Risorgimento
Quando e come l’Italia si è unificata
Per Risorgimento si intende il movimento di pensiero e il processo politico che portarono all’indipendenza e all’unità dell’Italia nel 1861. L’ideale risorgimentale dell’unificazione politica della Penisola si realizzò grazie a vari fattori: le armi dei Savoia, le iniziative delle correnti democratiche e moderate, l’aiuto straniero. Dopo il fallimento di numerosi moti e della Prima guerra d’indipendenza con l’Austria, la Seconda guerra d’indipendenza e la spedizione dei Mille portarono alla formazione del Regno d’Italia,
il 17 marzo 1861
Il termine Risorgimento allude al risveglio dopo un periodo di decadenza: la nazione italiana, dopo secoli di dominio straniero, doveva risollevarsi e riappropriarsi del suo destino. In effetti, uno Stato italiano non era mai esistito, per cui gli uomini del Risorgimento, quando alludevano alla passata grandezza, pensavano ai periodi in cui l’Italia aveva occupato un posto centrale nella storia grazie all’Impero Romano, alla Chiesa, alle repubbliche marinare e ai comuni.
Giuseppe Mazzini, per esempio, auspicava l’avvento di una ‘terza’ Roma, dopo quella dei Cesari e dei Papi. La terza sarebbe stata la Roma del popolo, con la missione di diffondere l’ideale della fratellanza, contrapponendo l’Europa dei popoli a quella dei re. Per il filosofo e uomo politico Vincenzo Gioberti gli italiani detenevano un primato morale e civile grazie alla Chiesa romana, centro di diffusione del cristianesimo in Europa.
L’idea di una nazione italiana si era già manifestata, anche se solo nei ceti colti della società, nel Settecento: il poeta Vittorio Alfieri aveva espresso con passione l’esigenza di un risveglio nazionale. Un contributo alla diffusione dell’ideale unitario provenne paradossalmente dall’occupazione francese nell’età napoleonica. I Francesi, infatti, costituirono il primo nucleo di una Repubblica italiana (1802), poi Regno d’Italia (1805), anche se limitato ad alcune regioni del Nord e sotto il controllo francese.
Nel 1797 nella Repubblica Cispadana era nato il tricolore verde, bianco e rosso, che diventò la bandiera nazionale. Ma solo nell’Ottocento, nell’atmosfera del romanticismo, maturò l’idea che l’umanità fosse divisa in nazioni e che ognuna avesse il diritto a un proprio Stato nazionale. Il termine nazione deriva da nascita e presuppone che un popolo abbia in comune l’origine storica o etnica («abbia lo stesso sangue»). L’identità di una nazione si riconosce da alcuni segni, come la lingua e la tradizione letteraria, artistica e culturale. Nel caso dell’Italia, però, determinare l’identità nazionale non era semplice: prima dell’unità la maggioranza della gente non parlava l’italiano, ma solo il dialetto locale. La divisione in tanti Stati, inoltre, si rifletteva in differenze culturali, sociali ed economiche tra le regioni.
La costruzione di una nazione italiana, quindi, avvenne in gran parte dopo l’unificazione: come disse il patriota e uomo di Stato Massimo d’Azeglio, «fatta l’Italia» bisognava «fare gli Italiani». Uno strumento fondamentale fu la scuola dell’obbligo: grazie a essa le nuove generazioni impararono la lingua e la cultura nazionale. Anche l’esercito contribuì a costruire il sentimento di appartenere a una stessa comunità. Durante la Prima guerra mondiale, condividere i patimenti della vita di trincea avvicinò gli Italiani di ogni regione, superando le reciproche diffidenze.
Il Congresso di Vienna (1814-15) riportò l’Italia, definita dal cancelliere austriaco Metternich, il regista della restaurazione europea, una mera «espressione geografica», alla frammentazione in tanti Stati, soggetti al dominio diretto o indiretto dell’Austria. Il Lombardo-Veneto era territorio dell’Impero asburgico, mentre i ducati di Parma e Piacenza e di Modena e Reggio e il granducato di Toscana furono assegnati a parenti degli Asburgo. Contro la Restaurazione si formarono alcune società segrete, che si battevano per un’Italia libera, unita e indipendente. La più importante fu la Carboneria, che lottava per ottenere la costituzione, ma non aveva ancora un chiaro progetto unitario. Essa organizzò i moti del 1820-21 nei Regni delle Due Sicilie e di Sardegna e del 1831 in Emilia Romagna e nelle Marche. Furono tutti repressi dopo un breve successo iniziale.
