Nel diritto comunitario, la libera circolazione dei capitali è stata compresa dal Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) tra le libertà fondamentali, nell’ambito della costruzione di un mercato comune della Comunità, ma con diverso profilo giuridico rispetto alla libera prestazione dei servizi. I movimenti di capitali nel territorio della Comunità erano infatti consentiti solo nella “misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune”. Per dare attuazione al principio stabilito all’art. 67 del Trattato, concernente l’eliminazione di restrizioni in questo campo, la Comunità varò fin dai primi anni 1960 direttive che, in maniera differenziata, liberalizzavano le operazioni finanziarie. Le operazioni erano divise in tre categorie: operazioni da liberalizzare completamente; operazioni soggette alla liberalizzazione condizionata; operazioni esenti da qualsiasi impegno di liberalizzazione. La materia restava di competenza degli Stati membri. Nell’ambito della politica economica e monetaria (Unione economica e monetaria. Diritto dell'Unione europea), i movimenti di capitali sono stati per molti anni controllati dagli Stati nazionali per contenere gli squilibri della bilancia dei pagamenti.
A partire dalla metà degli anni 1970, si ebbero crescenti limitazioni nell’esportazione di capitali, considerata in alcuni paesi (anche l’Italia) illecito da perseguire penalmente. L’inversione di tendenza si ebbe nel 1986: la Commissione europea presentò al Consiglio dell’UE un Programma per la liberalizzazione dei movimenti di capitali nella Comunità, che prevedeva due fasi nella ‘liberalizzazione integrale’ del settore. Per la prima fase era fissato l’obiettivo della liberalizzazione incondizionata ed effettiva in tutta la Comunità delle operazioni su capitali connesse al corretto funzionamento del mercato e l’integrazione dei mercati nazionali di titoli finanziari. In questa prospettiva la Comunità emanò la direttiva 566/1986. La seconda fase doveva portare a “un grande mercato interno dotato della sua piena dimensione finanziaria” (direttiva 361/1988).
Le modifiche introdotte con il Trattato di Maastricht. - Il Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del 1992, abrogando gli artt. da 67 a 73 del Trattato istitutivo della Comunità Europea (CE), codificava la nuova formulazione della normativa, per la quale la liberalizzazione dei movimenti di capitali non è più ancorata al finanziamento del mercato comune, ma è un principio assoluto, che si applica nei rapporti tra gli Stati membri e tra questi e i paesi terzi. Le uniche limitazioni consentite nei rapporti fra Stati membri sono quelle riguardanti la legislazione tributaria, in cui è possibile una distinzione tra i contribuenti in base al luogo di residenza o di collocamento del loro capitale e quelle riguardanti l’informazione amministrativa o statistica o le misure dettate da ordine pubblico o di pubblica sicurezza. I movimenti di capitali tra la Comunità e gli Stati terzi, riguardando ormai l’unione economica e monetaria, ricadono nella competenza del Consiglio per quanto attiene l’adozione di misure di salvaguardia in situazioni di turbolenza o crisi finanziarie. A seguito delle ulteriori modifiche introdotte con il Trattato di Lisbona del 2007 (in vigore dal 2009), le disposizioni in materia di “Capitali e pagamenti” sono contenute negli artt. 63 e seguenti del Trattato CE, ora denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Unione economica e monetaria. Diritto dell'Unione Europea