Modernità
Il concetto di m. applicato al cinema è stato a lungo sinonimo di modernizzazione: il cinema è l'arte moderna per eccellenza in quanto si basa su una tecnologia industriale ed è utilizzato per la produzione di merci indirizzate a un pubblico di massa. In questa accezione il concetto ricalca le descrizioni di carattere ontologico e sociologico messe a punto per definire la m. in senso storico-culturale generale, in particolare quelle della tradizione hegeliana, di K. Marx e della tradizione marxista, della Scuola di Francoforte. In termini più direttamente estetologici, dire che il cinema è moderno più di ogni altra arte significa iscriversi nell'ambito delle teorizzazioni che pensano i fatti artistici come 'rispecchiamento' dei fenomeni sociali, teorie per le quali la m. di un'opera d'arte è identificata con la sua capacità di rispecchiare gli elementi materiali e socio-culturali che caratterizzano il processo della modernizzazione. Un tale uso del concetto è ricorrente e abituale nella storia del cinema, fin dalle sue origini. Lo si trova persino nei teorici delle avanguardie storiche, la cui elaborazione non si limita certo al criterio del rispecchiamento e investe più pregnanti questioni formali. Quell'uso è presente nella forte componente meccanica e modernista che si trova negli esempi di fotogenia proposti da Louis Delluc, o nell'intero discorso sul cinema come nuova arte sincretica e tecnologica del formalista russo Boris M. Ejchenbaum, o ancora nella poetica del kinoglaz vertoviano (v. avanguardia sovietica e Vertov, Dziga) con la sua esaltazione di un nuovo occhio tecnologico, dalla superiore capacità percettiva e analitica.
Successivamente e fino ai nostri giorni tale uso ha perso però la connotazione progressiva collegata con la relativa novità che l'invenzione del cinema rappresentava nel quadro tradizionale delle arti, acquisendo una genericità che lo rende talvolta fonte di equivoci, come per es. quando diviene sinonimo di attualità. Ciò dipende dal fatto che la prospettiva sociologica, dopo aver indicato bene le caratteristiche fondamentali del moderno nei concetti di crisi e di rivoluzione, non è tuttavia in grado di mostrarle operanti nella storia dei linguaggi artistici. La m. di questi ultimi è affidata a una pura e semplice specularità rispetto al modernismo te-cnologico e sociale.
Il superamento di questi equivoci è possibile solo dando pregnanza al termine modernità, in un quadro interpretativo diverso da quello del rispecchiamento e in sintonia con la linea epistemologica che innerva l'ampia koinè della fenomenologia e dello strutturalismo che ha caratterizzato il Novecento. Si deve riformulare la domanda in termini non ontologici, passando dal discorso sulla mimesi della crisi in atto nel sociale (arte come rispecchiamento) al discorso sulla crisi vissuta direttamente, 'in proprio' per così dire, dai vari linguaggi artistici. Tale prospettiva di carattere formale si accorda con le riflessioni di carattere gnoseologico ed epistemologico che hanno caratterizzato il pensiero del Novecento: dalla Gestalttheorie alla gnoseologia di E. Cassirer, dalla riflessione husserliana alle elaborazioni dei fenomenologi e degli strutturalisti in campo non solo filosofico ed estetologico ma anche letterario e di critica dei diversi linguaggi artistici.Queste riflessioni non puntano a un'ontologia del moderno, ma piuttosto intendono porsi modernamente il problema epistemologico. Se è propria del moderno la critica della ragione, queste riflessioni (sulla scorta della kantiana Kritik der Urteilskraft) la situano al giusto livello epistemologico, al livello cioè delle condizioni della conoscenza, in cui la ragione critica sé stessa, secondo la fondamentale esigenza autoriflessiva che è propria della stessa cultura moderna. A una ripresa di questo tipo di studi contribuì negli anni Sessanta ‒ decennio di grande rilievo per il moderno cinematografico ‒ la prospettiva semiologica (v. semiologia e teorie del cinema), anticipata dal lavoro di riviste come "Les temps modernes" (fondata nel 1946 da Maurice Merleau-Ponty, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e altri) e, per ciò che concerne il cinema, la "Revue internationale de filmologie" (fondata nel 1947 da Gilbert Cohen-Séat; v. filmologia). Prospettiva di ampio respiro internazionale, da cui in Italia sono partiti autori come Umberto Eco ed Emilio Garroni e alla quale non è insensibile il Galvano Della Volpe della Critica del gusto (1960). Inoltre nel 1953 apparve Le degré zéro de l'écriture di Roland Barthes, la prima formulazione di Opera aperta (libro pubblicato nel 1962) di Eco è una conferenza del 1958, Understanding Media di Marshall McLuhan uscì nel 1964 (trad. it. Gli strumenti del comunicare, 1967) per diventare ben presto il testo sacro della dilagante massmediologia.
