POLITICA INTERNAZIONALE.
– La crisi del 20072008 e il ruolo degli Stati Uniti. L’Europa. I nuovi fronti di guerra e l’emergere di nuove potenze. Bibliografia
La crisi del 2007-2008 e il ruolo degli Stati Uniti. – La p. i. è stata pesantemente condizionata dalla crisi economica esplosa nel 2007-08. Gli effetti della crisi si sono riverberati su diversi ambiti delle relazioni internazionali contemporanee: dai tentativi di riformare la governance globale (e le istituzioni a essa proposte) alla leadership degli Stati Uniti; dai processi di integrazione politica ed economica regionale ai rapporti di forza e agli equilibri di potenza globali.
Per quanto concerne la governance – il tentativo cioè di costruire e intensificare pratiche di gestione e regolamentazione delle relazioni internazionali – tre aspetti meritano di essere sottolineati. In primo luogo, la debolezza di un’azione coordinata contro una crisi che dagli Stati Uniti si è estesa rapidamente al resto del mondo. Hanno pesato su questo le carenze istituzionali, ossia l’assenza di organizzazioni e forum ove promuovere risposte alla crisi multilaterali, negoziate e collaborative. Ma ha pesato altresì la propensione di molti soggetti, a partire dagli stessi Stati Uniti, a privilegiare pratiche unilaterali, a discapito spesso delle relazioni con partner consolidati, in particolar modo in Europa. In secondo luogo, l’indebolimento del multilateralismo ha congelato i progetti e le discussioni sulla riforma delle Nazioni Unite: delle sue regole, della sua struttura e dei suoi meccanismi di funzionamento. La più importante organizzazione internazionale – e il suo Consiglio di sicurezza – continuano quindi a operare sulla base di principi, rapporti di forza e privilegi che conseguirono alla Seconda guerra mondiale e che sono oggi a tutti gli effetti obsoleti e inefficienti. Infine, sono stati sospesi, e talora abbandonati, molti degli ambiziosi progetti di ampliamento e regolamentazione di processi di libero scambio. Il cosiddetto Doha Round – l’interminabile trattativa per la liberalizzazione del commercio multilaterale – è fallito dopo un decennio di inutili negoziazioni. Condotte spesso in modo poco trasparente, le trattative per la creazione di aree commerciali aperte, sull’Atlantico (la Trans-Atlantic trade and investment partnership, TTIP) e sul Pacifico (la Trans-Pacific partnership, TPP) hanno incontrato diverse resistenze e i loro tempi di attuazione si sono di molto dilatati.
Su queste difficoltà di governance multilaterale ha inciso moltissimo il deficit di leadership statunitense in un ordine internazionale nel quale il primato degli Stati Uniti, per quanto contestato e indebolito, rimane indiscutibile. Lo scarto di potenza tra gli USA e le altre principali potenze mondiali è facilmente misurabile attraverso indicatori militari ed economici. La spesa militare degli USA è oggi equivalente a circa il 40% di quella globale. Ne conseguono una superiorità tecnologica e una capacità di proiezione globale delle forze armate statunitensi che non hanno pari. Peraltro, il dollaro rimane la valuta egemone, anche in conseguenza del venir meno dell’alternativa che si pensava potesse essere rappresentata dall’euro. Attestatisi attorno al 2/2,5% annuo, i tassi di crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo) degli USA sono maggiori di quelli di quasi tutti i Paesi dell’area atlantica. Il mercato e i consumi statunitensi continuano a rappresentare il volano primario della crescita economica mondiale.
