Nell’ambito della processo penale rappresenta il limite al sindacato del giudice d’appello che, nei casi in cui l’appellante sia l’imputato, non può riformare la sentenza di primo grado con una pena o una misura peggiore di quella applicata in precedenza. Espressione del più ampio principio del favor rei, tale divieto è previsto e disciplinato dal 3 co. dell’art. 597 c.p.p. secondo cui il giudice «non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici». Egli può solo dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado. Il divieto di reformatio in peius non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione; non concerne, invece, le disposizioni civili della condanna di primo grado, in caso di conferma della sentenza appellata, né impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza obbligatorie ex lege. Le Sezioni Unite penali della Corte di cassazione (sent. n. 40910/2005) hanno stabilito che «il divieto di riformatio in peius investe anche i singoli elementi che compongono la pena complessiva e riguarda non solo il risultato finale di essa, ma tutti gli elementi del calcolo relativo». I giudici hanno precisato, inoltre, che la disposizione contenuta nel 4 co. dell’art. 597 c.p.p. individua «come elementi autonomi, pur nell’ambito della pena complessiva, sia gli aumenti o le diminuzioni apportati alla pena base per le circostanze, sia l’aumento conseguente al riconoscimento del vincolo della continuazione». La giurisprudenza è pacificamente orientata nel senso di applicare tale divieto solo al dispositivo, e non alla motivazione, che può essere, quindi, argomentata anche in senso peggiorativo dal giudice di secondo grado.
Appello. Diritto processuale penale