Da questo genere di riflessioni scaturisce una prima conseguenza per una corretta impostazione del tema della m. cinematografica: il rapporto tra arte e società è impostato nel senso che i due ordini, del sociale e dell'artistico, non si sovrappongono né sono speculari. Se sono moderne l'idea di crisi e quella di evoluzione, se è moderno l'atteggiamento che vede 'tutto ciò che è solido dissolversi nell'aria' (M. Berman, All that is solid melts into air, 1982; trad. it 1988), se è moderna la frattura nell'individuo (tra individuo e società, tra io e altro, tra coscienza e inconscio), tutto questo deve essere tradotto coerentemente sul piano teorico e su quello delle pratiche artistiche attraverso un discorso sul momento originario delle produzioni simboliche e una messa in questione dello statuto formale dei linguaggi.
Nella storia del cinema sono più d'uno i punti di riferimento per l'elaborazione di questo genere di metodologia. Il primo è costituito dalla grande messe di film che, negli anni Sessanta e Settanta, va sotto il nome di Nuovo cinema internazionale. Sono le opere di autori diversi tra loro ma caratterizzati da un comune tipo di sensibilità nei confronti del mezzo cinematografico, da una comune inclinazione a un certo uso del linguaggio, da una certa pratica e da una certa idea di cinema. Sono Michelangelo Antonioni e Robert Bresson, Alain Resnais e Jean-Luc Godard, e non pochi altri: Cesare Zavattini (l'intellettuale e il teorico più che lo sceneggiatore), Bernardo Bertolucci, François Truffaut, Jean Rouch, John Cassavetes, Claude Chabrol, Marco Bellocchio, Marguerite Duras, Jacques Rivette, Pier Paolo Pasolini, Philippe Garrel, Jean Eustache, Chris Marker, Karel Reisz, Lindsay Anderson, Tony Richardson, Paulo Rocha, Carlos Diegues, Glauber Rocha, Robert Kramer, Vera Chytilová, Dušan Makavejev, Jerzy Skolimowski, Paulo Cesar Saraceni, Jan Němec, Miloš Forman, Jerzy Kawalerowicz, Miklós Jancsó, Jean-Daniel Pollet, Shirley Clarke, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Alexander Kluge, Rainer Werner Fassbinder, Edgar Reitz, Ōshima Nagisa, Wim Wenders, Chantal Akerman. Cineasti, questi, che partecipano da protagonisti al grande asse fenomenologico che innerva la cultura del Novecento. Esponenti di una stagione di straordinaria creatività per il cinema internazionale, tanto più entusiasmante perché non limitata a questa o quella cinematografia ma estesa quasi capillarmente, come in virtù di un'eco che si propaga da un Paese all'altro, da un continente all'altro: Nouvelle vague francese, Free Cinema inglese, Cinema Nôvo brasiliano, Scuola di New York e New American Cinema, Nová Vlna cecoslovacca, nuovo cinema ungherese, Junger deutscher Film. E, ancora, il nuovo nel cinema giapponese e nelle cinematografie orientali, e l'affacciarsi del cinema africano alla ribalta internazionale, dal giovane cinema algerino e del Maghreb in generale alle nuove cinematografie dei Paesi ex coloniali dell'Africa nera, tra i quali il Senegal e il Camerun.
Una stagione, questa del Nuovo cinema degli anni Sessanta e Settanta, che fa, implicitamente o esplicitamente, del découpage classico hollywoodiano la norma estetica da violare, ma la cui lezione ha operato in modo decisivo anche sul cinema di Hollywood (Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, fino a Jim Jarmusch, Joel ed Ethan Coen e Quentin Tarantino) e continua a operare un po' ovunque, nei film di Abbas Kiarostami, per es., e di Mohsen Makhmalbaf, Jafar Panahi, Laurent Cantet, Robert Guédiguian, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Sharunas Bartas e non pochi altri. Lezione che appare dunque ben stabilizzata nella storia del cinema, sottratta alle facili periodizzazioni e tale da individuare il polo di un'irriducibile opposizione ai modi del découpage classico.