Questo scarto di potenza, però, non si traduce automaticamente in leadership ed egemonia. Screditato dagli interventi in Afghānistān e, soprattutto, in ῾Irāq, lo strumento militare ha rivelato un’utilizzabilità decrescente. Una parte largamente maggioritaria dell’opinione pubblica statunitense è contraria a nuovi interventi militari guidati dagli Stati Uniti, anche se autorizzati dalla comunità internazionale. Queste difficoltà si sono manifestate in due crisi internazionali successive al 2008: quella libica del 2011 (v. Libia) e quella siriana (v. Siria), che ha provocato una guerra civile dai costi umani devastanti (secondo le stime delle Nazioni Unite, le vittime in Siria sono state più di 200.000 e circa 4 milioni di persone hanno abbandonato il Paese). In Libia, un’azione internazionale autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU ha portato alla caduta del regime di Muammar Gheddafi. Voluto principalmente dalla Francia e dalla Gran Bretagna, quello libico ha costituito il primo intervento militare della comunità internazionale del dopo guerra fredda nel quale gli Stati Uniti non hanno assunto il comando. Il caos che ha seguito l’intervento, culminato con l’assassinio dell’ambasciatore statunitense in Libia John Christopher Stevens, ha evidenziato la fragilità dei progetti internazionali per la Libia dopo Gheddafi e l’incapacità (e indisponibilità) di Washington ad assumere un ruolo di guida.
Nella guerra civile siriana, il desiderio degli USA di vedere rovesciato il regime di Baššār al-Asad si è scontrato con il timore che ne conseguisse un’ulteriore destabilizzazione del teatro mediorientale, da cui avrebbero potuto trarre vantaggio le forze dell’islamismo più radicale. Ne è conseguita una politica statunitense spesso erratica e incoerente, che ha finito per contribuire a quegli esiti che si intendeva invece prevenire. La guerra civile siriana si è estesa all’Irāq; una nuova incarnazione del terrorismo fondamentalista islamico – il cosiddetto Stato islamico dell’Irāq e del Levante (v. Is) – ha sfruttato debolezze e contraddizioni dei suoi avversari per ottenere diversi successi militari ed estendere il territorio sotto il suo controllo a diverse aree della Siria e dell’Irāq. Gli USA hanno guidato la risposta internazionale alla sfida dell’IS con un’azione di bombardamenti aerei sull’esercito dello Stato islamico, alla quale non sono però conseguiti rivelanti successi militari sul campo da parte delle diverse forze (siriane, curde e irachene) impegnate nella campagna contro l’IS. Nel settembre del 2015, la Francia ha compiuto i suoi primi raid aerei contro obiettivi dell’autoproclamato Stato islamico in Siria, sostenendo il proprio diritto alla legittima difesa in quanto attacchi contro la Francia stessa sarebbero stati pianificati dalle basi jihadiste siriane. Nello stesso mese, anche la Russia è intervenuta in Siria, precisando che la sua partecipazione a operazioni di ‘antiterrorismo’ avveniva su richiesta del presidente Baššār al-Asad e in conformità con il diritto internazionale. L’iniziativa ha tuttavia suscitato la reazione di Washington, secondo cui Mosca avrebbe colpito i ribelli sostenuti dagli Stati Uniti con l’obiettivo di consolidare il regime di Damasco.
L’Europa. – Nella crisi mediorientale, l’Europa ha svolto un ruolo timido e spesso inefficace. Una timidezza, questa, che riflette una più generale debolezza: dei principali Stati europei, dell’Unione Europea e del processo di integrazione. Anche in questo caso, rilevante è risultato l’impatto della crisi economica e i suoi diversi riverberi sui Paesi dell’Unione. Diversamente dagli USA, e sotto la spinta della Germania, l’UE ha scelto di rispondere alla crisi con una politica di austerity e di rigore fiscale ritenuta indispensabile per evitare deragliamenti dei conti pubblici, mantenere la credibilità dell’euro sui mercati internazionali e preservare la competitività economica dell’economia europea. Questa linea ha però contribuito, sul breve periodo, ad amplificare la recessione e a mandare in forte sofferenza alcuni Paesi dell’Unione. Nel periodo 2010-15, la crescita del PIL dell’eurozona non ha superato mai l’1%, e in più trimestri ha avuto valori negativi. I dati sono stati disomogenei all’interno dell’UE, con alcuni Paesi – soprattutto dell’area mediterranea e meridionale – che, a causa della bassa competitività della loro economia e del loro alto livello di indebitamento, hanno sofferto molto di più della crisi. Il caso emblematico è stato quello della Grecia, espostasi nel decennio precedente grazie alla facilità con cui poteva collocare titoli di Stato denominati in euro e la cui fragilità economica è stata messa a nudo dalla crisi. Le condizioni molto dure imposte ad Atene per rientrare dal debito, soprattutto per volontà della Germania, hanno esacerbato una crisi politica ed economica che ha diviso e indebolito l’Unione Europea. Nel mentre, l’euroscetticismo – se non l’aperta ostilità all’Unione Europea – è notevolmente cresciuto favorendo spesso forze politiche nazionaliste e regionaliste, come il Front national in Francia, la Lega Nord in Italia e il UK independence party (UKIP) nel Regno Unito, ovvero nuove formazioni di sinistra, come il partito antiausterity SYRIZA, giunto al potere in Grecia in seguito alle elezioni del 2015.
