ETIOPIA (A. T., 116-117)
Il nome classico di Etiopia (dal gr. αἰϑίοψ "che ha la faccia bruciata" da αἴϑω "brucio" e ὄψ "faccia"; toponimo: gr. Αἰϑιοπία[χώρα], lat. Aethiopia [regio]) che già serviva a indicare tutta la parte del continente africano a sud dell'Egitto e in senso più largo anche tutta l'Africa orientale, è usato oggi a distinguere ufficialmente il grande impero (Mangesta Ityopyā) che, nato in tempi antichissimi, ha saputo, attraverso lotte e vicende varie, mantenere l'autonomia e l'indipendenza ed estendere il suo dominio su tanta parte delle regioni meridionali le quali geograficamente e storicamente ne rimarrebbero escluse.
Sommario: Estensione e limiti (p. 459); Esplorazione (p. 459); Geologia (p. 461); Costituzione fisica (p. 462); Clima (p. 462); Ideografia (p. 463); Flora e vegetazione (p. 464); Fauna (p. 465); Dati statistici sulla popolazione (p. 465); Suddivisioni storiche e amministrative (p. 466); Prodotti del suolo, agricoltura, allevamento pesca, prodotti minerarî (p. 466); Industria, commercio, monete (p. 466); Vie di comunicazione (p. 467); Densità della popolazione e centri abitati (p. 467). - Ordinamento dello stato: Ordinamento politico (p. 468); Ordinamento giudiziario (p. 469); Culti (p. 469); Esercito (p. 470). - Storia (p. 470); Relazioni politiche e culturali con l'Italia (p. 473). - Etnologia: Abissini (p. 474); Le altre popolazioni dell'Etiopia (p. 475). - Lingue (p. 476). - Letteratura: Letteratura etiopica (p. 477); Letteratura amarica (p. 479). - Arte (p. 479). - La chiesa di Etiopia: Cenno storico (p. 480); Credenze, culto, gerarchie, clero, chiese (p. 483).
Estensione e limiti. - Regolari trattati internazionali conclusi in questi ultimi decennî con le potenze europee dominatrici sui territorî contermini (Italia, Francia, Inghilterra) ne hanno definito quasi esattamente in buona parte i confini. Per quanto riguarda il confine eritreo-etiopico, che va da Ombrega sul Setit sino a Daddato, in Dancalia, a 60 km. dalla costa del Mar Rosso, punto ove convergono i confini della Somalia Francese, si rimanda a quanto ne è detto alla voce eritrea. Il confine con la Somalia Francese venne, per il trattato franco-etiopico del 20 marzo 1897, stabilito convenzionalmente con una linea che circuisce a 100 km. di distanza la baia di Tagiura. Il confine con la Somalia Britannica fu stabilito con la convenzione di Addis Abeba (Addis Ababā) del 14 maggio 1897; quello con la Somalia Italiana fu fissato convenzionalmente dal trattato del 16 maggio 1908, con una linea che, partendo da Dolo alla confluenza del Daua (Dawa) con il Ganale (Giuba), raggiunge l'Uebi Scebeli al punto di confine con la tribù dei Baddi Addi (Bādi ‛Addä) che resta all'Italia, mentre il territorio delle tribù a monte di quella dei Baddi Addi resta alle dipendenze dell'Etiopia. Oltre l'Uebi Scebeli la frontiera si dirige a nord-est sino a raggiungere la intersezione della frontiera italiana con quella inglese. Questo confine, indicato alquanto vagamente in base a divisioni etniche, non è stato peraltro mai delimitato sul terreno. Quanto al confine angloetiopico da Ombrega sul Setit sino al Lago Rodolfo, che divide l'Etiopia dal Sudan Anglo-Egiziano, e dal Lago Rodolfo sino alla confluenza del Daua con il Ganale, che la divide dalla Colonia del Kenya, esso fu determinato da trattati del 1902 e 1907; per quanto la delimitazione del confine sul terreno, iniziata dalla parte della Colonia del Kenya dalla missione Gwynn, non abbia dato risultati ufficialmente definitivi per l'Etiopia. Entro questi confini, non ovunque esattamente determinati, l'area dell'Etiopia si può ritenere ascenda a circa 1.100.000 kmq.
Esplorazione. - Prescindendo dalle noti2ie incerte e confuse che dell'Etiopia si ebbero nell'antichità e che del resto si limitarono alla regione costiera del regno aksumita, si può dire che nel Medioevo le prime informazioni furono quelle che da fonte indiretta ce ne riferì Marco Polo. Missionarî e mercanti italiani frequentarono il paese certo prima del secolo XV e, sulla fede delle informazioni loro e di quelle fornite da Abissini venuti in Italia, dovettero essere delineate una carta dell'Etiopia fatta a Firenze intorno al 1450 e inserita in alcuni codici della Geografia di Tolomeo, e la rappresentazione contenuta nel celebre mappamondo di fra Mauro, cosmografo della Repubblica veneta (1465; v. sotto: Relazioni politiche e culturali con l'Italia). L'Etiopia cristiana e governata da un imperatore cristiano era ormai identificata col leggendario paese del Prete Gianni. Quando pertanto il re Giovanni II di Portogallo volle entrare in relazione con questo sovrano per averne appoggio alle imprese commerciali che intendeva compiere in Oriente, inviò nel 1482 a ricercarlo una apposita missione affidandola a Pedro da Covilham e Affonso de Paiva. Dopo varie vicende, morto quest'ultimo, poté il Covilhão penetrare per la via di Zeila (Zayla) nel paese del misterioso imperatore, che lo accolse benevolmente, gli fu prodigo di appoggi e di favori, senza peraltro più concedergli di ritornare in patria. Trent'anni dopo il suo arrivo lo ritrovò in Etiopia la grande spedizione portoghese condotta da don Rodrigo de Lima (1520-26), le cui vicende ci furono narrate da Francisco Alvares. La sua relazione, che può considerarsi, dopo le relazioni precedenti degli Italiani, la prima diffusa descrizione dell'Etiopia, fu per buona parte inspirata alle informazioni fornite dal Covilhão, cui il soggiorno nel paese aveva dato modo di apprenderne la lingua e di conoscerne i costumi. Sembrava che alla missione di don Rodrigo dovesse toccare una sorte eguale a quella del Covilhão; ma a determinarne la partenza valsero il pericolo dell'incursione musulmana condotta da Ahmad Grāñ e il bisogno d'invocare l'aiuto portoghese, che fu vittoriosamente apportato dall'eroica squadra comandata da Cristoforo da Gama (v. gama, Christovam da). Abbattuta la potenza del Grāñ e ridonate all'Etiopia la sicurezza e l'indipendenza, si attivarono con i liberatori portoghesi quelle relazioni di amicizia e di soggezione che dovevano poi condurre, per l'intolleranza religiosa dei missionarî, alla cacciata dei Portoghesi (1632). Si ebbe così per tutto il periodo in cui durò l'influenza portoghese una serie di relazioni stese dai missionarî medesimi che riconobbero il paese, ne studiarono le condizioni fisiche, sociali ed economiche, ne appresero i linguaggi, ne ricostruirono, con il sussidio delle cronache locali, la storia. I nomi del padre Gaspare Páez (morto nel 1622), che nel 1603 visitò il Lago Tana (Ṭānā) e le sorgenti dell'Abai (Abbāy); del padre Girolamo Lobo, che rimase in Etiopia sino all'espulsione percorrendola in ogni senso e ne scrisse un'ampia opera storica e descrittiva; del padre Manoel d'Almeida, che si spinse sino al Lago Zuai (Zwāy) precorrendo di secoli i moderni viaggiatori; del padre Antonio Fernández, che negli anni 1613-1614 tentò invano di raggiungere la costa di Malindi, attraversando gl'ignoti paesi del sud etiopico; quello del padre Manoel Barradas, che negli anni 1624-33 visse nel Tigrè (Tĭgrē, Tĭgray) lasciandocene un'accuratissima descrizione, sono intimamente legati, insieme con quello dell'Alvares, alla storia delle prime ricognizioni geografiche della regione e delle sue prime rappresentazioni cartografiche. Tutte queste relazioni, particolarmente quella del padre Lobo, ebbero larga diffusione in Europa e furono tradotte nelle principali lingue europee. Lo stesso si può dire della Historia Aethiopica di Job Ludolf (1681), che, informato da un monaco abissino di S. Stefano dei Mori a Roma, ci diede l'opera, per i suoi tempi, più completa intorno all'Etiopia. Espulsi i Portoghesi, le relazioni con l'Europa s'interruppero in modo quasi assoluto. Per il sec. XVII sono ancora da ricordare la relazione di un viaggio che vi avrebbe fatto un gentiluomo italiano, Giacomo Baratti (v.), e della quale si conoscono solo le traduzioni inglese (1650) e tedesca (1676) entrambe rarissime; e quella del medico savoiardo Ch.-Jacques Poncet, che penetrò in Abissinia per la via del Sennar (Sennār) in compagnia del padre Saverio da Benevento (1697) e fu a Gondar chiamatovi da quel negus. Per il sec. XVIII, sorvolando su altre relazioni minori, ricordiamo per la sua ampiezza e importanza e soprattutto per la sua grande diffusione e l'interesse che destò, quella che ci dette il medico scozzese James Bruce (v.), il quale, penetrato in Abissinia per la via di Massaua nel settembre 1769, fu ad Adua (‛Adwā) e a Gondar e rimase in Abissinia sino al 1773, visitando il Lago Tana e le sorgenti dell'Abai, pretese di aver scoperto le sorgenti del Nilo, scoperte già dal P. Poez nel 1603, percorrendo in vario senso il paese. Dopo il viaggio del Bruce l'Abissinia fu meta di numerose spedizioni che, in genere a scopo geografico e scientifico, ma altresì con intenti politici ed economici, vennero organizzate da viaggiatori di ogni nazionalità, ma specialmente inglesi, francesi e tedeschi e più tardi italiani, russi, americani, svizzeri, spagnoli, i quali con le loro opere hanno arricchito le nostre conoscenze su questo vasto e interessante paese. Questi, giova peraltro avvertire, per quasi tutto il secolo XIX si limitarono all'Abissinia; con qualche limitata incursione 1iei territorî più meridionali inclusi oggi nei limiti politici dell'Impero; territorî che solo negli ultimi anni del secolo cominciarono a essere attraversati dagl'itinerarî dei viaggiatori e a essere riconosciuti, geograficamente, almeno nelle loro linee generali. Limitandoci ad accennare alle esplorazioni più fruttifere dal punto di vista delle conoscenze geografiche e cartografiche, ricorderemo anzitutto, secondo l'ordine cronologico, i viaggi del console inglese Henry Salt, compiuti negli anni 1806 e 1809-1810: il secondo di essi è specialmente notevole per le informazioni raccolte e riferite sui paesi dell'Etiopia settentrionale sino al Takkazè (Takkazē) che il Salt - impossibilitato a spingersi sino a Gondar - diligentemente perlustrò e descrisse. Ancora più fruttifera l'esplorazione del tedesco Eduard Rüppel, compiuta negli anni 1831-1833: egli, provenendo sempre da Massaua, si spinse sino a Gondar e al Lago Tana eseguendo determinazioni astronomiche su cui fondò la costruzione della carta che correda la sua relazione (Francoforte s. M. 1838-40). Di minore interesse scientifico, per vuanto estesa a un campo più vasto, quella dei francesi Edmond Combes e Maurice Tamisier, che da Massaua attraversarono negli anni 1835-37 tutta l'Abissinia sino allo Scioa (Šawā) e ai paesi Galla (Parigi 1838). Molto interessanti invece, anche per il nuovo itinerario seguito, il viaggio e la relazione di C.-E.-X. Rochet d'Hericourt, che fu per due volte allo Scioa (1839-40 e 1843) partendo da Tagiura e compiendovi determinazioni topografiche e osservazioni geologiche (Parigi 1841 e 1846). Per la via di Tagiura penetrò pure nell'Etiopia dandoci le prime notizie della depressione del Lago d'Assal, l'inglese Ch. T. Beke (v.), che tra gli anni 1840 e 1844 rimase in Etiopia, percorrendo specialmente lo Scioa e il Goggiam (Goğğām) e facendo quindi ritorno per Massaua. Dello stesso tempo è pure la grande spedizione scientifica, condotta dall'ufficiale della marina francese Ch.-Th. Lefebvre, che, penetrato in Abissinia nel 1839 per la via di Massaua, vi rimase sino al 1843, percorrendola in ogni senso e riportandone ampia messe di studî topografici, fisici e naturalistici (Parigi 1848). Ma un posto eminente nella storia dell'esplorazione dell'Etiopia spetta all'opera dell'astronomo francese Antoine d'Abbadie (v.), che col fratello Arnaud fu in Etiopia tra gli anni 1838-1848 e da solo, con le proprie osservazioni astronomiche e trigonometriche, gettò le basi per la costruzione di una carta geodetica della regione, compiendo un lavoro che non ha forse riscontro nella storia della geografia. Nello stesso periodo sono anche da ricordare i viaggi dei missionarî inglesi Ch. W. Isenberg e J. L. Krapf, che fra le altre loro fruttifere esplorazioni nell'Africa orientale furono anche nello Scioa, dal 1839 al 1842; quello di R. Burton (v.), che, primo Europeo, penetrò nella città di Harar fino ad allora misteriosa; quello del francese Guillaume Lejan, console francese a Massaua, che tra il 1862 e il 1864, inviato in missione dal suo governo presso re Teodoro, fu a Gondar e nel Goggiam, riportandone ampî materiali di osservazione, raccolti in un'opera pubblicata postuma nel 1873. La campagna inglese contro Teodoro fruttò, oltre la Magdala Collection del British Museum (v. magdala), varie pubblicazioni d'interesse scientifico per la regione attraversata dalla spedizione; fra le quali, la relazione ufficiale (Record of the expedition to Abyssinia, Londra 1870), e quella del geografo C. R. Markham (A history of the Abyssinian Expedition, Londra 1869) ricca di carte, di piani, di osservazioni metereologiche, ecc. Dopo la scomparsa di Teodoro, che per qualche tempo aveva interrotto i rapporti del mondo europeo con l'Abissinia, questi ripresero con fervore, specialmente nella regione meridionale, dove il consolidamento e l'estensione verso sud della sovranità del re dello Scioa prometteva più vasto e nuovo campo d'azione. Ricordiamo prima di tutto la grande spedizione ai Laghi Equatoriali organizzata dalla Società geografica italiana su consiglio di mons. Massaia (v.), sino dal 1842 stabilito nella regione: spedizione che si svolse negli anni 1876 e 1880 sotto il comando di O. Antinori (v.) e che, nonostante le dolorose vicende subite e la morte di G. Chiarini (v.) e del P. Leone des Avanchers, portò, con la relazione del cap. A. Cecchi (v.), un contributo di alto valore alla conoscenza dei paesi meridionali dell'Etiopia. Quasi contemporanea è la missione presso il negus Giovanni del tedesco W. Rohlfs, accompagnato dal dott. Stecker, rimasto in Abissinia sino al luglio 1883. Si deve a quest'ultimo un regolare rilevamento del Lago Tana e itinerarî e ricognizioni varie nella regione sorgentifera del Hawash (Ḥawāš) al Lago Zuai, nei Wollo Galla e nell'alta valle del Golima, sui monti del Semien intorno ai quali, per la morte precoce del viaggiatore, si hanno peraltro limitate notizie.
