zen Forma di buddhismo giapponese, derivata nel 12°-13° sec. dalla scuola cinese Chan. Lo z. riduce la tecnica ascetica alla sola meditazione (zen), che peraltro non deve concentrarsi su alcun oggetto, per quanto elevato esso sia (neanche la stessa Illuminazione può essere oggetto dello z.). Il modo usuale è la seduta di meditazione (zazen); la percezione dell’identità tra il vuoto e il meditante, che è la realizzazione soterica dello z., si ha in una illuminazione improvvisa, il satori, corrispondente al cinese Wu (➔). Al divieto di concentrazione su contenuti individuali corrisponde peraltro la possibilità di far uso dei kō-an (cin. gong’an), cioè «quesiti» privi di senso e perciò incapaci di legare il pensiero a un ordine logico. Lo z. è quindi non insegnabile: il maestro z. è un punto di riferimento che l’iniziando ha presente nel corso di un lungo noviziato; di fatto tutto il processo comincia nel discepolo e si attua interamente nel suo spirito.
La filosofia z. connotò sensibilmente l’opera e l’attività di monaci-pittori o di artisti giapponesi, dal 15° sec. alla metà del 16° (come Jasoku, Josetsu, Sesshu, Sesson, Shubun), e prima ancora cinesi tra il 10° e il 13° sec. (Liang Kai, Mu Qi). La pittura z. manifestò in seguito grande vitalità unita a una profonda ricerca di conoscenza nell’opera dei pittori della ‘scuola’ Zenga, attivi tra il 17° e il 19° secolo. Tra loro emergono Niten, noto anche come Musashi Miyamoto (1584-1645), appartenente alla classe dei Samurai, scultore, calligrafo, forgiatore di metalli e maestro di spada; Hakuin Ekaku (1685-1768), monaco e famoso abate, la personalità più importante dello z. dal punto di vista spirituale oltre che da quello artistico; Sengai Gibon (1750-1837), creatore di folgoranti immagini spesso caratterizzate da una sottile vena ironica.