I nuovi fronti di guerra e l’emergere di nuove potenze. – Le difficoltà dei processi di integrazione e di governance multilaterale si sono evidenziate anche in Africa e in America Latina. In entrambe, le speranze e le ambizioni dei primi anni Duemila si sono scontrate con ostacoli oggettivi e conseguenti rallentamenti. Sulle difficoltà delle politiche di integrazione regionale hanno pesato fattori diversi e non di rado contraddittori: la crisi successiva al 2008 e la conseguente contrazione del commercio globale; la necessità di avere accesso a investimenti esteri, che spesso collideva con l’attivazione di blocchi economici regionali; il persistere di antagonismi nazionali; la svolta globalista di alcune nuove potenze regionali (è il caso del Brasile in America Latina); il persistere di rilevanti squilibri macroeconomici e di potenza (per es., tra il Sudafrica e gli altri membri dell’Unione doganale dell’Africa meridionale).
Queste difficoltà di governance multilaterale si sono intrecciate con il moltiplicarsi dei fronti di tensione e di guerra. Iniziata in Tunisia, la cosiddetta primavera del mondo arabo – un processo di riforme e democratizzazione contro modelli autoritari diffusi in gran parte del Medio Oriente e del Nord Africa – si è estesa per quanto in modo difforme a molti Paesi dell’area. Centrale è stato in particolare il ruolo svolto dall’Egitto, dopo la caduta del regime di Muḥammad Ḥusnī Mubārak nel 2011 e il successo della Fratellanza musulmana nelle elezioni del 2012. Il nuovo governo formatosi nel 2012 e guidato da Muḥammad Mursī ha però avuto vita breve ed è stato deposto nel 2013 da un’azione militare che ha portato al potere il generale . Ne è seguita una durissima repressione culminata con la comminazione della pena capitale a diversi membri della Fratellanza musulmana, incluso lo stesso Mursī. Il caso egiziano ha rappresentato in maniera emblematica le speranze e le illusioni della primavera araba, ma anche il suo impatto su un contesto regionale instabile e ad altissimo rischio, come evidenziato dalle guerre in Siria e in ῾Irāq.
Ai conflitti mediorientali si sono però aggiunti altri fronti di guerra, il più importante dei quali è stato quello in Ucraina. Qui, nel 2013, un’ondata di proteste popolari contro il governo di Victor Yanukovych, colpevole di avere rinunciato a siglare un accordo di associazione con l’Unione Europea e di aver orientato il Paese in senso chiaramente filorusso, ha portato nel 2014 alla formazione di un nuovo governo legato agli Stati Uniti e all’Europa. Ne è conseguita una dura reazione di Mosca, che ha prontamente accolto la richiesta di annessione da parte della Crimea e ha sostenuto i gruppi filorussi presenti nelle regioni orientali dell’Ucraina. La successiva escalation del conflitto ha indotto gli Stati Uniti e i loro alleati europei ad adottare varie sanzioni economiche contro la Russia, mentre forze ucraine e milizie filorusse si scontravano ripetutamente e i diversi accordi per una tregua erano immediatamente violati da ambo le parti.