Gli insuccessi dei moti segnarono il tramonto della Carboneria, che aveva mostrato tanti limiti: non aveva un progetto chiaro; cercava il sostegno dei re o di Stati stranieri che veniva sempre a mancare; organizzava moti locali senza coordinamento nazionale; non riusciva a coinvolgere i ceti popolari. Mazzini criticò questi limiti e cercò di superarli, fondando nel 1831 una nuova società segreta: la Giovine Italia. Essa doveva avere un chiaro programma, fondato su alcuni obiettivi essenziali (un’Italia libera, unita, indipendente e repubblicana), diffonderlo con la propaganda e l’educazione del popolo (perché la rivoluzione dev’essere fatta «dal popolo e per il popolo») e organizzare numerose insurrezioni (traducendo il pensiero in azione) per preparare la rivoluzione nazionale.
Anche la propaganda mazziniana ebbe un limite: non riuscì a penetrare tra i contadini, che erano la maggioranza della popolazione, perché privilegiava l’unificazione nazionale sulle riforme sociali, che erano un bisogno assai sentito delle masse popolari. Furono Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane a sottolineare la necessità di associare la lotta unitaria con l’azione rivoluzionaria per trasformare la società. Ma il fallimento delle insurrezioni mazziniane, come quella dei fratelli Bandiera nel 1844 in Calabria, favorì la nascita di correnti risorgimentali più moderate, che non si rivolgevano al popolo, ma all’iniziativa dei sovrani e delle classi dominanti. Esse miravano a obiettivi più concreti e raggiungibili dello Stato unitario, considerato un’utopia.
La corrente moderata più importante fu il neoguelfismo di Vincenzo Gioberti, che voleva una confederazione di Stati italiani, trasformati in monarchie costituzionali, sotto la presidenza del papa. Si chiamò neoguelfismo perché, come i guelfi medievali, rivendicava al papato un ruolo di guida morale e civile.
Cesare Balbo sottolineava la necessità di liberare l’Italia dalla presenza straniera e riteneva che solo i Savoia avessero la forza per indurre gli Austriaci a lasciare il paese. Sostenitore della casa sabauda fu anche Massimo d’Azeglio, che proponeva di modernizzare l’Italia con l’unione doganale e lo sviluppo ferroviario per favorire i commerci.
Al contrario dei neoguelfi, i neoghibellini Giambattista Niccolini e Francesco Domenico Guerrazzi, di tendenze repubblicane, vedevano nello Stato della Chiesa un ostacolo alla realizzazione dell’unità d’Italia. Anche Carlo Cattaneo era repubblicano, ma non condivideva l’ideale unitario di Mazzini: le differenze sociali, economiche e culturali tra le diverse «patrie singolari», in cui da secoli era divisa l’Italia, rendevano preferibile una federazione italiana di repubbliche autonome.
L’elezione al pontificato di Pio IX nel 1846 diede un forte impulso al neoguelfismo: il nuovo papa, con le sue riforme, sembrava proprio la guida spirituale e politica a cui pensava Gioberti. Anche altri sovrani avviarono una stagione di riforme, che culminò nel 1848 con la concessione di statuti (costituzioni). Il primo fu concesso dal re delle Due Sicilie, in seguito a un’insurrezione siciliana; poi anche la Toscana, il Regno di Sardegna e lo Stato Pontificio ebbero lo statuto.
Nel 1848 scoppiò una nuova ondata di insurrezioni in Europa, che interessò anche l’Italia. Quando giunse la notizia della rivoluzione in Austria e del licenziamento del cancelliere Metternich, Venezia (17 marzo) e Milano (18 marzo) insorsero. A Venezia fu proclamata la repubblica e a Milano, dopo cinque giornate di lotta, le truppe austriache agli ordini del governatore militare Johann Radetzky furono scacciate dalla città. Anche i duchi di Modena e Parma furono costretti alla fuga dai moti popolari. Gli insorti milanesi erano divisi tra chi, come Gabrio Casati, sperava nell’aiuto di Carlo Alberto e chi invece, come Cattaneo, non voleva l’annessione al Piemonte. Il 23 marzo Carlo Alberto ruppe gli indugi e dichiarò guerra all’Austria, per non lasciare l’iniziativa ai democratici ed estendere i propri territori. Era la Prima guerra d’indipendenza.
