meccanica
Un punto d’appoggio per sollevare il mondo
A lungo la meccanica, disciplina che studia l’interazione tra moto e materia, è stata la ‘Scienza’. Tutto – dal movimento dei carri allo scorrere dell’acqua, dal calore ai fenomeni magnetici, dall’elettricità alla propagazione dei raggi luminosi – veniva spiegato ricorrendo a principi meccanici, e il mondo era concepito come il risultato della continua azione meccanica di corpi grandi come i pianeti o piccoli come le molecole. Questo fino all’inizio del Novecento, quando la meccanica da sola non bastò più e si arrivò, con la fisica moderna, alla sua ramificazione in una miriade di discipline diverse
Quando viaggiate in automobile vi può capitare di stare fermi a un semaforo, di procedere a velocità costante in un tratto di strada rettilineo e senza traffico, oppure di venire sballottati in curva, durante le frenate o le accelerazioni. Queste tre esperienze corrispondono alla statica, alla cinetica e alla dinamica, le diverse branche di cui si compone la meccanica.
Dire che un carrello rimane fermo se nessuno lo spinge implica un concetto importante, quello di forza. L’intervento di una forza esterna modifica lo stato meccanico di un oggetto ed è proprio la capacità di padroneggiare queste forze che permette di costruire i marchingegni più complicati. Archimede, il più grande inventore dell’antichità, progettò e realizzò nel 3° secolo a.C. strumenti di ogni tipo: dalle carrucole alle viti senza fine, dalle ruote dentate alle leve. Sembra sia stato lui – entusiasta per aver scoperto il principio della leva – a pronunciare la frase «datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo!». Archimede spiegò anche la natura meccanica di molti fenomeni come il galleggiamento delle navi.
La meccanica inizia così ad affermarsi come scienza universale: Aristotele nel 4° secolo a.C. dedicò a questa disciplina un intero libro che per moltissimi secoli è stato la ‘bibbia’ di ogni scienziato, fino a quando Galileo Galilei agli inizi del 17° secolo osò mettere in dubbio la parola del maestro.
Le critiche di Galilei riguardavano soprattutto il modo di considerare il moto di un corpo. Secondo Aristotele un oggetto in movimento, una volta lasciato libero, si sarebbe arrestato, non appena esaurita quella che lui considerava la ‘spinta’ iniziale; Galilei, al contrario, sosteneva che, in assenza di forze, esso avrebbe continuato a muoversi in linea retta e a velocità costante; e il fatto che nell’esperienza quotidiana un oggetto si fermi è dovuto proprio alla presenza di attriti (che sono appunto forze).
Le osservazioni di Galilei sono alla base del famoso principio di relatività del moto, confermato a fine Seicento da Isaac Newton ed esteso poi nel 20° secolo da Albert Einstein nella sua teoria della relatività. Le conseguenze sulla meccanica non furono negative, anzi ne uscì rafforzata. Galilei, infatti, aveva introdotto un modo del tutto nuovo di procedere: escogitare esperimenti in grado di confermare o smentire qualunque ipotesi sulla natura di un fenomeno fisico, una pratica che ancor oggi è alla base di tutta la ricerca scientifica.
Dal canto suo Newton introdusse nella meccanica l’uso intensivo della matematica. I principi della meccanica presero così la forma di equazioni e le leggi fisiche risultarono espresse da relazioni talmente semplici – come nel caso della gravitazione universale – da far sperare che il funzionamento dell’intero Universo obbedisse a pochi principi meccanici. Si arrivò al punto di dichiarare che conoscendo lo stato di tutta la materia dell’Universo a un certo istante si sarebbe potuto predire completamente il suo comportamento futuro applicando le leggi della meccanica. Un’affermazione che si rivelerà piuttosto avventata!
Tanto entusiasmo era però comprensibile: nel 1846 la meccanica aveva permesso di scoprire addirittura un pianeta. Nettuno era stato individuato nelle immensità del cielo grazie alle predizioni della meccanica celeste che aveva indicato agli astronomi dove e quando puntare i telescopi. Nettuno era stato scoperto ‘in punta di penna’ perché era la prima volta che un corpo celeste veniva individuato grazie a equazioni matematiche e non attraverso la costante osservazione del cielo. Ma anche su scale molto più piccole la meccanica aveva riscosso grandi successi. Il filosofo greco Democrito nel 5° secolo a.C. era stato il primo a pensare che ogni sostanza fosse in realtà formata da una miriade di minuscole particelle: gli atomi. Prendendolo alla lettera, gli scienziati del 19° secolo dimostrarono che il calore era traducibile in leggi meccaniche. Per esempio in un palloncino pieno di gas gli atomi o le molecole non restano ferme ma urtano continuamente contro le pareti. Scaldare il gas contenuto nel palloncino equivale a far aumentare la velocità delle sue particelle che quindi urtano con più forza contro le pareti facendo gonfiare il palloncino.