Negli anni 1882-1883 si compirono i viaggi a scopo commerciale del francese Paulo Soleillet nel paese Galla sino a Caffa (Kafā), quello non prima tentato del conte P. Antonelli (v.) da Assab (‛Asab) allo Scioa attraverso l'Aussa, mentre con il tentativo di penetrazione nell'Ogaden partendo dall'Harar di Pietro Sacconi, tragicamente concluso (12 ȧgosto 1883), s'inizia la ricognizione della Somalia interna, destinata a entrare nell'orbita del dominio abissino. L'occupazione dell'Harar da parte del re dello Scioa (1887) e l'estendersi successivo della conquista nei territorî meridionali, dànno occasione a nuove e fruttifere imprese che ne arricchiscono la geografia. Il conte Antonelli e il dott. Traversi, seguendo Menelik (Menilek) visitano il Lago Zuai e la regione sorgentifera dell'Uabi (Uebi Scebeli); il dott. Vincenzo Ragazzi riconosce la linea di displuvio fra questo fiume, e il Hawash; il francese Jules Borelli, da Obok penetrato nello Scioa, si spinge fino a Caffa, dove dopo il D'Abbadie e il Massaia (cacciatone nel 1853) nessuno più era penetrato, e raggiunge l'alta valle dell'Omo. Negli anni 1892-g3 la spedizione di Vittorio Bottego esplora tutto il corso superiore del Giuba e dei suoi principali affluenti e nel biennio successivo l'italiano Eugenio Ruspoli, tragicamente perito in un accidente di caccia il 14 dicembre 1893, e l'americano Donaldson Smith, ne integrano le scoperte con gl'itinerarî nuovi da Berbera al Lago Rodolfo, appoggiati a regolari determinazioni astronomiche e trigonometriche. Dall'ottobre 1895 al luglio 1897 si svolge la seconda spedizione Bottego (nella quale il Bottego stesso e il dott. Sacchi dovevano lasciare la vita), che scopre il Lago Margherita e risolve il problema del corso dell'Omo defluente nel Lago Rodolfo, colmando una vasta lacuna nella cartografia sud-etiopica per la regione tra il Lago Zuai e il Lago Stefania. Nel 1897 la spedizione francese De Bonchamps partita da Addis Abeba incontro alla spedizione Marchand, riconosce il corso del fiume Baro affluente del Sobat; l'anno seguente il russo Bulatovič esplora la regione montana più a ovest dell'itinerario segnato dal Bottego, tra il bacino dell'Omo e quello del Sobat; nel 1899-900 una seconda spedizione Donaldson Smith, partendo da Berbera e seguendo in parte l'itinerario già prima tenuto, si spinge al Lago Rodolfo, penetrando quindi nella regione dell'Alto Nilo. A breve distanza si seguono nella stessa regione le grandi e fruttifere spedizioni del francese P. du Bourg de Bozas (v.) e del tedesco barone von Erlanger (v.) e successivamente quella degli austriaci F. G. Bieber e A. Mylius (1905), la quale, per quanto avesse scopi economici, fruttò la costruzione di una bella carta al 250.000 della regione compresa tra Addis Abeba, la Didessa e il medio Omo; quella dello svizzero Montandon (1909-11) nel paese di Ghimira, la quale, oltre alle copiose osservazioni etnografiche, ci diede pure un itinerario a 1:750.000 regolarmente rilevato; quella di E. Cerulli nel Gimma e nel Caffa sino alla frontiera sudanese e finalmente la grande spedizione del Duca degli Abruzzi (1928-1929), alla quale dobbiamo il regolare rilevamento di tutto il corso dell'Uabi (Uebi Scebeli). È da ricordare inoltre la Deutsche Aksum Expedition che, diretta da E. Littmann, compì nell'Etiopia settentrionale fondamentali ricerche storiche, archeologiche ed etnografiche, pubblicandone nel 1913 i risultati. Tra le spedizioni nella Etiopia propria vanno ancora menzionati i viaggi dell'americano O. Crosby (1900) e dell'inglese H. W. Blundel (1905) e del francese Hugues le Roux (1901), che rettificarono il corso dell'Abai, e quello molto interessante e fruttifero di risultati della missione francese J. Duchesne-Fournet (v.; 1901-03). Finalmente sono da ricordare le operazioni eseguite sul terreno per il tracciamento del confine occidentale e meridionale dell'Etiopia con il Sudan AngloEgiziano e del confine meridionale con la Somalia Italiana; operazioni che, eseguite con l'appoggio di regolari determinazioni astronomiche e trigonometriche, costituiscono dei contributi di notevole valore dal punto di vista cartografico e geografico. Intorno alle prime, eseguite negli anni 1899-1901, si hanno le relazioni dei maggiori H. H. Austin e C. W. Gwynn (Geogr. Journ., XVII e XVIII, Londra 1910) e sulle seconde, quelle del colonnello C. Citerni (v.) nel suo volume Ai confini meridionali dell'Etiopia, Roma 1912. E così diciamo per gli studî tecnici compiuti per l'utilizzazione del Lago Tana, che hanno pure fruttato determinazioni che interessano la cartografia etiopica. Nell'ultimo mezzo secolo si contano ancora numerose relazioni di viaggi, le quali, se poco aggiunsero a ciò che già si sapeva sulla regione dal punto di vista strettamente geografico, valsero tuttavia a illustrarne le condizioni presenti. Ricordiamo fra le italiane per i tempi più recenti, quelle del Rava, dell'Annaratone e del De Castro citate (v. Bibliografia). Finalmente in questi ultimi anni sono da ricordare le esplorazioni compiute nella zona etiopica della depressione dancala, che rimaneva una delle regioni meno conosciute dell'Africa orientale e dove si svolsero i viaggi delle spedizioni Nesbitt (1928) e Franchetti (1929).
Geologia. - Le formazioni geologiche che costituiscono il suolo dell'Etiopia sono le seguenti: 1. L'imbasamento di rocce cristalline arcaiche (graniti, sieniti, gneiss e filladi) notevolmente ripiegate e affioranti in una fascia alle falde orientali dell'altipiano del Tigrè, dell'Amhara (Amḥārā, Amārā), del Goggiam fin verso i confini dello Scioa. Più largamente queste rocce si estendono sul versante occidentale, specialmente nel Walleggà (Wållaggā) (dove contengono notevoli concentrazioni di quarzo aurifero) dalle pianure risalendo entro le valli che solcano l'altipiano, come quelle del Setit-Takkazè e dell'Abai. Altri estesi affioramenti si osservano nell'estremo sud etiopico, a S. del Lago Margherita, tra la foce dell'Omo e l'alto Daua. 2. Le "arenarie di Adigrat", così denominate dalla città omonima, nel Tigrè. Sono depositi litorali o continentali, formati a spese del sottostante zoccolo cristallino e rappresentati da arenarie quarzose talora micaiee rosse, gialle, brune o variegate, che per la loro giacitura si considerano equivalenti al Triassico e forse in parte al Liassico. Riposano orizzontali sugli scisti cristallini sia ad Adigrat e nell'alto bacino del Takkazè, sia nella valle dell'Abai, sia (a quanto pare) nella valle del Hawash (Ḥawāsh). 3. I "calcari di Antalo (Ḥenṭālo)", contenenti una ricca fauna giurassica marina, riposano alla loro volta sulle arenarie in una grande placca nei dintorni di Macallè (Maqalē, nel Tigrè), e tornano ad affiorare nella stessa posizione sui due fianchi opposti della valle dell'Abai, sul versante settentrionale dell'altipiano di Harar e poi largamente nel fondo delle valli che da questo scendono verso l'Uebi Scebeli e il Giuba nella Somalia Etiopica. 4. Le "arenarie superiori" di Antalo e dell'Abai, del resto poco note, rappresentano forse il Cretacico inferiore: certe arenarie cretacee affiorano nell'altipiano degli Arussi, dove sono associate a depositi calcarei marini nei monti Gillett e presso Abunas (Abunās). 5. I calcari cretacei con fossili marini dell'Aptiano, forse anche del Barremiano, affiorano sull'altipiano degli Arussi ad Abunas e inoltre nella valle del medio Uebi Scebeli, tra Faf e Barri e negli Sciaveli. 6. Il Terziario non è rappresentato da depositi marini entro i confini dell'Etiopia, salvo forse nella parte etiopica dell'altipiano della Somalia (vedi ogaden), dove è possibile si estendano i depositi eocenici affioranti nella finitima Somalia Britannica. Al Terziario recente e al Quaternario debbono ascriversi i depositi di gesso e sale, che orlano internamente la depressione dancala, sfruttati a Dallol anche per il loro contenuto in sali di potassio, come pure certi depositi lacustri attorno ai laghi Galla, nell'Etiopia meridionale. Anche a N. del Lago Rodolfo e nella valle dell'Omo furono trovati strati con resti di mammiferi attribuibili al Pliocene: Elephas e Dinotherium, associati a Ippopotami e Coccodrilli. Pliocenici e quaternarî sono parimenti, almeno in parte, i depositi continentali lateritici, ecc. che ricoprono per larghi tratti l'altipiano, e i travertini delle sorgenti. 7. Le formazioni vulcaniche sono largamente estese in Etiopia e vengono generalmente distinte in due serie: la serie trappica, costituita di doleriti e basalti con dicchi liparitici e intercalazioni di tufi e brecce, rimonta probabilmente al Cretacico e al Terziario antico, e forma il grande tavolato abissino, sia nel Tigrè (Adua), sia nell'Amhara, dove tocca nel Semien le massime altezze di tutta la regione, sia nello Scioa, sia infine nell'Etiopia sud-occidentale (Caffa) e negli altipiani di Harar, dei Galamo, Sidama, M. di Laggio, ecc. La "serie di Aden" è formata di basalti e trachiti di età pliocenica e pleistocenica, intercalati alle rocce sedimentarie del bassopiano eritreo, e collegati con numerosi apparati vulcanici ben conservati, e in parte ancora attivi o appena quiescenti. Tra i più notevoli sono l'Afdera nel Birù, attivo a quanto pare nel 1907, il Dofane, l'Erta-alè, il Dabita e l'Aielù nella media valle del Hawash, il Fantallè a E. e lo Zuqualà (Zequalā; m. 2920) a S. di Addis Abeba, con cratere-lago, e tanti altri. Queste formazioni vulcaniche recenti o recentissime occupano quasi per intero la Dancalia meridionale, la valle del Hawash, la zona dei laghi Galla, ricongiungendosi così alle regioni vulcaniche del Lago Rodolfo e a quelle della grande fossa della Colonia del Kenya. Con il vulcanismo sono collegate le numerose sorgenti termali e certi depositi di zolfo del bassopiano dancalo, sfruttati dagl'indigeni.
