Nel diritto pubblico romano, garanzia riconosciuta al cittadino che, condannato dal magistrato alla pena di morte o al pagamento di una multa superiore a un certo ammontare, poteva appellarsi al popolo (provocare ad populum) perché fosse questo a emettere la sentenza definitiva, che poteva essere di condanna o di assoluzione. Secondo la tradizione, il rimedio sarebbe stato introdotto già nel 509 a.C., ossia all’inizio della Repubblica; ma si ha la certezza che soltanto verso la metà del secolo successivo fu possibile avvalersi della p., appellandosi ai comizi centuriati per evitare l’esecuzione della pena capitale (secondo quanto disposto dalla legge delle Dodici tavole), e senza che fosse più lecita l’istituzione di magistrature straordinarie non soggette a p. (secondo quanto disposto da una legge Valeria-Orazia del 449). Ciò nonostante, non mancarono successivamente casi di abusi da parte degli stessi magistrati ordinari, che talora esercitarono il loro potere di coercizione senza rispettare la garanzia, ritenuta un vero pilastro della libertas repubblicana; in ragione di ciò, una legge Valeria del 300 a.C. intervenne a sanzionare i comportamenti illegittimi, assicurando allo ius provocationis una maggior effettività.
Benché all’inizio del 2° sec. a.C. le leges Porciae ne avessero esteso la sfera di applicazione (in particolare, contro la fustigazione e contro le pene comminate anche fuori Roma, da parte dei comandanti militari), col passare del tempo i processi popolari si fecero sempre più rari, a causa della generale crisi di funzionamento delle assemblee comiziali; tanto che all’inizio dell’Impero il processo criminale ordinario era ormai quello delle quaestiones perpetuae, corti permanenti contro i cui verdetti non era ammesso appello.