, tocca in modo nuovo e intelligente temi quali la modernizzazione, la globalizzazione e lo sviluppo, raccontando la costruzione di una diga dal punto di vista di una famiglia il cui villaggio verrà sommerso dalle acque. All'esplorazione del recente passato sono invece rivolte due opere del 2002: Kannathil muthamittal (Un bacio sulla guancia) di Mani Ratman, regista della nuova generazione che rilegge, in lingua tamil, la storia dello Sri Lanka, Paese devastato da una ventennale guerra civile, attraverso gli occhi di una bambina srilankese adottata da una famiglia indiana; e Manda meyer upakhyan (2002, Storia di una cattiva ragazza, presentato al Festival di Berlino del 2003) di B. Dasgupta, che prende spunto dal viaggio del primo astronauta sulla Luna per raccontare poeticamente altri viaggi, con differenti destinazioni, e in particolare l'emancipazione di una bambina che vive con la madre prostituta in un bordello.
Anche il già ricordato A. Gopalakrishnan, che resta una delle personalità più importanti del cinema d'autore del Kerala, ha continuato a produrre opere di rilievo, tra cui Nizhalkkuthu (2002, Ombre oscure), film ambientato nell'India non ancora indipendente, in un villaggio di frontiera, dove un boia è costretto a confrontarsi con un'ultima esecuzione d'impiccagione che sconvolgerà la sua coscienza. Tra i giovani autori di maggior talento occorre anche menzionare Revathy Asha Menon (Mitr my friend, 2001, in lingua inglese), Madhur Bhandarkar (Chandni bar, 2001, in lingua hindi), T.V. Chandran (Dany, 2002, in lingua malayālam), il giovane regista Anup Singh (Ekti nadir naam, 2002, Il nome di un fiume, omaggio in lingua bengalese al cinema del regista R.K. Ghatak) e Jahnu Barua (Konikar ramdhenu, 2002, A cavallo dell'arcobaleno, in lingua assamese). Dal Kerala proviene anche Shaji Narayanan Karun, regista che dopo essersi segnalato con il suo film d'esordio, Piravi (1988), presentato in molti festival internazionali, ha realizzato nel 2002 la sua prima opera in lingua hindi, Nishad. In lingua telugu (Andhra Pradesh) sono invece i film del critico cinematografico K.N.T. Sastry, passato alla regia con Tiladaanam (2001, Il sacrificio) e di Anjan Das, regista di Saanjhbathir Roopkathara (2002, Tratti e silhouettes), con Soumitra Chatterjee nel ruolo di protagonista.
Infine non va dimenticato il cinema indiano realizzato da registi non residenti in I., in cui spiccano tre donne: Mira Nair, originaria del Punjab e residente negli Stati Uniti, che ha confermato il successo di Salaam Bombay con il più recente Monsoon wedding (2001), divertente commedia matrimoniale ambientata nella borghesia di New Delhi (il film è stato premiato con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia); Deepa Mehta, naturalizzata cittadina canadese, regista che dopo il successo internazionale con Fire, opera che ha dato luogo a molte controversie quando è stata presentata all'IFFI nel 1997 (ha dovuto attendere quattordici premi internazionali e due anni prima di essere distribuita nelle sale indiane, in quanto racconta una relazione lesbica, interpretata con grande efficacia da due attrici di talento, la nota Shabana Azmi e la giovane Nandita Das) ha offerto altre prove convincenti con Earth (1998), e Bollywood-Hollywood (2002), parodia del mondo del cinema dei due continenti; nel 2000 aveva inoltre iniziato le riprese di Water, interrotte per le proteste degli indù. E infine Gurinder Chadha, regista nata in Kenya ma di origine panjābī, residente in Gran Bretagna e nota per il suo primo road movie, Bhaji on the beach (1993; Picnic alla spiaggia), che ha raggiunto il successo internazionale con Bend it like Beckham (2002; Sognando Beckham) presentato con successo anche nelle sale italiane.
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