Oggi sarebbe ben difficile un'elaborazione teorica sul concetto di m. cinematografica se non ci fosse stato negli anni Sessanta e Settanta un discorso teorico-critico adeguato, un intreccio di pratica e teoria che avvicina l'apice della m. cinematografica propriamente detta all'esperienza delle avanguardie storiche.Se si tralascia l'insieme dei riferimenti, non di rado pregnanti, che si trovano nelle teorizzazioni delle avanguardie ‒ dalla fotogenia di Delluc ai kinoki di Vertov, dalla matericità del referente nel Futurismo a quella pellicolare del Dadaismo ‒ è possibile individuare un primo decisivo momento di riflessione sul moderno cinematografico nel pensiero di André Bazin, alla base di vent'anni di elaborazione critica e teorica legata alla formazione della Nouvelle vague e alle pratiche d'avanguardia di autori come Antonioni e Godard, Resnais e Duras, Garrel e Rivette, fino a Straub e Huillet. Il discorso baziniano sul rapporto tra il cinema e le altre arti (il cosiddetto cinema 'impuro') si configura come rapporto produttivo del cinema con i materiali costitutivi del pre-testo, e illumina gli aspetti più produttivi dei due grandi antesignani della m. cinematografica: Roberto Rossellini e Jean Renoir. È la 'linea Renoir-Rossellini-Bazin', la linea del 'cinema della realtà', interpretazione sofisticata del lascito della pratica renoiriana e di quella rosselliniana alla storia della settima arte.Già Jean-Georges Auriol, recensendo nel 1931 su "La révue du cinéma" La chienne (1931) di Renoir, aveva osservato come quel film non fosse stato girato in vista del montaggio, ma piuttosto con un'attenzione alle singole scene in quanto dotate di una validità sottratta al flusso del montaggio, alla concatenazione narrativa del cinema classico. Ciò che Auriol implicitamente notava in Renoir era un piacere della visione che esaltava il gioco del cinema nel suo rapporto con i materiali del referente, gli attori innanzitutto, e l'intera tradizione culturale ‒ visiva, letteraria, teatrale, di costume ‒ che quelle immagini manipolavano. Questa linea interpretativa, che da "La révue du cinéma" di Auriol si trasmette ai "Cahiers du cinéma" di Bazin, si rafforza in un originale lavoro sul Neorealismo cinematografico italiano e perviene a una nuova e più adeguata definizione di realismo cinematografico, nel quadro di un esplicito riferimento alla fenomenologia del secondo dopoguerra. Partendo dall'esperienza neorealista, il discorso avanza lungo le pratiche innovative, sul piano del linguaggio, per es. di Bresson e di Antonioni, per poi sfociare nell'elaborazione critica che investe la Nouvelle vague e il Nuovo cinema internazionale.
Nel 1962 in Francia la rivista "Cinéma 62", ospitò (nel nr. 62) un dibattito esplicitamente dedicato al concetto di m. cinematografica. Quattro critici ‒ René Gilson, Marcel Martin, Pierre Billard e Michel Mardore ‒ rispondono alla domanda Qu'est-ce que le cinéma moderne?, mettendo in evidenza i principali indici stilistici che definiscono le pratiche del moderno cinematografico: 1. la sdrammatizzazione (riscontrabile per es. nell'opera di Antonioni); 2. l'improvvisazione (caratteristica del Cinéma vérité e del 'cinema diretto'); 3. un generale rifiuto della spettacolarità del cinema tradizionale; 4. la presenza forte della regia contrapposta alla preponderanza della sceneggiatura nel cinema del découpage classico; 5. il rilievo accordato all'inquadratura autosufficiente e lunga in contrapposizione al cinema di montaggio; 6. l'apertura esplicita del film a una molteplicità di interpretazioni in contrapposizione alla concatenazione univoca del découpage classico; 7. una sorta di realismo di fondo, di oggettività, capace di restituire l'ambiguità del reale.
Di questo realismo di fondo disse pochi anni dopo Christian Metz in un saggio (1966) poi confluito nei suoi Essais sur la signification au cinéma (1968): "Le migliori opere del nuovo cinema […] offrono spesso ai loro spettatori un certo tipo di verità che assai di rado si trovava nelle grandi opere del passato, verità infinitamente difficile da definire, ma che si localizza istintivamente. Verità di un atteggiamento, di un'inflessione di voce, di un gesto, di un tono. […] Non è illecito pensare che questi istanti di verità […] resteranno, nella loro fragilità, le conquiste più preziose del cinema che, nel 1966, chiamiamo cinema 'moderno'" (trad. it. in Semiologia del cinema, 1972, 1980², pp. 267-68).