Anche l’elettricità e il magnetismo erano ritenuti dei processi meccanici. Venivano paragonati a fluidi che scorrono all’interno delle sostanze conduttrici e che in presenza di sostanze isolanti si arrestano come davanti a una diga. Insomma verso la fine dell’Ottocento sembrava proprio di aver chiarito come funzionava l’Universo. Tutto derivava ‘meccanicamente’ da poche e semplici forze fondamentali – gravitazionale, elettrica, magnetica – e descrivere in dettaglio i fenomeni più complessi era soltanto una questione di abilità e di impegno.Il sogno dei fisici dell’epoca era l’unificazione delle conoscenze fisiche in un unico principio che fosse davvero universale.
In effetti, elettricità e magnetismo mostravano tra loro non pochi punti di contatto poiché una corrente elettrica crea nelle sue vicinanze un magnetismo temporaneo rilevabile con una bussola. La loro unificazione per opera del fisico scozzese James Clerk Maxwell nel 1873 aveva portato a un’altra grande scoperta: le onde elettromagnetiche, tra le quali la luce con tutti i suoi colori. Ma la meccanica riusciva a spiegare anche i fenomeni luminosi paragonando la luce a un’onda che si propaga in ampi cerchi concentrici come quelli provocati dalla caduta di un sasso in uno stagno.
Tuttavia, fu proprio la luce a mandare in crisi la visione meccanicistica della natura. Movimento e materia sono infatti i due ingredienti di base della meccanica: senza l’uno non può esistere l’altra. Quanto sia stretto questo rapporto si comprende pensando ai doppi vetri, che sono utilizzati per limitare le perdite di calore dalle finestre. Si chiamano così perché il loro potere isolante deriva dall’aver fatto il vuoto tra due lastre di vetro: il calore dell’aria non può trasmettersi meccanicamente, cioè mediante movimenti di particelle da una parte all’altra, per mancanza di un mezzo attraverso cui propagarsi.
Eppure la luce del Sole riesce lo stesso ad attraversare i doppi vetri e a scaldarci. Fu una riflessione analoga, ma su scala astronomica, che pur di salvare la meccanica portò a una ipotesi azzardata: se la luce delle stelle giunge fino a noi attraversando il cosmo, allora vuol dire che lo spazio non è vuoto! Cominciarono così i tentativi di capire come fosse fatta questa ipotetica sostanza (chiamata etere) che permeava lo spazio. Doveva essere sufficientemente densa da permettere le interazioni meccaniche necessarie al passaggio delle onde luminose ma non abbastanza da rallentare per attrito il moto dei pianeti attorno al Sole. Era un vero rompicapo: l’etere. non venne mai trovato perché non c’era e le ambizioni della meccanica furono drasticamente ridimensionate dalla grande rivoluzione che animò la fisica del primo Novecento. Nel giro di pochi decenni si scoprì l’immensa forza nascosta nel nucleo dell’atomo e le stesse leggi che descrivevano fenomeni già noti diventarono più complicate. Nuove scoperte come quella dell’antimateria sembravano andare non solo contro la descrizione meccanica dei fenomeni, ma anche contro il buon senso!
Non bisogna però pensare che la meccanica fosse completamente sbagliata. Come tutti i tentativi fatti dall’uomo per comprendere la natura, la visione meccanicistica ha i suoi limiti di applicazione. Immaginare che ogni sostanza sia composta di particelle il cui moto è regolato dall’azione di forze ha rappresentato un grande progresso concettuale e ha portato a scoperte che sono tuttora valide.
L’interpretazione del calore come il moto incessante di particelle microscopiche di materia ha permesso di stabilire quante ve ne sono, per esempio, in 1 g d’idrogeno: un numero incredibilmente grande, un tre seguito da ventitré zeri! L’ottica geometrica, cioè lo studio della propagazione delle onde luminose, basata su principi meccanici, è tuttora il riferimento essenziale per la costruzione di strumenti ottici di ogni tipo, dai telescopi ai microscopi.
Come ebbe a dire Albert Einstein, «Anche se oggi noi sappiamo con certezza che la meccanica classica fallisce in quanto fondamento generale di tutta la fisica, essa continua a costituire il centro di tutto il nostro modo di considerare la fisica».