L’intervento piemontese fu tardivo e lasciò alle truppe austriache il tempo di riparare nell’inespugnabile Quadrilatero (Peschiera, Verona, Legnago, Mantova), in attesa di rinforzi dalla madrepatria. La prima fase della guerra ebbe carattere federale: anche Pio IX, Leopoldo di Toscana e Ferdinando delle Due Sicilie inviarono truppe contro gli Austriaci. Alle truppe ufficiali si aggiunsero volontari provenienti da tutta Italia. Il clima unitario, però, durò poco: quando capirono che il re sabaudo combatteva per estendere i propri possedimenti, gli altri sovrani ritirarono le loro truppe. Rimasti soli, i piemontesi ottennero successi a Goito, Pastrengo e Peschiera, ma furono travolti a Custoza (23 luglio) dalla controffensiva di Radetzky. Carlo Alberto fu costretto all’armistizio, firmato a Vigevano dal generale Salasco.
La Lombardia tornò sotto gli Austriaci, mentre a Venezia sopravvisse la repubblica. L’iniziativa risorgimentale passò quindi nelle mani dei democratici: nel 1849 il granduca di Toscana e il papa furono scacciati e a Firenze e a Roma vennero istituite due repubbliche, entrambe governate da triumvirati (governi di tre persone). I protagonisti furono Guerrazzi a Firenze e Mazzini a Roma. Nel 1849 Carlo Alberto fece un nuovo tentativo di attaccare l’Austria, ma fu sconfitto a Novara. Ciò lo indusse ad abdicare a favore del figlio Vittorio Emanuele II, che firmò l’armistizio di Vignale e la pace di Milano. Quindi gli Austriaci restaurarono con le armi il granduca a Firenze; i Francesi imposero a Roma, vanamente difesa da Giuseppe Garibaldi, il ritorno di Pio IX, che ormai aveva deluso neoguelfi e patrioti. Per ultima fu sconfitta la repubblica di Venezia, che cedette il 24 agosto, stremata dall’assedio austriaco e da un’epidemia di colera. In Italia tutto tornava come prima. Le costituzioni furono revocate tranne lo Statuto Albertino, destinato a diventare la costituzione italiana dall’unificazione (1861) alla caduta della monarchia (1946).
Negli anni seguenti ci furono nuovi tentativi insurrezionali del movimento mazziniano, organizzato nel Partito d’azione (1853), ma tutti fallirono. Nel 1857 Pisacane, mazziniano con tendenze socialiste, cercò di sollevare i contadini meridionali contro il regime dei Borbone e dei latifondisti, ma i trecento volontari che l’avevano seguito furono massacrati appena sbarcati a Sapri.
Ancora una volta, di fronte agli insuccessi dei democratici, si riaffermò la strategia moderata, che intendeva risolvere il problema dell’unità nazionale non con le rivolte popolari, ma con la diplomazia e le armi dei sovrani. Il protagonista di questi anni, che servirono a preparare la Seconda guerra d’indipendenza, fu Camillo Benso, conte di Cavour, capo del governo piemontese dal 1852. Cavour era un liberale, convinto che la causa nazionale non potesse essere separata dall’affermazione in Italia di un’economia moderna e di un sistema politico moderato, non retrogrado come quelli del papa e dei Borbone, ma neanche democratico come volevano i mazziniani. Egli sapeva che senza la partecipazione militare dei Savoia e, soprattutto, senza il sostegno della Francia e dell’Inghilterra, il Risorgimento italiano non avrebbe avuto successo.
Alla conferenza di Parigi del 1856, con cui si concludeva la guerra di Crimea, Cavour riuscì ad attirare l’attenzione internazionale sulla questione italiana. In quella sede Cavour convinse Francia e Inghilterra che la presenza straniera nel Nord, non accettata dal popolo, e il malgoverno nel Centro-Sud impedivano la stabilità politica in Italia. In caso di nuovi moti rivoluzionari, c’era il pericolo che l’iniziativa cadesse nelle mani dei democratici, cosa che non piaceva né alla monarchia britannica, né all’imperatore francese Napoleone III. Nel 1857 sorse la Società Nazionale, che appoggiò la strategia di Cavour. A essa aderirono anche democratici delusi dai fallimenti mazziniani, tra i quali Garibaldi e Daniele Manin. Il suo motto era «Italia e Vittorio Emanuele».
