Commediografo (Venezia 1707 - Parigi 1793). Mostrò assai presto una viva inclinazione per il teatro, componendo verso i nove anni una commediola e prediligendo nelle sue letture gli autori comici. Nel 1719 seguì il padre, medico, a Perugia, ove studiò 3 anni nel collegio dei gesuiti. Poi il padre passò a Chioggia e lasciò Carlo a Rimini a studiare filosofia; ma il giovanetto tornò presto a casa al seguito di una compagnia di comici (1721). Nel 1723 fu messo a Pavia nel collegio Ghislieri per proseguire gli studî legali; ma nel terzo anno fu cacciato dal collegio per una satira contro le ragazze pavesi, Il colosso; si laureò solo nel 1731, a Padova, dopo aver occupato l'ufficio di coadiutore della Cancelleria criminale a Chioggia e a Feltre. In attesa di clienti, scrisse un almanacco satirico e un melodramma (Amalasunta, 1732), che poi bruciò. Dopo altre occupazioni e peregrinazioni in Lombardia e in Emilia, incontrò a Verona la compagnia veneziana del teatro di San Samuele, diretta da G. Imer, col quale tornò a Venezia, impegnandosi a scrivere per i teatri di proprietà del patrizio Michele Grimani. Del 1734 è il suo primo trionfo scenico, col dramma popolare Belisario, cui seguirono altre mediocri tragicommedie di soggetto popolare in endecasillabi, mentre nelle farse per musica che le accompagnavano, e in alcuni "intermezzi" da lui in quegli anni composti, cominciava a manifestarsi l'acutezza del suo spirito di osservazione. Nel 1736, trovandosi a Genova, s'innamorò di Nicoletta Connio, giovane figlia di un notaio, e la sposò: fu un matrimonio felice, anche se senza figli. Del 1738 è Mòmolo cortesan, di cui scrisse soltanto la parte del protagonista: era il primo passo verso quella riforma del teatro, che egli vagheggiava, e che tendeva a sostituire commedie "di carattere" e di ambiente ai canovacci, spesso solo buffoneschi, della decaduta commedia dell'arte. Dal 1741 al 1743 ebbe anche l'incarico di console della repubblica di Genova a Venezia, ch'egli disimpegnò con molta cura, ma che lo ingolfò in molte noie e spese, senza alcun compenso. Al 1743 appartengono il dramma giocoso La contessina, una pungente rappresentazione dell'albagia di certa nobiltà, e La donna di garbo, la prima commedia che scrisse interamente, nella quale, se vivi ancora sono gli artifici della commedia dell'arte, la figura della protagonista ha già una certa umana vitalità. Afflitto da debiti e ingannato nella buona fede, fu costretto nello stesso anno a lasciare Venezia e ad andar vagando qua e là, finché, accolto festosamente a Pisa, dove fu fatto pastore d'Arcadia col nome di Polisseno Fegeio, s'indusse a esercitarvi dal 1745 al 1748 la professione di avvocato: anni felici che più tardi rimpianse. Ma di quegli anni è anche la celebre commedia Il servitore di due padroni, scritta per il famoso Truffaldino, G. A. Sacco. Nel 1748 non seppe resistere agli inviti del capocomico G. Medebach, o, per dir meglio, alla sua vocazione; tornato a Venezia, si diede tutto al teatro. Il 26 dic. di quello stesso anno cominciava, al teatro Sant'Angelo, la serie dei suoi trionfi con La vedova scaltra; cui seguirono, tra il 1748 e il 1753, alcune delle sue più note e felici commedie (Il cavaliere e la dama, La famiglia dell'antiquario, Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, Il bugiardo, I pettegolezzi delle donne, La moglie saggia, Le donne gelose, Le donne curiose, La serva amorosa, La locandiera). Al 1750 risale la ben nota promessa, poi mantenuta, di scrivere in un anno sedici commedie nuove. Nel 1753, separatosi da Medebach, firmò un nuovo contratto con A. Vendramin, proprietario del teatro di San Luca. Medebach, divenutogli apertamente nemico, assunse per il Sant'Angelo l'abate P. Chiari, che fin dal 1749 faceva rappresentare, con successo, al teatro San Samuele, drammi raffazzonati da romanzi francesi