Questa attività vulcanica, anche recente e recentissima, è da porsi in relazione con la tettonica del paese, la quale risulterebbe principalmente da sistemi di fratture: uno di questi, con direzione N.-S., avrebbe determinato la formazione della scarpata orientale dell'altipiano e la grande fossa dancala; l'altro, diretto ENE.-OSO., quella della scarpata dell'Harar: dal punto di convergenza dei due sistemi, che coincide con il solco del Hawash, le fratture procedono parallele con direzione NE.-SO., ingenerando le depressioni chiuse dei laghi Galla, fino all'estremo N. del Lago Rodolfo, dove ha inizio la grande fossa di sprofondamento dell'Africa orientale (v. africa: Geologia).
Costituzione fisica. - L'Etiopia è ben lungi dal costituire una regione naturale. Nel suo vastissimo territorio di forma irregolare e bizzarra, si possono però introdurre alcune principali divisioni territoriali, determinate essenzialmente dalla tettonica. Un'amplissima regione montuosa, o meglio un altipiano molto elevato e reso in parte molto accidentato dall'erosione di una fitta rete idrografica, occupa tutta la parte occidentale, e cioè l'Abissinia propriamente detta, con il Tigrè, l'Amhara, il Goggiam, e lo Scioa, e le regioni Galla occidentali, con il Guma (Gumā), il Limmu o Ennarea (Ennāryā), il Gimma (Ǧimmā), il Caffa, e il Ghimira (Gimirā). Questo altipiano abissino-caffino, formato essenzialmente da un grande tavolato di rocce vulcaniche della serie trappica, su imbasamento di rocce sedimentarie mesozoiche e cristalline arcaiche, tocca le massime elevazioni conosciute sul suo margine orientale, dove è limitato bruscamente da una scarpata di frattura, che sovrasta la Dancalia, la valle del Hawash e le conche dei laghi Galla, declina invece dolcemente verso O., cioè verso il Sudan, ove scende a quote di 400 m. circa nella valle del Dinder e in quella del Baro, a m. 407 a S., sulle sponde del Lago Rodolfo, e a 518 al Lago Stefania. Il tavolato è scisso in quattro grandi settori: il settore del Tigrè, fra il Mareb e il medio Takkazè, raggiunge con il M. Asimba, presso il confine eritreo, m. 3145, e più a S. nella regione di Macallè m. 3235; il settore dell'Amhara e del Goggiam, fra il medio Takkazè e il medio Abai, o più precisamente fra il parallelo di Macallè e quello di Ancober (Ankobar), tocca sul ciglione orientale m. 3411 ad Amba Alagi, 4196 con l'Abuna Iosef (Abuna Yosēf) non lungi da Lalibalà (Lālibalā) e 4000 m. con l'Abuya Miedà; ma le massime elevazioni di questo settore e di tutto l'altipiano sono un po' in dentro, nel gruppo del Semien (Ras Dascian, m. 4620) a NE. di Gondar (v. semien) e nei gruppi vicini: M. Guna (m. 4250) presso Dabra Tabor, Amba Farit (metri 3975) presso Dessiè (Dassē), M. Ciokkè a S. del Lago Tana (m. 4154); il settore dello Scioa volge a semicerchio verso SO. e ha quote minori, sempre verso il margine: Tedda Mariam (Magazag) presso Ancober (m. 3603), Addis Alem (Addis ‛Ālam) presso Addis Abeba (metri 3345), M. Dendi (m. 3210); finalmente il settore meridionale o settore Caffa-Ciamo è scisso da numerose e profonde valli in un dedalo di gruppi montuosi, tra cui ricorderemo i M. Botor nell'Ennarea (m. 2920), il M. Scialla presso Girèn nel Gimma (m. 2945), il M. Hoda nel Limmu (m. 932), i monti Magi (Māži; m. 2438). Tra la valle dell'Omo e le conche dei laghi Galla corre una serie di rilievi che si allineano in direzione NNE.-SSO., con il ciglione di Ancober: sono i M. dei Guraghie (Gurāgē) e il M. Muggo, i M. dei Soddo superanti i 3000 metri e i M. Gughe a O. del Lago Regina Margherita e del Lago Ciamo, ai quali si attribuiscono 4200 m. di altezza. La serie di depressioni in cui si annidano il medio corso del Hawash e i laghi Galla, unisce, più che non divida, l'altipiano abissino e caffino e il tavolato somalo, che lo fronteggia a SE. Al contrario del precedente, questo presenta una ripida scarpata a scaglioni, volta a NO., e un dolce e regolare pendio che dalla cresta di quella scende a SE., fino a sommergersi nell'Oceano Indiano. Le massime elevazioni di questo tavolato somalo si trovano al solito lungo il ciglione, e sono i M. dei Giam-Giam nell'alto Daua, con quote di oltre 3000 m., i M. dei Sidamo (Sidāmō; M. Guramba, m. 3367), i M. Cilalo (m. 3655), Kubsa (Qubsā; metri 3680), Cacca (Kakkā; m. 3820) e Galamo nell'Alto Uabi, i M. di Laggio nel Bāli sulla destra di questo fiume; i Fagogi (m. 3256) e i monti del Ciallanko presso Harar (m. 2569), dopo di che il crinale continua a O. in territorio inglese. I punti più bassi in questa regione orientale sono Dolo sul Giuba (m. 221) e Buslei sull'Uebi Scebeli (m. 216).
La vasta zona, depressa e arida, che è limitata a O. dalla scarpata dell'altipiano abissino, a S. da quella dell'altipiano hararino, a E. dal confine dell'Eritrea, della Somalia Francese e della Somalia Britannica, costituisce la terza delle grandi regioni etiopiche e prende il nome di Dancalia o Afar (v. dancalia). Si tratta di una successione di grandi bacini chiusi, occupati da laghi salati e dai loro depositi gessosi e salini, spesso al disotto del livello del mare (Alel Bad, −120 m.; L. Afreda, −140 m.), altemantisi con coni e colate vulcaniche della serie di Aden, in parte già ricordati.
Clima. - Le condizioni climatiche di un paese così vario e così poco conosciuto come l'Etiopia, sono ben difficili da riassumere. Attraversato in pieno dall'equatore termico, il paese ha medie annue molto elevate, bilanciate in parte dalle altitudini elevate a cui si spinge con i suoi altipiani: il bassopiano della Dancalia è però uno dei paesi più caldi e più aridi del mondo, la media del luglio - che è il mese più caldo - superandovi i 35°, con escursione annua di 10°-15° ed escursione diurna limitata. Questa invece è assai forte sugli altipiani. Le piogge sono estive in tutto il territorio, scarsissime o quasi nulle nella pianura della Dancalia, scarse (250-500 mm.) alle falde degli altipiani; più abbondanti (500-1000 mm.) sulle pendici, sia orientali sia occidentali, degli altipiani, nel Tigrè e nella parte alta dell'altipiano somalo; copiose (1000-2000 mm.) sull'altipiano abissino e sugli altipiani del Caffa. A Bahrdar Ghiorghis (Bāḥr-dār Giyorgis) sul Lago Tana, nell'ultima di queste zone, furono osservate temperature medie mensili variabili tra 14°0,9 (gennaio) e 22°,1 (aprile): si accenna così a un massimo annuo primaverile (come sull'altipiano eritreo), la temperatura estiva essendo abbassata dalle piogge. Queste caddero da maggio-giugno a ottobre-novembre, con un massimo di 475 mm. in luglio e un totale annuo di 1287 mm.: l'umidità relativa media variò da 84 (agosto) a 31 (aprile).
Idrografia. - L'elevato massiccio etiopico dà origine a un gran numero di corsi d'acqua, tra cui si noverano tutti i maggiori fiumi di questa parte dell'Africa. Una parte delle acque tende a E. verso l'Oceano Indiano, altre scendono a O. verso il Nilo e quindi al Mediterraneo; altre ancora volgono a E. o a S. e si disperdono nelle sabbie o finiscono entro bacini lacustri, privi di comunicazione con il mare. Al bacino dell'Oceano Indiano appartengono i fiumi dell'altipiano somalo, che nascono tutti in territorio etiopico e sfociano al mare (o si perdono) nella Somalia Italiana: sono l'Uabi o Uebi Scebeli con i suoi affluenti e i tre fiumi, Web, Ganale e Daua, dalla cui confluenza ha origine il Giuba. Al bacino del Nilo appartengono: 1. il Mareb (v. gasc′), che segna per breve tratto il confine fra Etiopia ed Eritrea; 2. il Takkazè, che nasce nel gruppo dell'Abuna Iosef sul margine orientale dell'altipiano amhara, e drena direttamente o per mezzo dei suoi affluenti i massicci montuosi più elevati di tutta l'Etiopia: il Semien, i M. di Macallè e di Adigrat (Torrente Geva) e la conca di Adua (Torrente Weri) formando un grande arco di cerchio convesso a N.: con il nome di Setit segna per un tratto il confine con l'Eritrea. Takkazè e Mareb sono affluenti dell'Atbara (v.), che nasce con diversi rami (uno dei quali è l'Angareb) nei M. dei Wollo Galla, al margine occidentale dell'altipiano, e dopo breve percorso penetra in territorio sudanese presso Gallabat: la portata media annua è di 11.300 milioni di mc. 4. l'Abai (Abbāy) o Nilo Azzurro (v. abai) trae origine dall'estremità meridionale del Lago Tana, con una portata media di 3600 milioni di mc. all'anno: volge prima a SE., poi, con una grandiosa curva, a SO., e finalmente a NO., separando il Goggiam dallo Scioa e ricevendo dai due lati numerosi affluenti montani, tra cui specialmente notevole il Didessa (Ḍiḍḍēssā) che nasce nei M. del Guma. L'Abai esce dal territorio etiopico presso Fazogli (v. nilo): la sua portata media annua nel Sudan è di 47.900 milioni di mc. Anche il Sobat, affluente del Nilo Bianco, trae origine dalle pendici occidentali degli altipiani galla: dei suoi rami principali, il Birbir nasce nel Walleggà, il Baro nasce nei monti del Caffa e traversa Gambela, mentre l'Akobo sgorga dai Monti dei Magi e segna per buon tratto il confine tra l'Etiopia e il Sudan.
