(o giainismo) Religione indiana, diffusa in tutta l’India (circa 2 milioni di seguaci). Si basa sugli insegnamenti di Mahāvīra (il «grande eroe», soprannome di Vardhamāna; 599-527 a.C), ultimo di una serie di 24 altri maestri (Tīrthakara). Di nobile origine, dopo 12 anni di vita da mendicante Mahāvīra ottiene l’illuminazione, che poi trasmette ai discepoli: il mondo consiste di innumerevoli anime e della materia; quest’ultima si trasforma continuamente a seconda dell’anima che le dà vita; l’anima percorre un ciclo di esistenze, da cui solo mediante l’illuminazione può liberarsi.
La via principale alla salvezza è nell’ascetismo, praticato fervidamente dai monaci jaina che per es. considerano come un merito particolare la morte raggiunta per fame. Essi non hanno alcuna proprietà privata, se non un recipiente per le elemosine, un fazzoletto, un abito e una scopa per rimuovere dal proprio cammino i piccoli esseri viventi affinché non subiscano offesa. Il non uccidere (ahiṃsā) è, infatti, la loro regola principale, cui si aggiungono il tenersi lontani dall’errore e dalla menzogna e la castità assoluta. Queste norme severe non valgono per i laici che, anzi, devono avere proprietà per poter aiutare i monaci e per costruire templi e conventi.
Nel j., in origine religione atea, si sono infiltrati elementi induistici. Il culto consiste, oltre che nelle prediche, anche in sacrifici, naturalmente incruenti, offerti ai maestri considerati quasi come divinità, benché, dato il loro stato di liberazione, essi non intervengano nelle vicende terrestri. Il testo sacro è il Siddhānta, formatosi lungo i secoli e canonizzato nel 5° sec. d.C.; accettato dalla setta degli śvetāmbara («vestiti di bianco»), è però respinto dall’altra setta, più rigorosa, dei digambara («vestiti d’aria», cioè nudi).