Commentatori e politici presentavano lo scontro in Ucraina come una replica, aggiornata, della guerra fredda, che per più di quarant’anni aveva contrapposto l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Le analogie ovviamente non mancano in un contesto, però, radicalmente cambiato. Nella rete di interdipendenze strategiche ed economiche che caratterizzano le relazioni internazionali contemporanee agisce spesso una miscela contraddittoria di integrazione e separazione, pressioni strutturali in favore della collaborazione e dinamiche politiche che esacerbano le tensioni e catalizzano il conflitto. Questa miscela è evidente nella crisi ucraina, dove l’impegno della Russia nel riaffermare il proprio status di potenza e il conseguente diritto a una sfera di influenza che includerebbe la stessa Ucraina si scontra con la dipendenza di Mosca da crediti, tecnologia e investimenti occidentali e con la necessità di avere accesso a mercati sempre più integrati.
Una dinamica simile agisce su scala globale, nelle relazioni tra i Paesi più ricchi e quelli in ascesa, in un ordine internazionale in costante mutamento e trasformazione. L’ultimo decennio è stato contraddistinto dall’emergere di potenze nuove, capaci di sfruttare mercati – nazionali e globali – sempre più ampi, innovazioni tecnologiche, basso costo del lavoro e, in taluni casi, risorse naturali ancora sottoutilizzate. È questo, per es., il caso di Brasile (v.), India
(v. Indiana, Unione) e, soprattutto, Cina. Potenze contraddistinte da ritmi di crescita ormai inimmaginabili per gli Stati Uniti e l’Europa (nel periodo 2005-14, il PIL brasiliano è talora cresciuto a ritmi del 5/6% all’anno, quello indiano e quello cinese hanno spesso superato il 10%). E potenze che rivendicano un ruolo nuovo in un ordine internazionale dove operano ancora gerarchie, e conseguenti modelli di governance, atlantico-centrici e antiquati (v. Brics; globalizzazione e global governance).
Brasile, India e Cina hanno cercato di sostanziare questo loro ruolo con un nuovo attivismo diplomatico, dispiegato in particolare su scala regionale. La Cina ha così cercato di contestare la tradizionale egemonia degli USA nell’area del Pacifico, potenziando le proprie capacità militari ed estendendo la propria influenza economica attraverso l’intensificazione delle relazioni commerciali bilaterali con vari Paesi dell’area. Di nuovo, però, questa dinamica competitiva si è intrecciata con elementi che spingono invece alla collaborazione e all’integrazione. La contradditoria relazione tra Cina e Stati Uniti – la variabile più importante del sistema internazionale corrente – si caratterizza, infatti, per le molteplici interdipendenze che la qualificano: gli scambi commerciali (la Cina è il primo esportatore negli USA e il mercato statunitense è stato, ed è, vitale per la crescita economica cinese); la delocalizzazione produttiva in Cina di molte compagnie statunitensi; i crescenti investimenti diretti cinesi in Nord America; il ruolo centrale della Cina nel sostenere il debito statunitense e nell’accumulare riserve in dollari funzionali anche a mantenere un tasso di cambio favorevole, che preservi la competitività di un’economia trainata dalle esportazioni quale è, appunto, quella cinese. Ed è proprio questa combinazione di integrazione e separazione – pressioni strutturali alla collaborazione e persistenza di politiche di potenza che spingono allo scontro – che sembra contraddistinguere la fase delle relazioni internazionali contemporanee segnata dalla crisi economica globale del 2007-08.
Bibliografia: G.J. Ikenberry, Liberal Leviathan: the origins,crisis, and transformation of the American world order, Princeton 2011; S. Chan, Looking for balance: China, the United States and power balancing in East Asia, Stanford (Cal.) 2012 ; M. Lynch, The Arab uprising: the unfinished revolution of the new Middle East, New York 2012; B. Mabee, Understanding American power: the changing world of US foreign policy, New York 2013; M. Naím, The end of power, New York 2013; D. Shambaugh, China goes global: the partial power, Oxford-New York 2013; M. Reid, Brazil: the troubled rise of a global power, New Haven-London 2014; A. Stent, The limits of partnership: US-Russian relations in thetwenty-first century, Princeton 2014; A. Wilson, Ukraine crisis: what it means for the West, New Haven 2014; S.F. Szabo, Germany, Russia, and the rise of geo-economics, London-New York 2015; Origins and evolution of the US rebalance toward Asia: diplomatic, military and economic dimensions, ed. H. Meijer, NewYork 2015.