I corsi d'acqua dei bacini interni orientali e meridionali aumentano d'importanza da N. a S., in ragione della crescente piovosità e della maggiore ampiezza degl'impluvî. Sono 1. il Kalkal, che dai monti di Adigrat scende all'Endeli e con questo segna un tratto del confine eritreo; 2. l'Erebti e il Dergaha, che da Macallè e da Amba Alagi volgono insieme verso il Piano del Sale (Alel bad); 3. il Golima, che nasce nel gruppo dell'Abuna Iosef, non lungi dalle sorgenti del Takkazè, e va a perdersi nella depressione dancala; 4. il Hawash, che trae origine a SO. di Addis Abeba e drena con i numerosi affluenti del suo alto corso le pendici dello Scioa e quelle dei Guraghie: dopo un tratto di circa 150 km. in direzione di SE., volge bruscamente a NE., sposando la direzione della grande fossa di sprofondamento e correndo nell'ampia depressione fra la scarpata degli Itu Galla e quella di Ancober: va a morire nell'Aussa, presso il confine della Somalia Francese, dopo aver perduto per evaporazione e mancanza di nuovi alimenti tutte le sue acque. Nel Lago Zuai (Dembel; m. 1846) sboccano: 5. il Mukki, che scende dai Monti dei Guraghie; 6. il Katara, proveniente dai Cilalo e Galamo; il lago Hora comunica con il precedente ma ha acque salate; il lago Sciala o Lamina (m. 1567), pure salato, è alimentato da piccoli torrenti; il Lago Regina Margherita (Abbaya; m. 1285) e il lago Ciamo (m. 1050) che comunica con esso, ricevono da N.: 7. il Bilattè; 8. il Ghidabo, e hanno ambedue acqua dolce. Il Lago Stefania (m. 518), salmastro, riceve da N.: 9. il Galana Sagan, che trae origine dai monti degli Amhara Burgi. Ma il corso d'acqua più importante di questo settore meridionale è l'Omo: 10. l'Omo prende inizio nella depressione fra le pendici meridionali dello Scioa e quelle settentrionali del Leka (Lieqā) e dell'Ennarea, e riceve subito da S. le acque delle pendici occidentali del Guraghie; corre poi per buon tratto con direzione N.-S., ricevendo da O. il Gibè (Gibē) e il Gogeb; devia poscia a SO., quindi nuovamente a S. fino a sboccare con vasto delta paludoso all'estremità settentrionale del Lago Rodolfo (m. 407).
Abbiamo così ricordato tutti i principali laghi Galla; questi si allineano rigorosamente da NNE. a SSO. nella regione compresa fra la scarpata dei due altipiani, che si fronteggiano, tra l'8° e il 5° lat. N. Il lago Rodolfo, che si trova con il suo estremo settentrionale su questo stesso allineamento, ha però una direzione N.-S.; esso è del resto quasi per intero fuori del territorio etiopico. Restano ora da ricordare alcuni altri laghi: nel bel mezzo dell'altipiano abissino, fra l'Amhara e il Goggiam, è il più importante di tutti, il Lago Tana (m. 1760). Press'a poco piriforme, questo misura circa 70 km. di diametro e 3000 kmq. di area, e ha una profondità variabile fra 30 e 70 m. e una capacità totale di 14.550 milioni di mc. La sua origine è dovuta a sbarramento della valle per opera di una grande colata lavica, e sarebbe relativamente recente (circa 5000-10.000 anni). Esistono due isole: Dek (Dag) e Degà Istefanos (Daqqa Estēfānos). L'acqua verdastra per copioso contenuto di diatomee e di detriti derivanti dalla vegetazione di papiri e di erbe che ingombrano le sponde, è assai pura e perfettamente insapora (v. tana). Immissarî principali sono il Gumara e il Reb, da E.; unico emissario l'Abai (v. nilo). Scarsa importanza hanno il lago Ascianghi (Ašāngi) nell'Amhara e i laghi Haik (Ḥayq) e Ardibbo presso Dessiè. Degli stagni salati della Dancalia (Alel Bad -120 m., Afreda -140 m.) già si è fatto menzione; per il lago Assal v. questa voce.
Flora e vegetazione. - Gli abitanti dell'altipiano abissino distinguono nel loro paese, sotto il punto di vista della vegetazione e delle colture, tre zone altimetriche: Quollà (quollā) o zona inferiore (600-1500 m. s.m.), Woina Degà (wayna dagā) zona intermedia (1800-2200 e anche 2500 m. s. m.) e Dega (dagā) o zona superiore (al disopra di 2500); divisione che, da Schimper in poi, è stata adottata da tutti i botanici viaggiatori, perché risponde a una condizione di cose facilmente riconoscibile sul terreno. Esistono inoltre differenze floristiche abbastanza notevoli fra la porzione settentrionale e la meridionale dell'altipiano etiopico e fra i versanti rispettivamente rivolti verso il Mar Rosso e verso il bacino del Nilo (cfr. per l'Abissinia settentrionale e per il versante orientale la voce eritrea).
Il Quollà presenta una vegetazione di boschi xerofili, di formazioni di parco e di savane. Parecchie specie di Ficus, il tamarindo (Tamarindus indica) e un bambù (Oxytenanthera abyssinica) caratterizzano, verso il loro limite inferiore, questi consorzî forestali ed erbacei molto varî nella loro composizione floristica, ma che presentano il carattere biologico comune di un periodo di riposo corrispondente alla stagione più asciutta. Durante questa fase molte specie arboree perdono le foglie o hanno la chioma completamente disseccata; la fioritura s'inizia spesso bruscamente, coincidendo con le prime piogge e precedendo o accompagnando la ricomparsa della chioma Altro carattere di questi boschi è la scarsità di liane succulente e, verso il limite superiore della zona, lo spesseggiare di due acacie (A. Lahai, A. glaucophylla) e la comparsa della Musa ensete, della caratteristica parassita Hydnora Iohannis e di alcune orchidee epifite appartenenti ai generi Polystachya e Angraecum.
Il Woina Degà si distingue, non soltanto dal Quollà, ma anche dal Degb, per la floridezza e la varietà della sua vegetazione dovuta per una parte a un clima relativamente mite e poco variabile (difficilmente supera i 25° e raramente scende sotto i 12°,5), per altra parte all'interferirvi dei periodi piovosi dell'altipiano e del litorale, cosicché nessun mese è assolutamente privo di precipitazioni. Siccome poi anche le condizioni edafiche vi sono più variate che non nelle altre due zone, la vegetazione vi assume un aspetto assai vario, per l'alternarsi di boscaglie e di savane con la vegetazione xerofila dei pendii esposti a una forte insolazione e ricoperti da un terreno asciutto e poco profondo o francamente rupestri, per la comparsa delle prime praterie e finalmente per la presenza di stazioni rivulari e stagnali permanenti. Del resto è già nel Woina Degà che s'iniziano le foreste montane a fisionomia uniforme per lo scarso numero di specie arboree dominanti (Iuniperus procera, Podocarpus gracilior, Olea chrysophylla), malgrado la flora arbustacea ed erbacea ancora assai ricca, che si spingono poi nel Degà sino a 3500 m. s. m. La caratteristica fisionomia dell'altipiano non è però data dalle foreste, ma dai pascoli pianeggianti, più o meno intercalati da boscaglie con l'accentuarsi delle ondulazioni del terreno o lo scavarsi di profonde forre torrentizie, e che hanno presentato certamente in condizioni originarie il carattere di alte savane per la generale diffusione dell'Acacia abysamica; oggi completamente disalberati, sterminate pianure rivestite dalla prateria o dalla steppa a seconda delle condizioni del terreno. I boschi accennati occupano ancora, benché diminuiti, il pendio delle elevazioni vulcaniche isolate o le pareti dei valloni lungo i quali le acque del Degà scendono a confluire coi corsi d'acqua maggiori o a perdersi nelle zone desertiche inferiori. Oltre l'acacia sono ancora da citarsi, come caratteristiche di questa zona, la nota Euphorbia abyssinica (Kulkual) e il cusso (Hagenia abyssinica) conservato, a cagione del largo uso che la popolazione fa delle sue infiorescenze come tenifugo, specialmente in vicinanza delle abitazioni.
Quando gli apparati vulcanici, più o meno smantellati, s'innalzano a quote superiori ai 3500 m. è possibile distinguervi una particolare vegetazione cacuminale, della quale fanno parte l'Erica arborea, costituente caratteristiche boscaglie al disopra del limite delle foreste, e la grande Lobelia rhynchopetala (3600-4500 m. s. m.), interessantissimo relitto della flora paleoafricana, strettamente affine ad altre specie diffuse nella porzione più elevata delle montagne dell'Africa centrale.
Alla vegetazione dell'Abissinia meridionale si connette, per affinità floristiche ed ecologiche, quella dell'Harar e dell'altipiano Galla, dipendenti anche politicamente dall'impero etiopico. Sui pendii che, dall'altipiano hararino scendono ripidamente verso le steppe della Dancalia meridionale, si ripetono le imponenti foreste di Podocarpus, Iuniperus, Olea già accennate e oggi purtroppo ridotte, anche qui, a lembi molto degradati, a favore delle savane e delle magre colture. Le savane predominano poi assolutamente nel distretto Galla, assumendovi tuttavia una floridezza che deve attribuirsi all'abbondanza delle acque superficiali. Le acacie vi sono rappresentate da numerose specie e da boscaglie della singolare Dichrostachys nutans e intercalate da grandi esemplari di Ficus vasta; la savana passa spesso a formazioni di parco e a densi boschi a galleria lungo i fiumi o i margini dei laghi. Sono notevoli per questo distretto le boscaglie di un particolare bambù (Arundinaria alpina).
Fauna. - L'Etiopia, ricchissima per numero di specie, appartiene faunisticamente alla sottoregione est-africana della grande regione etiopica (v. africa), e per quanto abbia scarsi elementi caratteristici, è una delle più rappresentative di tutte le faune africane. La fauna dell'Etiopia, oltre a specie proprie, comprende un certo numero di elementi paleartici. Numerose le scimmie che popolano i luogni rocciosi e le sponde dei fiumi dove vivono riunite in branchi: così il Guereza (gurēzā; Colobus guereza), il Gelada (Theropithecus gelada) che abita il sud dell'Etiopia, l'Amadriade (Papio hamadryas) che vive nelle regioni rocciose, varî cercopiteci, alcune proscimmie. Tra i Pipistrelli sono da notare le rossette (Pteropodidne); numerosi gl'Insettivori con curiose forme quali i Macroscelis dalle lunghe zampe, e i potamogali, ottimi nuotatori dalla coda piatta; molti anche i Rosicanti fra i quali diversi scoiattoli e il caratteristico Eterocefalo dalla pelle nuda (Heterocephalus glaber). Fra i Carnivori il leone, il leopardo, le iene, i proteli, le viverre, gli sciacalli, ecc. Numerosissimi i branchi di antilopi tra le quali le caratteristiche antilopi vacche (Bubalis), gli gnu (Connochaetes), gli oreotraghi (Oreotragus). Gazzelle, zebre, elefanti, bufali, rinoceronti, facoceri, giraffe, ecc., completano il quadro di questa lussureggiante fauna mammologica africana. Gli Uccelli comprendono aquile, avvoltoi, falchi, poiane, cuculi, il caratteristico serpentario, svariati pappagalli (Psittacidae), struzzi. Fra i Rettili, varie forme di grandi lucertole (Agama), camaleonti, pitoni, serpenti velenosi, coccodrilli. Particolari specie di rane tra gli Anfibî e numerosi i pesci d'acqua dolce. Gl'Insetti sono rappresentati da innumerevoli specie dalle svariate forme e dai colori meravigliosi; notevoli le termiti e le loro costruzioni (termitai).