È evidente il nesso degli ultimi tre indici stilistici sopra riportati con la teorizzazione di Bazin, con la lezione di Renoir e di Rossellini, con il cinema fenomenologico. Ed è proprio l'intersezione con le ipotesi più produttive di quel cinema che permette di cogliere il comune denominatore delle pratiche della m., il motivo per cui si avverte che appartengono a un'unica 'famiglia' opere sotto altri aspetti ben diverse tra loro. Il comune denominatore è la relazione che si instaura tra il recupero a livello di estetica cinematografica (cioè di idea di cinema che l'opera manifesta) della forte componente riproduttiva insita nel dispositivo cinematografico e l'interrogativo metalinguistico che proprio attraverso questo recupero le pratiche della m. veicolano nei loro film.
Recuperare l'aspetto riproduttivo del cinema implica l'assunzione, a livello della singola pratica di regia, della problematicità della relazione tra la cinepresa e il reale, con il corollario di una problematizzazione, implicita o esplicita (per lo più esplicita) dello sguardo, del modo in cui l'occhio della cinepresa formalizza il mondo. Con un'ulteriore apertura epistemologica, perché in molte di queste pratiche tale problematizzazione diventa figura del più generale problema della formatività del vedere, dell'esperire, del conoscere. Tale nodo il cinema lo affronta a più riprese nel corso della sua storia, e può essere considerato caratteristico di un atteggiamento avanguardista verso il linguaggio. È un nodo centrale, per es., nell'opera teorica e realizzativa di Sergej M. Ejzenštejn, ma è presente in varia forma nelle linee programmatiche di tutte le avanguardie storiche, dal Futurismo alla Prima avanguardia francese (v. Impressionismo), dal Dadaismo al Surrealismo, dall'Avanguardia russa e sovietica allo stesso Espressionismo tedesco, che tratta il problema della forma in modo relativamente tradizionale.
Con l'avvento del sonoro, con il tramonto delle avanguardie storiche e l'affermazione definitiva del découpage classico, il cinema trovò un modo nuovo e diverso di realizzare l'avanguardia, assumendo, e prendendone atto in positivo, le conquiste della tecnica, che hanno assicurato al cinema una maggiore capacità di riprodurre il profilmico (laddove le avanguardie storiche avevano esaltato l'artisticità del cinema identificandola con la sua 'povertà', vale a dire con la sua relativa incapacità di riprodurre fedelmente il reale). Questo modo è appunto il 'moderno', che riscopre tutta la problematicità dell'atto riproduttivo, con un movimento che è al tempo stesso interrogazione delle cose, del mondo e interrogazione del mezzo. Cinema problematico, cinema del dubbio. Anzi, di un dubbio radicale, portato alla radice dell'atto di formalizzazione, al momento stesso dell'aprirsi dell'occhio della cinepresa sulle cose. Cinema esistenziale, mediante il quale il cineasta scommette qualcosa di personale e di profondo, il suo rapporto con le cose, il suo essere nel mondo. Cinema che vive dell'esibizione che fa del problema stesso del vedere, del 'formare', del conoscere la realtà e del viverci dentro. Cinema di viaggio, avventura della conoscenza. Cinema che non ritiene a priori di possedere un senso (al modo del cinema del découpage classico, che dà per scontata la propria funzione di rappresentazione), e che anzi è volto proprio alla ricerca di un senso possibile, per sé e per il reale.
Non è dunque per caso che questo cinema sia stato detto moderno, dal momento che proprio in questo suo dubitare radicalmente di sé e della possibilità stessa di conoscere, invera nel suo proprio dominio la condizione culturale della m., la caduta di ogni fideistica certezza, il dissolvimento di 'tutto ciò che è solido'.
Si può dire che la solidità questo cinema la trovi ‒ modernamente ‒ nel gesto problematico da cui prende vita, e che l'unica forma di totalità che si propone sia ‒ modernamente ‒ quella del frammento e, per riprendere Metz, della 'verità' che vi si esprime. La bipolarità riproduzione/metalinguaggio che nella sua articolazione (l'assunzione della riproduttività del cinema come gesto metalinguistico) costituisce il comune denominatore delle pratiche del moderno è ben rappresentata nei discorsi teorici di Zavattini e di Pasolini.