Quando, nel 1858, il mazziniano Felice Orsini attentò a Parigi alla vita di Napoleone III, fallendo per poco, lo stesso imperatore capì che le tensioni in Italia erano davvero preoccupanti e bisognava intervenire. Si giunse così agli accordi segreti di Plombières tra Napoleone III e Cavour. Essi stabilivano che i Francesi sarebbero intervenuti a fianco dei Piemontesi contro l’Austria, ma solo se fossero stati gli Austriaci ad attaccare.
Prevedevano inoltre la spartizione dell’Italia: al Nord un Regno dell’Alta Italia sotto i Savoia; al Centro (esclusa Roma) un Regno dell’Italia centrale sotto un sovrano da designarsi; al Sud un regno con una nuova dinastia (Napoleone III pensava forse a Luciano Murat, figlio di Gioacchino, re di Napoli ai tempi di Napoleone I). Roma sarebbe rimasta al papa, che avrebbe assunto la presidenza della Confederazione italiana.
Per provocare gli Austriaci e indurli a dichiarare guerra, nel 1859 Cavour ammassò truppe piemontesi lungo il Ticino, che era il confine tra i due Stati. Autorizzò inoltre Garibaldi a organizzare un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi. L’imperatore d’Austria inviò a Vittorio Emanuele II un ultimatum, in cui chiedeva di ritirare le truppe dal Ticino. Al rifiuto piemontese l’Austria dichiarò guerra (26 aprile 1859): era ciò che voleva Cavour. Secondo gli accordi di Plombières le truppe francesi, guidate da Napoleone III, scesero al fianco di quelle piemontesi, comandate da Vittorio Emanuele: iniziava la Seconda guerra d’indipendenza.
In Toscana e in Emilia Romagna le popolazioni insorsero e scacciarono i propri sovrani, formando l’esercito dell’Italia centrale e chiedendo, inoltre, l’annessione al regno sabaudo.
I Cacciatori delle Alpi ebbero brillanti successi a Varese, San Fermo e Bormio. Dopo le vittorie franco-piemontesi a Magenta, San Martino e Solferino, Napoleone III, condizionato da problemi interni alla Francia e dal timore di complicazioni internazionali, firmò con l’imperatore Francesco Giuseppe l’armistizio di Villafranca. Al Piemonte fu ceduta solo la Lombardia. Vittorio Emanuele II accettò, mentre Cavour, indignato, rassegnò le dimissioni.
Solo quando Napoleone concesse l’annessione al Piemonte di Emilia e Toscana, in cambio del passaggio di Nizza e della Savoia alla Francia, Cavour accettò di tornare al governo.
Il Meridione fu conquistato con una nuova iniziativa democratica, la spedizione dei Mille.
Partito da Quarto di Genova la notte tra il 5 e il 6 maggio del 1860 con un migliaio di volontari, Garibaldi conquistò in due mesi la Sicilia, di cui a Salemi si proclamò dittatore in nome di Vittorio Emanuele II. Quando Garibaldi sbarcò in Calabria e risalì verso Napoli, Cavour, temendo che l’iniziativa tornasse nelle mani dei democratici, concordò col re l’intervento dell’esercito piemontese.
Così, mentre Garibaldi sconfiggeva definitivamente i Borbone sul Volturno, il generale Cialdini batteva le truppe pontificie a Castelfidardo, annettendo al Regno sardo anche le Marche e l’Umbria. Vittorio Emanuele e Garibaldi si incontrarono a Teano, presso Caserta, dove l’eroe popolare dimostrò la sua lealtà al re consegnandogli il Mezzogiorno.
Il 17 marzo 1861 il Parlamento di Torino proclamò la nascita del Regno d’Italia.
L’ideale risorgimentale dell’unità nazionale era stato raggiunto, col contributo sia dei moderati, sia dei democratici, anche se il risultato finale premiava soprattutto la strategia di Cavour. Per completare l’opera, mancavano la conquista di Roma e del Triveneto. Il Veneto fu annesso con la Terza guerra d’indipendenza (1866), Roma nel 1870. Trento e Trieste rimasero sotto l’Austria fino al 1918.