Dati statistici sulla popolazione. - Intorno alla popolazione dello Impero Etiopico si posseggono solo dati assai incerti e valutazioni largamente approssimate, che la fanno variare fra i 6 e i 12 milioni. Di questi circa un terzo sarebbero Abissini più o meno puri; 4 milioni sarebbero Galla e un milione Somali; il resto si comporrebbe di elementi varî: Arabi, Negri, Ebrei, ecc. Ma a più forte ragione tutti questi dati distintivi si debbono intendere come semplici indicazioni, soggette d'altronde a considerevoli discordanze. Nessun dato, neppure largamente approssimativo, si possiede circa il movimento della popolazione per nascite, morti, emigrazioni e neppure sull'incremento che la popolazione stessa poté subire nei tempi moderni.
Rimandando a quanto si dirà in seguito sulle origini e le caratteristiche antropologiche, etniche e linguistiche e sulla religione, aggiungeremo solo che nei riguardi di quest'ultima, pur essendo la religione cristiana monofisita quella praticata dalla grandissima maggioranza degli Abissini puri, l'infiltrazione musulmana nel centro dell'Impero e specialmente nella regione dell'Harar e nei territorî meridionali di recente annessione è stata larghissima, senza che si abbiano tuttavia dati in proposito, come non si hanno dati circa il numero delle popolazioni che praticano culti pagani. Si calcola a 50.000 il numero degl'indigeni di religione giudaica, detti Falascià (Falāšā), viventi in piccoli gruppi fra il Lago Tana e il Semien. Poco si sa della loro origine storica, intorno alla quale furono formulate disparate congetture. Le loro credenze e i loro riti particolari hanno di recente attirata su di loro l'attenzione di correligionarî e di studiosi (v. falascià). Minore è il numero dei cattolici, frutto delle missioni che dopo il 1840 esercitano il loro apostolato in Etiopia.
Suddivisioni storiche e amministrative. - Lo stato etiopico, prima delle annessioni compiute specialmente negli ultimi decennî, comprendeva quattro grandi regioni geografiche e storiche che rappresentarono anche delle grandi circoscrizioni politico-amministrative, ma che oggi conservano solo un valore tradizionale. Esse sono: il Tigrè (o Tigrai) a nord, l'Amhara al centro, il Goggiam e lo Scioa rispettivamente a SO. e a SE. queste divisioni principali vanno aggiunte altre divisioni minori, che in alcuni tempi ebbero una grande importanza politica nei riguardi dell'impero stesso. Tali l'alpestre regione del Lasta, a sud del Tigrè proprio, che pare sia giunta ad esercitare una vera supremazia su tutto l'impero quando fu la sede dei negus della dinastia Zaguè nei secoli XIIXIV (vedi appresso), e così quella ancora più aspra del Semien a NO. del Lasta, riunita definitivamente all'impero verso il sec. XVI, i cui abitanti, Falascià (v. sopra), dovettero sostenere fiere lotte contro gli Abissini. L'Amhara si estende a nord del Lago Tana, tra il confine sudanese e il Lasta, e fu per vario tempo il cuore della regione, onde con il nome di Amhara usano designarsi gli Abissini cristiani di qualsiasi origine. Nel territorio di Dambib (Dambiyā), a 37 km. a nord del Lago Tana, nel sec. XVII divenne capitale la città di Gondar (posta a 2270 m. s. m.), che fu per due secoli la metropoli dell'impero. A oriente del lago, tra questo e il Lasta, si distende il Baghiemeder (Bagēmeder) territorio bene irrigato dai numerosi affluenti del Tana e perciò ferace e ricco: capoluogo del Baghiemeder è Samara o Dabra Tabor, ove il negus Giovanni stabilì la sua residenza.
Il Goggiam è la vasta regione recinta dal corso dell'Abbai o Nilo Azzurro, dal 1879 al 1901 costituita in un regno autonomo che ha per capoluogo Dabra Marcos (Dabra Mārqos; Monkorer). Lo Scioa è il vasto reame limitato a sud dal corso del Hawash, divenuto con l'avvento al trono imperiale di Menelik (1889) il cuore dello stato. Oltre a queste divisioni tradizionali sono da ricordare la regione dell'Harar conquistata nel 1887 e quindi tutti i territorî meridionali che si distendono dal Sobat al Lago Rodolfo e al medio corso del Giuba sino all'incontro dell'8° parallelo con il 47° meridiano, abitati da Galla, Somali, Sidama, ecc., le cui vicende negli ultimi secoli ne variarono grandemente l'assetto e che oggi sono divenuti tutti dipendenze dell'impero. Queste divisioni e questi aggruppamenti sono più o meno mantenuti nelle divisioni territoriali politico-amministrative, che del resto non hanno carattere di stabilità. Le regioni principali dell'impero sono le seguenti. Procedendo da nord si ha prima il Tigrè, con capoluoghi Adua e Macallè; quindi verso ovest le regioni di Wolkait (Wålqāyṭ) e Woldebbà (Wåldebbā) con capoluogo Masfinto; la provincia di Gondar; il Goggiam, comprendente anche i tre territorî dell'Agaumeder, di Gubba e di Damot (Dāmot); il territorio dei Wollo Galla sul margine orientale dell'altipiano fra il Tigrè e lo Scioa, corrispondente al territorio ove dopo il sec. XVI si stanziò principalmente l'immigrazione dei Wollo Galla, con capoluogo Dessiè; lo Scioa, posto sotto l'amministrazione diretta dell'impero; l'Harar, feudo di famiglia dell'attuale negus e amministrato direttamente da lui.
I territorî più occidentali di recente aggregazione sono il regno di Gimma Abbagifar e il territorio di confine dei Beni Sciangul; in parte sono ordinate in provincie di varia estensione, rette da governatori abissini, quali l'antico regno di Caffa (capitale Anderaccia), la provincia di Walleggà a ovest che ha per capoluogo Saio e la provincia di Liequā che ha per capoluogo Nekemti (Laqamtē), quella di Ilu Bābor (capitale Gore), dei Guraghie, degli Arussi, dei Bāli (capitale Gobba), la regione di Sidamo, ecc.
Prodotti del suolo, agricoltura, allevamento, pesca, prodotti minerarî. - L'Etiopia è un paese prevalentemente agricolo e pastorale. La coltivazione dei cereali, specialmente quella dell'orzo, del sorgo, del miglio, del mais e, in proporzione minore, del frumento, viene praticata con mezzi rudimentali dagl'indigeni nella regione dell'altipiano, ma in misura limitata al consumo familiare di ogni coltivatore, e solo in parte è oggetto di un commercio interno. Nei territorî meno elevati del sud e nelle adiacenze del Lago Tana si coltivano piante tropicali, quali il caffè, i cui prodotti sono anche oggetto d'esportazione. Coltivazioni di caffè sono state intraprese di nuovo nei territorî del sud (specialmente da piantatori belgi), dove il prezioso arbusto cresce anche spontaneo e forma in taluni luoghi delle vere foreste. Ma più che dall'agricoltura le risorse naturali del paese allo stato attuale sono costituite dall'allevamento del bestiame, sia bovino sia ovino, praticato in larga misura in tutta la regione.
Le ricchezze del sottosuolo rimangono ancora in gran parte inesplorate. Varie concessioni per le relative ricerche furono accordate a imprese europee, di cui solo alcune sfruttate, per l'escavazione dei minerali di platino, come a Jubdo (Yubdō) sul fiume Birbir, e di potassa (Dancalia sett.). Lo sfruttamento delle miniere d'oro del Walleggà praticato già alcuni anni addietro, pare in decadenza. Importanza notevole ha la raccolta del sale nelle saline naturali che si formano nella depressione dancala.
Industria, commercio, monete. - L'industria, di assaí scarsa importanza, si limita alla concia e lavorazione del cuoio, alla tessitura casalinga del cotone, alla lavorazione del ferro per armi e utensili di prima necessità, a quella dell'argento, specie in filigrana, vi si adopiera quello monetato dei talleri di Maria Teresa, alla fabbricazione di poche stoviglie, ecc.
Data la limitata produzione, gli scarsi bisogni della popolazione e le difficoltà dei mezzi di comunicazione, il commercio è tuttora di poca importanza. Quello interno si concentra in mercati che periodicamente si tengono in determinati luoghi ove convergono carovane da parti diverse dell'impero portando i prodotti locali che scambiano specialmente con il sale e con prodotti dell'industria europea. Addis Abeba è considerato il mercato principale, ove si ritiene affluiscano alcune decine di migliaia di persone. Sono altresì mercati molto frequentati quelli di Gondar, di Sokota (Saqoṭā), di Dessiè.
Intorno al traffico esterno non si hanno notizie né precise né sicure. Dalle informazioni raccolte esso avrebbe raggiunto nel 1928 il valore di 928 milioni e si sarebbe sviluppato in ragione dell'80% per la via di Gibuti, del 15,3% per l'Eritrea, del 2,9% per il Sudan, dell'1,2% per la Somalia Britannica e del 0,5% per la Somalia Italiana. Il traffico esterno si esercita quindi principalmente per la via di Gibuti. Una parte non trascurabile prende la via di Massaua e una parte quella del Sudan Anglo-Egiziano, usufruendo della concessione accordata dal governo etiopico agl'Inglesi nella stazione di Gambela sul fiume Baro (Sobat), dove per alcuni mesi si può attivare la navigazione fluviale. Si avverte negli ultimi anni una tendenza all'aumento nelle importazioni dei prodotti manufatti e una diminuzione o per lo meno una stazionarietà nelle esportazioni. Queste si limitano al caffè, alle pelli e alla cera. I mercati di assorbimento dell'esportazione etiopica sono l'Inghilterra, la Germania, la Francia, il Belgio, l'Italia, l'Olanda, la Cecoslovacchia. Le importazioni per l'Italia, rappresentate per la quasi totalità dalle pelli, mostrarono nel 1928 un sensibile aumento rispetto al 1927 (da 584 mila lire salirono a oltre due milioni e mezzo). Fra i generi importati tengono il primo posto le cotonate, fornite in larga misura dal Giappone, dal Belgio, dall'America e in parte anche dall'Italia. Questa importa specialmente cappelli, macchinarî, automobili, filati e tessuti di seta artificiale. Un prodotto d'importazione è il sale, che nell'Etiopia meridionale s'introduce per ferrovia dalle saline di Gibuti, mentre per l'Etiopia centrale proviene dal Piano del Sale nella depressione dancala, dove il monopolio della raccolta e del traffico è esercitato dalle locali popolazioni musulmane. Il sale viene trasportato per mezzo di cammelli e di muli sull'altipiano e distribuito sui diversi mercati ove serve anche come moneta-mercanzia. La pesca, che si esercita nel lago Tana e nei minori bacini lacustri sparsi in tutta la regione, come pure nei fiumi, viene in limitata misura praticata dalle popolazioni rivierasche per il loro consumo interno, senza però dar luogo a un commercio di scambdi qualche entità.
La moneta in uso costante in Etiopia è ancora il tallero di Maria Teresa, scudo d'argento al titolo di 833,66, del diametro di millimetri 39,5 e del peso di grammi 28,0668, recante la data del 1780, che sino alla metà dello scorso secolo fu la moneta più largamente usata nei varî paesi dell'oriente. Nel 1897 (anno 1889 dell'era abissina) l'imperatore Menelik fece coniare a Parigi un tallero con la propria effigie e varie monete divisionarie (1/2, 1/4, 1/8, 1/16 di tallero); e successivamente altri talleri furono pure coniati nel 1918 a Roma (tallero eritreo) cercandosi d'introdurme l'uso, senza però riuscire a sostituire l'antica moneta austriaca, di più largo riconoscimento. Il suo valore oscilla secondo il valore dell'argento (circa lire 4,50 nel 1930). Invece, le monete divisionarie recanti l'effigie di Menelik sono entrate dovunque in uso, ma hanno un cambio proprio, che spesso è indipendente da quello del tallero di Maria Teresa. Si annuuzia essere intendimento dell'attuale imperatore di stabilizzare il valore della moneta etiopica nel tipo aureo.