Il primo, tra le tante e fortunate formule che ha proposto per disegnare la possibilità del cinema di inverare l'auspicata (dal Neorealismo e non solo) socialità dell'artista, ne ha lasciata una particolarmente produttiva sul piano teorico: quella del "cinema del soggetto pensato durante". Un cinema in cui l'argomento stesso del film, in un certo senso il suo plot, non è conosciuto in anticipo, per così dire (come nel cinema di sceneggiatura del découpage classico), ma è pensato durante le riprese, in un work in progress di costruzione del testo che si presenta quindi come ben diverso da quello dell'illustrazione, della messa in immagini di un senso già detenuto (per es., a livello di sceneggiatura). Discorso che, allo scopo di delineare i contorni di quella che si è chiamata la 'famiglia' del moderno cinematografico, può utilmente essere confrontato con le analoghe proposizioni di Renoir, che osservava come il suo modo di girare implicasse una ricerca dell'argomento stesso del film nel lavoro del tournage.
Per Zavattini il cinema poteva trovare la socialità cercata dalle pratiche più avanzate del secondo dopoguerra grazie alle sue specifiche qualità linguistiche, al suo essere arte della riproduzione e del tempo. Era decisiva, qui, la capacità del cinema di realizzare un 'intervento durante' lo svolgersi dei fatti, capacità che appariva preclusa alle altre arti. Concetto, questo della 'durata', che appare in sintonia con una parte significativa dell'elaborazione filosofica del Novecento, in particolare con la riflessione di Henri-Louis Bergson. Quest'ultima sarebbe stata più tardi riproposta in campo cinematografico da Gilles Deleuze nel suo L'image-temps (1985; trad. it. 1989), dove il cinema moderno viene definito per la qualità temporale della sua immagine, contrapposta alla qualità spaziale del cinema classico.
Zavattini sottolinea, in diversi suoi scritti, la possibilità di rinnovare le tecniche, per rendere più facile questo farsi del cinema contestualmente ai fatti: l'alleggerimento del dispositivo, per es., la sua capacità di penetrazione negli ambienti, talvolta affidata al sonoro. Un complesso di motivi tecnici e di linguaggio che avvicina l'idea zavattiniana di cinema alle esperienze del cinema 'diretto' e soprattutto a quelle del Cinéma vérité, di cui l'elaborazione zavattiniana costituisce senza dubbio un'importante anticipazione.In relazione al tema del moderno, il 'cinema di poesia' e la connessa 'soggettiva libera indiretta' di Pasolini costituiscono il controcanto 'neoformalista' al discorso zavattiniano, poiché evidenziano l'altra componente del concetto di m., l'operazione metalinguistica, attraverso una riflessione sull'autoreferenzialismo delle pratiche del moderno. La 'soggettiva libera indiretta', infatti, è un mezzo interamente stilistico, mediante il quale fa irruzione nel testo la componente poetica autoriale, attraverso la presenza esplicita della macchina da presa, che permette all'autore di parlare indirettamente in prima persona, grazie a un qualsiasi alibi narrativo (originariamente, e di qui il nome, l'assunzione del punto di vista di uno dei personaggi, con un procedimento analogo a quello del 'discorso libero indiretto' in letteratura). L'uso di questo procedimento definisce, secondo Pasolini, la 'lingua della poesia' nel cinema: esso infatti "libera le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa, in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l'originale qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria" (Il "cinema di poesia", 1965, poi in Empirismo eretico, 1972, 1991², p. 179). Il linguaggio cinematografico si libera in questo modo dai vincoli che gli sono stati assegnati dalla tradizione del découpage classico e torna così a riappropriarsi della polisemia dell''imsegno', l'immagine significante che sta a fondamento del cinema, e che ha subito nel corso della sua storia un processo di standardizzazione in virtù delle convenzioni di una tradizione sbilanciata in direzione comunicativa (v. linguaggio del cinema).