Nel linguaggio della scienza moderna il termine meccanica ricorre un po’ ovunque, anche se sempre più spesso accompagnato da qualche aggettivo. La disciplina che per molto tempo è stata la candidata numero uno al titolo di scienza universale ora si chiama meccanica classica o meccanica razionale. Quando viene applicata al moto dei pianeti si parla di meccanica celeste, se si occupa del comportamento dei liquidi diventa meccanica dei fluidi, mentre se studia il funzionamento di macchine e motori allora il suo nome è ingegneria meccanica.
Alla meccanica è permesso di entrare anche nei campi della fisica moderna che si fondano su principi completamente diversi da quelli classici. La meccanica quantistica (quanti) indaga la struttura della materia a livello atomico; la meccanica statistica si applica ai sistemi formati da un numero di particelle talmente grande da obbedire a leggi probabilistiche (probabilità). Su scala astronomica le traiettorie delle sonde inviate nello spazio vengono calcolate per mezzo della meccanica del volo.
Al di fuori degli ambienti scientifici la parola meccanica viene utilizzata per indicare quell’insieme di ruote, molle, leve e ingranaggi che permettono a un meccanismo di funzionare. Per molto tempo le grandi invenzioni furono esclusivamente di tipo meccanico. Gli orologi sfruttavano le regolari oscillazioni di un pendolo, le navi venivano spinte dal vento oppure da eliche che erano mosse dal vapore, le mongolfiere (dirigibili, aerostati e mongolfiere) salivano nel cielo trascinate dall’aria calda. Anche le prime calcolatrici sommavano e sottraevano numeri con accorgimenti di tipo meccanico come pallottolieri molto complicati.
Oggi l’elettronica ha sostituito molti di quei meccanismi con circuiti elettrici miniaturizzati e microcomputer. Negli orologi moderni il tempo viene scandito da appositi circuiti elettrici e ciò che fa muovere le lancette non è più una molla caricata a mano ma una batteria; in generale le automobili, gli aerei, gli elettrodomestici sono sempre più spesso dotati di controlli elettronici. La costruzione di macchine basate sulla continua interazione tra parti meccaniche ed elettroniche è compito della robotica.
Uno dei problemi della statica è quello di determinare le condizioni di equilibrio di un sistema meccanico. Molti sono gli esempi proprio sotto ai nostri occhi. I cavi della corrente ad alta tensione che vanno da un traliccio all’altro non sono dritti ma si incurvano a causa del loro stesso peso: qual è la forma che prendono e perché? È un caso particolare di un problema più generale, ossia quello di determinare la curva tracciata da una corda sospesa le cui estremità sono fissate. A trovare la soluzione contribuirono grandi scienziati del passato come Christian Huygens, Gottfried Wilhelm Leibniz e Giovanni Bernoulli. Anche Galilei ci provò, ma questa volta si sbagliava in quanto pensava che quella curva fosse semplicemente un tratto di parabola. La risposta giusta era più complicata, ed è nota con il nome di catenaria perché è la curva tipica delle catene attaccate a due punti di ancoraggio. Dal punto di vista meccanico la catenaria rappresenta la curva con il baricentro più basso di tutte le altre, garantendo così il massimo della stabilità.
Durante un lungo viaggio capita di cambiare fuso orario perché ci si è spostati in senso uguale o contrario alla rotazione della Terra. Bisogna allora far avanzare o retrocedere le lancette in base a quanto e a come ci si è spostati. Se oggi ciò non è più un problema, un tempo, quando ci si trovava a navigare per mesi nelle immensità degli oceani, oppure per giorni e giorni immersi nella nebbia, calcolare la posizione di una nave diventava un vero rebus. Dopo l’ennesimo naufragio provocato dalla scarsa accuratezza dei metodi allora in uso, nel 1714 il Parlamento inglese istituì un premio in denaro per chi avesse risolto il problema della longitudine, come veniva chiamata nel linguaggio marinaro. I più famosi astronomi del tempo cercarono la soluzione nelle stelle, ma vennero battuti da un… orologiaio! In effetti la cosa più semplice era equipaggiare una nave con un orologio che continuasse a segnare l’ora del luogo da cui si era partiti. Una volta in viaggio sarebbe bastato confrontarlo con l’ora locale, facilmente deducibile dall’altezza del Sole sull’orizzonte, per sapere di quanto ci si era spostati verso est o verso ovest. Purtroppo gli orologi dell’epoca erano a pendolo e poco precisi: impossibile pensare che funzionassero sballottati in alto mare tra umidità e salsedine. Ma John Harrison era un orologiaio davvero ingegnoso: dopo vent’anni di continui sforzi e miglioramenti costruì un dispositivo con una meccanica talmente sofisticata da garantire un’altissima precisione anche in condizioni climatiche proibitive e con dimensioni così ridotte da poter essere portato nel taschino. Era nato il cronometro.