Vie di comunicazione. - L'Etiopia, si può dire, manca su tutta la sua estensione di vere e proprie strade, ma le comunicazioni interne sono assicurate da una rete di sentieri formati naturalmente dal costante passaggio dell'uomo e delle cavalcature, senza che nessuna opera d'arte sia intervenuta a migliorarne il tracciato e a renderlo atto per veicoli. Solo in questi ultimi anni è stata costruita dalla capitale ad Addis Alem una camionabile di circa 50 km.; e un'altra è stata costruita nella valle del Baro (Sobat) tra Bure e Gambela. Una sola ferrovia attraversa l'Etiopia: quella che parte dal porto francese di Gibuti e fa capo ad Addis Abeba. Questa ferrovia, costruita da una società francese, aperta al traffico sino alla stazione di Dire Daua (Dĭrrē Dāwā, Dirḍabo nell'Harar; 309 km.) nel 1903, proseguita sino alla capitale etiopica e compiuta nel 1915, ha uno sviluppo complessivo di 783 km., di cui 693 in territorio etiopico. I treni viaggiatori la percorrono 2 volte la settimana in ambedue i sensi; ma la potenzialità della linea per la sua costruzione è assai scarsa: con tutto ciò essa è capace, come fu detto, di assorbire i 4/5 del commercio internazionale dell'Abissinia.
Per una convenzione conclusa il 2 agosto 1928 fra l'Italia e l'Abissinia, questa autorizzò la costruzione, attraverso il territorio abissino, di una strada camionabile destinata a congiungere il mercato di Dessiè (capitale dei Wollo Galla) con Assab, nel cui porto fu concessa una zona franca all'Etiopia. Così l'Etiopia potrà avere un libero sbocco commerciale sul mare. Una rete telegrafica (3500 km.) congiunge l'Etiopia con l'Eritrea a nord, con la Somalia Francese a est e così una rete telefonica (2200 km.) mette in diretta comunicazione la capitale con le principali residenze dipendenti. Sono in corso i lavori per l'impianto di una potente stazione radiotelegrafica ad Addis Abeba e di altre nei centri minori dell'Etiopia; lavori tutti affidati alla società italiana Ansaldo.
Densità della popolazione e centri abitati. - L'incertezza che permane intorno al numero degli abitanti e alla loro diversa distribuzione territoriale rende molto difficile determinarne la densità regionale, tanto più che l'estrema facilità degli spostamenti vi apporta alterazioni continue. La popolazione dell'Etiopia, che trae prevalentemente dall'agricoltura e dall'allevamento i mezzi di sussistenza, vive di solito aggruppata in piccoli villaggi, fatti di capanne di pietra, di fango, di legni o di frasche, d'importanza varia per numero di abitanti, ma tutti - salvo qualche volta le chiese - egualmente privi di edifici che presentino un qualche carattere monumentale e che possano quindi in qualche modo richiamare l'immagine di una città di paesi civili. Non si può parlare per l'Etiopia di vere e proprie città, perché anche quelle, come Aksum e Gondar, che ebbero già un'importanza notevole come antiche capitali e che conservano ancora qualche vestigia della loro passata floridezza, appaiono oggi soltanto quali meschini villaggi. Ad Aksum, dove restano in piedi alcuni dei suoi antichi obelischi, ricordo del celebre regno aksumita, si assegna oggi una popolazione non superiore ai 3000 ab. A Gondar, di origine e sviluppo più recente, eretta o comunque accresciuta dal re Fasiladas (Fāsiladas) nel sec. XVI, gli avanzi grandiosi dei suoi antichi castelli e palazzi imperiali - costruzioni, di artefici portoghesi e forse anche italiani, vantate già per il loro splendore - non sono più che rovine e la popolazione della città da qualche decina di migliaia di abitanti, quanti ne annoverò nel periodo in cui fu la capitale dell'impero, ne conta oggi forse 5000, viveri, come in tutta l'Etiopia, in misere capanne. Solo l'Harar conserva entro il recinto delle sue antiche mura, quasi inalterato nonostante il sorgere di qualche costruzione europea e di tucul abissini, il suo carattere originario, con straducole anguste e tortuose fiancheggiate da case in muratura, e si distingue perciò da tutti gli altri centri etiopici. Quanto alla capitale Addis Abeba, sorta per volere di Menelik negli ultimi anni del secolo XIX, essa può considerarsi come un insieme di costruzioni varie, alcune delle quali di tipo europeo separate da aree coperte da boschi di eucaliptus, da giardini fioriti, da gruppi di capanne. Secondo dati più recenti, la sua popolazione, del resto assai fluttuante, si farebbe ascendere a 150.000 ab., dei quali 1500 europei. Un'importanza crescente va assumendo Gore, divenuta per le sue relazioni con Gambela e quindi con il Sudan, il più importante centro dell'Etiopia occidentale. Ma la trasformazione che, in questi ultimi tempi specialmente, si viene compiendo sempre più in Etiopia tendendo verso la civiltà europea influirà certo anche a trasformarne i centri abitati. Così Dire Daua, che fu per qualche tempo testa di linea della ferrovia di Gibuti, a 50 km. a NO. di Harar con 15.000 ab. ha un quartiere europeo. Numerosi poi in tutta l'Etiopia i luoghi sacri al culto e dove lo svilupparsi dei conventi e l'affluire dei pellegrinaggi ha determinato lo sviluppo di veri e proprî centri urbani. Di questi fra i più notevoli è Dabra Libānos nello Scioa a 90 km. a nord di Addis Abeba.
Bibl.: Una ricca ed esauriente bibliografia di tutta la regione etiopica (estendentesi perciò anche alle finitime colonie dell'Eritrea e della Somalia) ci è offerta da G. Fumagalli, Bibliografia etiopica, Milano 1893, la quale comprende tutte le pubblicazioni dall'invenzione della stampa sino al 1891. Un complemento per le pubblicazioni posteriori, è la bibliografia redatta da S. Zanutto di cui sono pubblicati a cura del Ministero delle colonie un primo fascicolo (Bibliogr. etiopica, I, Roma 1929) riguardante gli scritti bibliografici ed un secondo (op. cit., II, Roma 1932) sui manoscritti etiopici.
Per le pubblicazioni posteriori al 1901, indipendentemente dalle semplici relazioni di viaggio svolte specialmente nei territorî più meridionali e che trovano posto a loro luogo, citiamo: S. Vignéras, Une mission française en Abyssinie, Parigi 1897; Ch. Michel, Mission de Bonchamps. Vers Fachoda. À la rencontre de la mission Marchand à travers l'Éthiopie, Parigi 1900; A. S. Wilde, Modern Abysinia 1901, Londra 1901; G. Angoulvant e S. Vignéras, Djibouti, Mer Rouge, Abyssinie, Parigi 1902; Fr. J. Bieber, Das Hochland von Sudäthiopien, in Pet. Geogr. Mitt., LIV (1908); J. Duchesne-Fournet, Mission en Éthiopie (1901-1903), Parigi 1909; J. Faitlowitch, Quer durch Abissinien, Berlino 1910; C. Rossetti, Storia diplomatica dell'Etiopia durante il regno di Menelik, II, Torino 1910; E. Chiovenda, Osservazioni botaniche agrarie ed industriali fatte nell'Abissinia settentionale nell'anno 1909, Roma 1910; Deutsche Aksum-Expedition, Berlino 1913; C. Annaratone, In Abissinia, Roma 1914;; C. Citerni, Ai confini meridionali dell'Etiopia, Milano 1913; G. Montandon, Au pays Ghimirra. Récit de mon voyage à travers le massif éthiopien (1909-1911), Neuchât 1913; G. Negri, Appunti di una escursione botanica nell'Etiopia meridionale, Roma 1913; M. Rava, Al lago Tsana, Roma 1913; L. De Castro, Nella terra dei Negus, Milano 1915; G. K. Rein, Abessinien. Eine Landskunde nach Reisen und Studien in den Jahren 1907-1913, voll. 2, Berlino 1918-19; A. Pollera, Lo stato etiopico e la sua chiesa, Roma-Milano 1926; A. W. Hodson, Seven Years in Southern Abyssinia, Londra 1927; C. Conti-Rossini, L'Abissinia, Roma 1929; L. Nesbitt, La Dancalia esplorata, Firenze 1930; R. Franchetti, Nella Dancalia Etiopica, Milano 1930. - Per la cartografia si vedano i fogli interessanti la regione della Carta internazionale del mondo a un milionesimo e quelli alla scala 1 : 2.000.000 della Carta dell'Africa, pubblicata dallo Stato Maggiore Britannico di concerto con il Service Géographique de l'Armée di Parigi. - Sulla geologia v.: T. Taramelli e V. Bellio, Geografia e geologia dell'Africa, Milano 1890; G. Dainelli e O. Marinelli, Carta geologica della regione etiopica, Bergamo 1908; G. V. Grabham e R. P. Black, Report of the Mission to Lake Tana (1920-25), Cairo 1925; E. Krenkel, Abessomalien, in Handb. Reg. Geol., VII, Heidelberg 1926.
Ordinamento dello stato.
Ordinamento politico. - La monarchia etiopica ha a suo capo ereditario il negusa nagast. Questo titolo, che si suole oggi rendere nel protocollo con "imperatore", ebbe probabilmente origine quando nelle colonie sud-arabiche del litorale africano l'autorità di un principe si affermò sugli altri capi (nagāsh) dei singoli paesi, già semplici vicarî dei sovrani dell'opposta sponda araba. Questo principe, in quanto tale, assunse nello stesso periodo pagano del regno aksumita una figura di monarca assoluto con origini divine: "figlio del dio Maḥrem non vinto da nemico", imitazione anche questa di consuetudini sud-arabiche. Molti secoli dopo, cristianizzatosi il regno e fermatosi il potere nella dinastia salomonide, il negusa nagast - almeno da ‛Amda Ṣyon I (1314-1344 d. C.) in poi - s'intitola anche negusa Ṣyon "re di Sion" in quanto discendente da Salomone, titolo che poi venne ad aderire ai riti dell'incoronazione nella chiesa di S. Maria di Ṣyon in Aksum. Questo titolo di negusa Ṣyon è stato sostituito, dall'avvento al trono di Menelik II, dall'altro di seyuma Egz'abhēr "Eletto del Signore" e i riti dell'incoronazione si sono svolti in chiese dello Scioa (S. Maria di Entotto per Menelik II; S. Giorgio di Addis Abeba per Zauditu e Ḥāyla Sellāsē I e non più in Aksum).
L'Imperatore nomina i capi delle varie regioni; ha il supremo potere giudiziario; ha alla sua diretta dipendenza l'esercito della corona; ha infine la libera disponibilità del tesoro della Corona (oggi designato col nome di gemǧā bēt "casa di velluto") che è per lui amministrato da un tesoriere (baǧerond). La distinzione fra tesoro della Corona e patrimonio privato dell'imperatore è di questi ultimi anni.
I capi delle regioni, che hanno varî titoli (rās, daǧǧ-azmāč, ecc.), hanno nella loro regione la somma dei poteri civili, giudiziarî, finanziarî. L'imperatore può tuttavia, nell'atto di nomina, limitare qualcuno di questi poteri: ad esempio, può riservare a sé stesso o concedere al capo di una regione finitima il diritto di alta giustizia (qorāv̌ennat) su un determinato territorio. L'effettiva soggezione dei ras, ecc. alla Corona è più questione contingente di politica che di stabili ordinamenti.
La popolazione aveva in origine una differente situazione di diritto secondo che si trattava di genti abissine (e cioè autoctoni della parte settentrionale e centrale dell'altopiano assimilatisi alle immigrazioni sudarabiche e alle conseguenti invasioni dei re aksumiti e loro successori) oppure di colonie militari (v̌awā) inviate dagl'imperatori nelle terre di nuova conquista o di popolazioni di queste terre nuovamente sottomesse. Tale distinzione nel territorio della monarchia abissina a nord del Hawash e del Nilo Azzurro si andò perdendo sino alla fine del sec. XVI, anche perché le vicende della lotta contro i musulmani (v. sotto: Storia) richiesero spesso il concorso di tutti. Un editto del negus Za-Dengel (1623-1604) consacrò l'avvenuta assimilazione delle genti abissine. Solo recentemente la conquista dei paesi Galla, Sidama, ecc., dell'Ovest e del Sud Etiopico ad opera di Menelik II ha fatto ripristinare su vasta scala l'antico ordinamento e i corpi di truppe scioane hanno avuto assegnate famiglie delle genti allogene sottomesse costituendosi così di nuovo fra loro il vincolo tra v̌awā (colono militare) e gabbār (sottomesso obbligato a mantenere il soldato).