Le due elaborazioni dunque, quella di Zavattini e quella di Pasolini, mettono l'accento ciascuna su uno dei poli della cui stretta relazione vive il moderno: il mondo e lo sguardo. Ma questa accentuazione non significa affatto che Zavattini metta in parentesi lo sguardo e Pasolini il mondo. È solo il punto di partenza che è diverso. Come appare sia dagli esempi che Pasolini adduce (i materiali del quotidiano fenomenico e quelli delle realtà costituite dai testi e dai linguaggi), sia dalla sua contemporanea elaborazione sul cinema come "lingua scritta dell'azione" e "della realtà", sia infine dalla sua stessa pratica di regia (si pensi, per es., alla dichiarata componente saggistica di un film come Edipo re, 1967, e ai materiali 'di realtà' lavorati in Comizi d'amore, 1965, o in Appunti per un film sull'India, 1969). E com'è mostrato, per ciò che riguarda Zavattini, dall'intrinseco discorso metalinguistico che innerva le sue riflessioni (evidente tra l'altro in un film collettivo, ma in realtà totalmente 'zavattiniano', come Siamo donne, 1953).
Le due elaborazioni, insomma, appaiono pienamente concordi nel segnalare la possibilità ‒ e l'esistenza, in quegli anni ‒ di un cinema che interroghi il suo potere formalizzatore e significante, riscoprendone la pienezza nel momento in cui riscopre la sua vocazione a interrogare il reale attraverso la componente riproduttiva del proprio dispositivo: i due fattori, cioè, che costituiscono il comune denominatore delle pratiche cinematografiche della modernità.
Un'ulteriore produttiva conseguenza di questo modo di pensare la m. cinematografica è il suo contributo a una ridefinizione del concetto romantico di 'autore'. Se è vero che il concetto stilistico di m. fin qui delineato si sottrae alle periodizzazioni e investe l'intera storia del cinema, è anche vero però che ci sono anni, precisamente i Sessanta e i Settanta, in cui il moderno assume nel cinema il massimo rilievo. Proprio in quegli anni, e in larga misura proprio nelle pratiche della m. (l'elenco di cineasti che si è proposto sopra ne è una palese conferma), viene affermato con forza il concetto di autorialità nel cinema: il film è opera di un autore che in esso esprime la propria visione del mondo. In questa direzione si muove la parte più vivace del cinema internazionale del secondo dopoguerra, a eccezione di Hollywood: la critica neorealista prima, e poi quella della 'politica degli autori' che accompagna la nascita delle nouvelles vagues internazionali, a partire naturalmente da quella francese.
Ma a ben vedere l'idea stessa di un autore 'moderno' nel senso delineato contiene un'intima e feconda antinomia. Se infatti il moderno è lo stile che realizza appieno la natura fenomenologica del linguaggio cinematografico, il cineasta della m. è, sì, 'autore', ma in modo ben diverso da quello tramandatoci dalla tradizione romantica, secondo cui l'autore è qualcuno che trasmette la propria Weltanschauung attraverso l'opera. Se infatti una 'visione del mondo' è messa in gioco, essa non lo è direttamente ma in maniera implicita, attraverso un gesto che deriva fondamentalmente dal dubbio, dall'interrogativo radicale che come si è visto il moderno porta sulle cose e sul dispositivo con cui esse vengono formalizzate. L'autore del cinema moderno dunque va pensato, più che come detentore di una Weltanschauung, come luogo di scontro creativo di materiali, come un'entità per nulla data a priori ma piuttosto costruita nel rapporto operativo con il 'reale'.Il residuo materico che nel cinema moderno inceppa l'ingranaggio narrativo, ponendosi come fattore di riscoperta della polisemia dell'immagine cinematografica contro le standardizzazioni del découpage classico, chiama il Soggetto a un'apertura nuova e a una ristrutturazione di sé. Si delinea così un 'autore' cinematografico come Soggetto 'costruito' dall'operazione filmica.
A causa della riproduttività che innerva il suo dispositivo, il cinema, più ancora delle altre arti, rende manifesto questo gioco (sempre in atto in ogni operazione artistica) di reciproca costruzione dei materiali, del testo e del cosiddetto autore. Contro le pratiche classiche del rispecchiamento, i cineasti della m. assumono consapevolmente questa qualità del dispositivo e la rendono principio di costruzione dei loro film, pietra angolare della loro operatività. I film della m. ci dicono esplicitamente che il senso è immanente al testo, non gli preesiste e che, conseguentemente, quello di autore è un concetto innervato nelle stesse operazioni costruttive che al testo danno vita. Il concetto di autore che ne risulta è dunque quello di un Soggetto aperto al mondo, un Soggetto che non esiste indipendentemente dalle cose, dai materiali e dalla loro manipolazione estetica. E il suo autobiografismo sarà la scrittura, nello stile, della storia di quello scontro creativo con e dei materiali, della storia, cioè, della costruzione stessa del Soggetto-autore da parte dell'operazione filmica.
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