e inglesi, e commedie veneziane che rubacchiava a G. col pretesto di correggerle. Si formarono allora due partiti teatrali, dei chiaristi e dei goldonisti; e G., per accontentare il pubblico, fu costretto per qualche tempo, con sua grande amarezza, a ricercare continue e bizzarre novità, nelle commedie storiche e in quelle orientali (Terenzio, Torquato Tasso, Il filosofo inglese, Il medico olandese, La dalmatina, La bella selvaggia, La peruviana, La sposa persiana, ecc.: quest'ultima specialmente applaudita); ma ogni carnevale G. portava sul palcoscenico una commedia veneziana. E in quel mondo pittoresco dei gondolieri, delle lavandaie, dei "paroni di tartana", delle "massère" (serve di casa), delle rivendugliole, delle "rampignone" (donne che risparmiano), dei merciai, si dispiega sovrana l'arte di G.: ricordiamo alcune mirabili scene delle Massere, delle Donne de casa soa e del Campiello. Ormai la gloria di G. era assicurata: le edizioni delle sue commedie si esaurivano rapidamente; si cominciava a tradurlo e recitarlo anche all'estero; riconoscimenti gli venivano da principi e letterati italiani. Ma non erano cessate per lui le lotte e le amarezze. Nel 1757 C. Gozzi, e per estrosità di carattere e per amore del passato, sorse contro Chiari e G. con l'almanacco satirico La tartana degl'influssi per l'anno bisestile 1756, accusandoli di essere cattivi scrittori e autori di testi immorali. Nel nov. del 1758, su invito dell'impresario del teatro di Tordinona, G. si recò a Roma; ma dopo 7 mesi tornò deluso in patria. E qui tra la fine del 1759 e il febbraio del 1762, malgrado la lotta dei suoi nemici, con inesauribile ricchezza di vena continuò a creare altre commedie famose e alcuni capolavori (Gl'innamorati, I rusteghi, Un curioso accidente, la trilogia della Villeggiatura, La casa nuova, Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte). Decise di lasciare Venezia nell'aprile del 1762 per Parigi, dove era stato chiamato per sollevare con nuove produzioni le sorti del teatro della Comédie-Italienne, che andava decadendo. Ma anche lì dovette lottare con i comici che non volevano imparare le commedie scritte e col pubblico affezionato al gioco buffonesco delle maschere, onde fu costretto a scrivere per lo più degli scenarî. Liberatosi da questo impegno, G. ottenne l'incarico di insegnante di lingua italiana della figlia di Luigi XV, e poi delle sorelle di Luigi XVI. Ne ricavò una modesta pensione. Nel 1771 fece recitare alla Comédie-Française Le bourru bienfaisant, ch'ebbe notevolissimo successo. Ma soffriva di varî acciacchi, era quasi cieco, e la pensione appena gli bastava. E anche questa gli fu tolta nel 1792; ammalatosi, morì nella miseria. Solo il giorno dopo la sua morte un decreto della Convenzione, su proposta di J.-M. Chénier, gli restituiva, troppo tardi, la pensione. Le sue ossa andarono disperse. ▭ Nell'opera riformatrice di G. riconosciamo la presenza di una gioconda fantasia e di un sicuro istinto teatrale, ma nella sua arte si riflettono gli echi della profonda crisi che travaglia la civiltà settecentesca, sia che egli metta in scena le consuetudini e i contrasti delle diverse classi sociali, sia che tragga ispirazione dalla vita della sua Venezia e dai costumi del suo popolo laborioso e "civil", ma anche amante delle burle e dei divertimenti. Scrisse più di 200 tra commedie, tragedie, tragicommedie, intermezzi, melodrammi (musicati da Galuppi, Piccinni, Paisiello, Mozart, Haydn, Sacchini, ecc.), ma la sua gloria è legata solo alle commedie. Importanti però sono anche i suoi Mémoires, che cominciò a scrivere nel 1784 e compì e pubblicò nel 1787, uno dei più piacevoli libri del sec. 18°. ▭ La personalità e l'ambiente di G. attorno al 1749-50 furono abilmente rievocati da P. Ferrari nella commedia, divenuta presto popolare, G. e le sue sedici commedie nuove (1852).