Ancora durante il regno di Menelik II e più dopo la sua morte il movimento modernizzante dei giovani etiopici (le giacchette nere" del gergo politico dei vecchi abissini) ha avuto importanti conseguenze nel campo costituzionale. Già Menelik II, nel 1907, aveva conferito il titolo di ministri (menistēr) ad alcuni dignitarî della sua corte, attribuendo loro la direzione di alcuni rami della amministrazione. Questa partizione dell'amministrazione centrale si è andata sviluppando e oggi gli ufficiali della Corona aventi titolo di ministro sono parecchi, pur non essendo essi presieduti da altri che dal Negus, il quale si è sempre riservata la trattazione diretta degli affari esteri (coadiuvato da un wānnā diraktar "direttore principale" e non da un ministro). Soltanto nel 1931, per la prima volta è stato nominato dal negus Ḥāyla Sellāsēun ministro degli Esteri.
Nel 1928, dopo la nomina a negus, Tafari aggravò in un editto l- sanzioni contro la schiavitù, dichiarata abolita sin dal 1905, e prescrisse la graduale trasformazione degli obblighi dei gabbār in giornate di lavoro obbligatorio. Il 16 luglio 1931 il negus Ḥāyla Sellāsē ha emanato una "Legge dell'impero" che stabilisce l'ordinamento costituzionale dell'Etiopia. La "Legge dell'impero" riconosce l'ereditarietà della dignità imperiale nella discendenza di Hāyla Sellāsē in quanto il negus attuale è un salomonide. Il potere sovrano resta integralmente al negus il quale istituirà due Camere di consiglio: una composta di consiglieri nominati dal negus tra i grandi capi e un'altra di consiglieri nominati dai capi delle provincie. Assumono quindi nuova veste legale le consuetudini del Consiglio della Corona, riunione dei grandi capi per trattare direttamente col negus in Addis Abeba le più gravi questioni politiche (cosa spesso avvenuta negli ultimi anni specialmente durante il regno di Zauditu) e l'altra tipica istituzione dei rappresentanti che i capi delle provincie solevano accreditare ancor idesso presso la corte imperiale per seguirne le vicende politiche e per esercitare nella capitale i diritti di giurisdizione del capo sugli emigrati dalla sua provincia. I ministri sono responsabili dei consigli che dànno per iscritto al negus sulle questioni dello stato e sono autorizzati, per la prima volta, a riunirsi in consiglio per la discussione di affari importanti.
Ordinamento giudiziario. - L'Imperatore presiede personalmente il tribunale supremo (čĭlot) o lo fa presiedere dal giudice della Corona che ha il titolo di Afa-negus. Allo stesso modo anche i grandi capi hanno la presidenza dei tribunali entro le regioni loro affidate. Ogni tribunale è composto di parecchi giudici, di nomina regia per quello supremo e nominati dai capi per i tribunali minori. Questi giudici hanno il titolo di wambar "seggio". Essi sono ascoltati in ordine (vi sono i wambar di destra e quelli di sinistra) dal presidente del tribunale, ma a solo titolo consultivo. La decisione della lite non è quindi devoluta al collegio, ma al giudice unico che è anche il sovrano o il feudatario.
Il sovrano, secondo l'ordinamento feudale, può anche concedere ad altri che al feudatario della regione speciali diritti di giurisdizione: così, come si è detto sopra, quello di alta giustizia (qorāv̌ennat); così anche nei paesi nei quali sono state stabilite colonie militari (v̌awa) la giurisdizione su questi coloni e gl'indigeni loro sottomessi come gabbār è tradizionalmente concessa ad un capo diverso da quello della zona, ecc.
Accanto alle magistrature su accennate si è sviluppato l'istituto dell'arbitrato. L'arbitro, liberamente scelto dalle parti, dà sanzione al suo pronunciato facendo recitare dai contendenti la formula del feṭem (v. qui sotto: Etnologia) "muoia il re!" in modo che una violazione della sentenza arbitrale sia considerata pubblica ingiuria alla corona.
La giurisdizione sui sudditi di potenze occidentali è regolata dai trattati. Le liti tra stranieri di una stessa nazionalità sono giudicate dal tribunale consolare di quello stato straniero; le liti tra stranieri di differenti nazionalità dal tribunale del convenuto. Le liti tra Abissini e stranieri sono giudicate dal tribunale speciale (ba-leyu ya-qōma ferd-bēt "tribunale specialmente istituito") il quale è composto di un giudice abissino, presidente, e del console dello stato di cui lo straniero è suddito. La sentenza è pronunziata dal giudice abissino, ma il console ha il diritto di rifiutarsi di firmarla. In tal caso il processo è rimandato al tribunale supremo al quale il negus convoca come consigliere il console dello straniero stesso. La legge applicata è quella del convenuto.
Questo sistema è stato instaurato in Etiopia dal trattato franco-etiopico del 10 gennaio 1908 (citato di solito come "trattato Klobukowski" dal nome del negoziatore francese) esteso alle altre potenze, generalmente in modo implicito, per la clausola della nazione più favorita: eccetto che all'Italia per la quale invece l'Etiopia espressamente si obbligò a mantenere tale giurisdizione speciale nel trattato di amicizia del 2 agosto 1928. Questo trattato italo-etiopico applica il sistema del trattato Klobukowski ai "cittadini, sudditi coloniali e protetti italiani", intendendosi per "protetti" gli stranieri non italiani singolarmente passati, a loro domanda, sotto la protezione delle regie autorità consolari in Etiopia o i sudditi di stati che abbiano affidato all'Italia la protezione dei loro interessi in Etiopia (come è ora il caso per l'Ungheria).
Culti. - La religione prevalente in Etiopia è la cristiana, nella forma del monofisismo: è la religione di stato (v. sotto).
Per importanza la segue l'islamismo. Introdotto dapprima in località costiere (Dahlac, Massaua, Zeila, Berbera, ecc.), esso si è esteso nell'interno, segnatamente fra le popolazioni di lingua non semitica, per le quali l'adozione di esso era anche un mezzo per distinguersi e contrapporsi agli Abissini, che le opprimevano e le combattevano. Specialmente le popolazioni costiere o in contatto con la costa (Begia, Saho, Danachili, Somali) sono da gran tempo musulmane; come da secoli lo sono la regione di Harar e l'Ifāt. Di là l'islamismo s'infiltrò nelle regioni a SO. dell'Abissinia, trovando seguaci fra i Sidama (Sidāmā) dell'Hadià (Hadiyā), del Tambaro (Tambarō), ecc. Anche i Galla migrati in quelle regioni lo hanno, in buona parte, adottato, come pure gli altri immigrati nell'Amhara e ad oriente di questa. È notevole come gli Abissini abbiano finito col riconoscere formalmente la religione islamica fra gli staterelli Galla del SO. Anche nelle regioni a N. e a NO. dell'Abissinia, e sulle sue frontiere, l'islamismo impera, mentre fa rapidi progressi pure lungo le frontiere occidentali. Dalla fine del sec. XVIII e molto più durante la signoria egiziana, le tribù eritree di lingua tigrè (Habab, Ad Temariàm, Ad Taclès, Maria, Mensa, buona parte dei Bogos, ecc.) rinunciarono al cristianesimo per l'islamismo. Può dirsi che oggi l'Abissinia cristiana si vada restringendo, chiusa in una cerchia musulmana. Inoltre l'islamismo è professato da non pochi nuclei e famiglie diffuse per tutta l'Abissinia, segnatamente nei centri economicamente più importanti: commercianti, tessitori, fabbri, ecc. Gli Abissini dànno ai musulmani spesso il nome di Giaberti: sembra che questo indicasse in antico una popolazione dell'Ifāt; è applicato specialmente ai musulmani di razza abissina, ma, soprattutto nello Scioa e nelle contrade meridionali, ha finito con l'assumere una significazione assai lata, venendo a volte persino applicato ai musulmani d'Arabia.
Il giudaismo si conserva tra i Falascià, che rimangon0 relativamente numerosi nel Dambià, nel Uogherà, nel Semien, nel Quara, ecc., regioni nelle quali anticamente ebbero anche potere politico e indipendenza; nuclei Falascià sono migrati anche altrove, in Tigrè, nel Baghiemeder, nello Scioa. Una setta speciale, mal nota ancora, le cui credenze sembrano intermedie fra cristianesimo e giudaismo, forse con influsso pagano, è quella dei Chemant (qemānt), nel Dambià e nei vicini distretti.
Il paganesimo si mantiene fra le popolazioni di lingua non semitica delle regioni periferiche. Possono dirsi ancora prevalentemente pagane le popolazioni site lungo le frontiere occidentali e quelle Sidama e Galla delle regioni meridionali, in quanto non abbiano ancora adottato l'islamismo; pagani sono anche i Cunama d'Eritrea. In genere, può dirsi che il paganesimo delle popolazioni cuscitiche ammetta un dio supremo che è in cielo, e di cui il sole è spesso considerato come l'occhio: vi è poi un'infinità di genî e di spiriti, benefici e malefici, che occorre propiziarsi o scongiurare con mezzi più o meno apertamente inspirati a magia.
Le chiese cristiane europee hanno in Etiopia numerose missioni: in generale, però, i risultati appariscono finora piuttosto limitati. I maggiori si possono considerare quelli conseguiti dalla missione cattolica.
L'Abissinia è infatti considerata dalla chiesa cattolica terra di missione, benché in parte dipenda dalla S. Congregazione "pro Ecclesia orientali", anziché da Propaganda. Essa è ripartita in cinque grandi circoscrizioni, di cui una costituisce il Vicariato apostolico dell'Eritrea. Vi sono inoltre i due vicariati apostolici di Abissinia l'uno fondato da mons. De Jacobis con residenza ad Ali Tienà e affidato ai Lazzaristi; l'altro dei Galla, fondato dal card. Massaia con residenza ad Harar, affidato ai cappuccini. Allo stesso ordine è affidata anche la prefettura apostolica di Gibuti, che, quantunque denominata da residenza situata fuori del territorio etiopico, amministra l'antica missione della Somalia Britannica che da alcuni anni si trova invece nella Somalia Abissina. Un'altra circoscrizione ecclesiastica è la Prefettura apostolica del Caffa amministrata dai missionarî della Consolata di Torino, che hanno come principale residenza Saio nel Wolleggà. Essa è stabilita nell'Abissinia occidentale, in quella parte del paese che confina col Sudan Anglo-Egiziano e con le colonie inglesi dell'Uganda e del Kenya.
Esercito. - L'esercito dell'impero etiopico è composto delle forze armate del sovrano (esercito della Corona) e dei corpi di truppe dei singoli capi e feudatarî. Questi corpi di truppe dei ras, ecc., debbono in caso di mobilitazione raggrupparsi intorno all'esercito della Corona e formare così un'armata agli ordini del capo dello stato, concretandosi il vincolo di vassallaggio nell'accettazione del comando unico militare. Naturalmente, la rapidità e l'efficienza della mobilitazione dipendono dal prestigio del sovrano sui singoli suoi vassalli. La somma delle forze armate del sovrano e dei capi, in tempo di pace, è approssimativamente valutata oggi di circa 400 mila uomini. Non si deve tuttavia valutare l'esercito etiopico con gli stessi criterî di un esercito europeo, perché in Etiopia la mobilitazione (salvo una quota non superiore forse al 25 per cento) non è dato tanto dall'afflusso di nuove reclute alle armi quantci dall'aggregazione dei varî corpi di truppe.
L'armamento attuale non è omogeneo: esso consiste quasi unicamente di fucili di vario modello; l'artiglieria - anche per le asperità del terreno - è relativamente scarsa; piuttosto numerose le mitragliatrici. Dal 1929 l'Etiopia dispone di una squadriglia di aviazione con apparecchi francesi e italiani e personale, in prevalenza, francese.
Il sistema di colonizzazione militare ripristinato, dopo le sue conquiste, da Menelik II (v. sopra) ha ridato ad alcuni corpi dell'esercito della Corona una funzione politica nei riguardi delle genti allogene assoggettate all'Abissinia, funzione che l'esercito aveva già avuto secoli or sono nel territorio del regno abissino a nord del Nilo Azzurro e del Hawash. L'esercito resta ancor oggi la principale forza unitaria dell'Impero etiopico e la vita dell'Etiopia è legata ad esso, come chiaramente ha dimostrato la storia dei tentativi fatti, dai tempi antichi ad oggi, da genti straniere o da capi locali, di affermare il proprio dominio su singole zone mediante occupazioni territoriali che sono rimaste sempre senza alcun effetto pratico finché l'esercito della Corona è rimasto intatto, anche se respinto in zone remote.
Oggi la guardia dell'imperatore ha avuto uniformi e istruzioni all'europea e una missione militare belga si trova per tale scopo in Addis Abeba. I corpi di truppe dei capi, invece, hanno formazione e tecnica tradizionale abissina.
Storia.
Agli albori della storia dell'Etiopia l'altipiano era abitato da popolazioni cuscitiche. Il Nilo Azzurro e il suo spartiacque con il Hawash segnavano, all'incirca, la linea di separazione tra le genti (cuscitiche) degli Agau che tenevano la parte settentrionale dell'altopiano e le genti cuscitiche dei Sidama che occupavano la zona meridionale. Nel settore occidentale, sui declivî dell'acrocoro etiopico verso il Sudan, nuclei di negri sudanesi si mantenevano indipendenti o assoggettati ad Agau e Sidama; mentre a sud, nelle valli declinanti verso il Lago Rodolfo i Sidama si erano sovrapposti a popolazioni preesistenti del ceppo nilotico, alcune delle quali erano anche riuscite a conservare la loro individualità.
Giù nel bassopiano costiero, che cinge e isola coi suoi deserti l'Etiopia da Ras Kasar alle foci del Giuba, altre popolazioni cuscitiche affini erano dedite alla pastorizia nomade: da Nord a Sud: prima i Begia, poi i Saho, i Danachili, le tribù poi dette Somale, e infine i Galla che lungo il Giuba erano a contatto con i Negri Bantu da cui dovevano mutuare tanta parte delle loro istituzioni politiche e sociali. Sembra che queste popolazioni cuscitiche abbiano avuto lungo la costa del Mar Rosso qualche contatto con i navigatori egizî; e nell'interno col regno meroitico, se pure - secondo una recente ipotesi di Carl Meinhof - il meroitico non debba essere considerato come una lingua cuscitica (il che amplierebbe la storia etnica e linguistica delle genti etiopiche sino alla grande isola dei due Nili). Tuttavia nel nord dell'altipiano presso gli Agau e nel bassopiano presso tutte le popolazioni dai Saho e Danachili ai Somali e ai Galla non si formò in Etiopia alcuno stato e l'organizzazione politica fu quella gentilizia con capi tribù elettivi o ereditarî. Soltanto nella zona meridionale dell'altipiano, presso i Sidama, si vennero costituendo piccoli stati retti da una monarchia ereditaria in un tipico sistema aristocratico e con una partizione non più gentilizia ma territoriale: sistema che si spiega con la composiziorie etnica di quelle genti, miste, come si è detto, a stirpi di nilotici. Per la religione pagana dei Cusciti vedi quanto è detto sulle genti non abissine al paragrafo etnologia.
Le ricchezze, così presto celebrate, dell'Etiopia e lo stato politico e culturale dei suoi popoli rispetto all'evoluzione delle genti vicine, dovevano incitare ad un'opera di colonizzazione. E quindi lungo la costa si vennero fondando emporî commerciali popolati da genti dell'Arabia meridionale. Ben presto questi emporî furono centri di popolazioni che si espandevano nelle zone limitrofe e dalla sponda arabica affluivano sulla sponda eritrea nuovi gruppi di colonizzatori. In seguito a vicende a noi ignote questo movimento d'immigrazione dall'Arabia portò nel nord alla formazione di uno stato monarchico indipendente, il regno di Aksum, che riunì sotto la sua sovranità tutte le regioni dell'Etiopia settentrionale dove fioriva la colonizzazione sud-arabica: e cioè il bassopiano eritreo c il margine dell'altipiano etiopico. Lo stesso paese africano venne a prendere il nome di una delle stirpî sud-arabiche immigrate, quella degli Ḥabashāt originarî del Yemen.
Il reggio di Aksum, nei primi secoli della sua esistenza, ebbe come sue tradizionali direzioni di espansione politica: l'Arabia e il Sudan. La politica araba del regno di Aksum che nel sec. III d. C. mantenne un atteggiamento antiromano, condusse ad allearsi con Palmira, e perciò l'imperatore Aureliano nel 278 d. C poté trionfare anche degli Aksumiti, alleati della regina Zenobia. Verso il Sudan, invece, l'azione del regno di Aksum, ostile al regno meroitico, si estese sino alla stessa Meroe che fu presa in una fortunata spedizione probabilmente agl'inizî del sec. IV d. C.
Intanto, mentre i contatti, che questa politica dei re e l'attività commerciale stranicra avevano causato con le genti mediterranee, favorivano la diffusione del cristianesimo in qualche centro del commercio aksumita, la stessa dinastia più tardi sotto il regno del re Ezana (‛Ezānā) si poneva alla testa del nuovo movimento religioso convertendosi al cristianesimo. La religione cristiana, che era diventata intanto anche quella ufficiale dell'Impero romano, creava così un vincolo tra Aksum e Costantinopoli, mentre anche politicamente gli Aksumiti si accostavano alle direttive di Costantinopoli, giungendo iri seguito addirittura ad atteggiarsi come ausiliarî dell'Impero contro la Persia.
La massima impresa del regno di Aksum fu la conquista del Yemen compiuta nel 525 d. C. sotto il regno del re Kālēb di Aksum riaffermando le pretese della dinastia aksumita verso l'Arabia in occasione delle persecuzioni contro i cristiani di Naǵrān. La conquista, che già era diventata meno solida per la politica di semi-indipendenza dei capi dell'esercito aksumita del Yemen verso il re di Aksum, terminò nel 572 quando i Persiani riuscirono a scacciare dal Yemen le truppe aksumite.
La formazione dello stato musulmano nel successivo sec. VII chiuse definitivamente l'Arabia e le vie del mare al regno di Aksum. Questo, tagliaro così fuori da quelli che per secoli erano stati gli obiettivi della sua azione, rimase sempre più uno stato locale africano e fu, per forza di cose, costretto a cercare di espandersi verso l'interno dell'altipiano etiopico di cui sin allora si era limitato a tenere i margini. S'inizia così un lungo periodo che occupa ben sette secoli durante i quali in seguito ad accanite lotte il regno aksumita si estende sino allo Scioa, sposta il suo centro politico prima da Aksum all'Etiopia centrale (regione del Lāstā) sotto la dinastia degli Zaguè. Il regno, così ampliato ma anche fortemente impregnato di elementi etnici e culturali locali, conserva il suo cristianesimo che - sembra, senza scosse - si è intanto separato da Roma, seguendo insieme con la chiesa alessandrina la dottrina monofisita.
Nel 1270 Yekuno Amlāk ("Sia per lui il Signore") s'impadronisce del regno e fonda la nuova dinastia dei salomonidi, trasferendo la sede del regno ancora più a sud, dal Lāstā nello Scioa (Šawā). Ben presto i suoi successori dovettero affrontare un'aspra e lunghissima lotta contro i musulmani del Sud. Infatti, mentre il regno aksumita si espandeva verso l'interno dell'altipiano da nord verso sud, la propaganda musulmana avanzando anch'essa verso l'altipiano da est ad ovest con base sulle colonie commerciali della costa del Mar Rosso aveva guadagnato molte popolazioni del SE. etiopico le quali giustanente vedevano, anche, nell'Islām il solo possibile segno di resistenza al cristianesimo del regno degli Abissini invasori. (ìuesto movimento si era concretato nella fondazione di uno stato musulmano costituitosi in regno sotto la dinastia dei Walasma‛ (vantante origini ‛alidi) e con centro nella regione dell'Ifāt ai margini orientali dell'altipiano scioano. Lo stato musulmano aveva poi come alleati molte popolazioni e staterelli dell'Etiopia meridionale, tutti desiderosi di difendere la loro indipendenza contro gli Abissini. La guerra durata con non lunghe interruzioni dal 1330 circa al 1577, s'iniziò con l'impresa del negus ‛Amda Ṣyon di Abissinia contro Ṣabr ad-dīn re di Ifāt. Alterne logoranti vicende portarono le armi abissine sino a Zeila (Zayla‛) con la sconfitta e l'uccisione del sultano Sa‛d ad-dīn ibn -Aḥmed sotto il regno del negus Dāwit I (alla fine del sec. XIV d. C.) o i musulmani a razziare sulle frontiere scioane per ricostituire il loro stato indipendente sotto la guida dei primi due figli di Sa‛d ad-dīn Aḥmed già rifugiatisi nello Yemen (durante il regno del negus Yesḥaq nei primi decennî del sec. XV). Il terzogenito di Sa‛d ad-dīn, il sultano Badlāy ibn Sa‛d ad-dīn, indicato nelle Cronache Etiopiche come "la fiera Badlāy", i continuò l'opera dei suoi fratelli combattendo il negus Zar'a Yā‛qob, successore di Yesḥaq, ma ne fu vinto e ucciso in una deeisiva battaglia nella regione del Dawāro il 26 dicembre 1445.
La hattaglia del Dawālo fu seguita da una tregua. Il Sultano Muḥammad ibn Badlāy divenne tributario del negus; la capitale dello stato musulmano fu trasferita dall'Ifāt nell'Adal, per allontanarla dalla frontiera abissina. Ma solo pochi anni dopo, nel 1479, il negus Eskender riparte in guerra contro il sultano Shams ad-dīn ibn Muḥammad ed è vinto nell'Adal dai musulmani; mentre più tardi al contrario, il sultano Muḥammad ibn Aẓhar ad-dīn conduce una sfortunata campagna contro il negus Lebna Dengel ed è al ritorno assassinato dai suoi ufficiali.
Intanto nello stato musulmano si veniva formando un partito ostile alla vecchia dinastia dei Walasma‛ logoratasi appunto nelle guerre contro l'Abissinia cristiana. Ed alla morte di Muḥammad ibn Aẓhar ad-dīn, accanto ai sultani Walasma‛ ridotti a veri rois fainéants si succedettero condottieri che s'impadronirono del potere effettivo. Uno di questi condottieri, Aḥmad ibn Ibrāhīm (detto dagli Abissini: Grāñ "il Mancino" e dai musulmani Ṣāḥib al-fatḥ "il Conquistatore") uccise il sultano Abū Bakr ibn Muḥammad, sostituendolo sul trono con un altro principe Walasma‛a lui devoto assunse per sé il titolo di imām e da Harar, nuova capitale dello stato musulmano, partì in guerra contro l'Abissinia nel 937 ègira (1530-1531).
Questa guerra condotta da Aḥmad ibn Ibrāhīm è stata il massimo tentativo dei musulmani per conquistare l'Abissinia. Il Mancino vittorioso in più battaglie giunse con le sue truppe sino al Tigrè e scese a Massaua (Meṣwā‛) mettendosi così in relazione con l'opposta sponda araba. Ma lo stesso carattere politico dei successi del Mancino e cioè quello di riscossa del nemico secolare dei cristiani di Abissinia, e l'irrequietezza delle truppe musulmane che, composte in gran parte da beduini dancalo-somali, erano più pronte a razzie che a conquiste, resero meno forte la posizione dei musulmani. Un corpo di truppe portoghesi al comando di don Cristoforo da Gama, inviata dal viceré delle Indie in soccorso del negus, riunì e inquadrò un nuovo esercito abissino e il Mancino fu vinto e ucciso nel febbraio 1543 (v. gama, Christovam da).
Al Mancino successe più tardi, sempre col titolo di imnām, Nūr ibn Mugiāhid, il quale conservò anche egli nominalmente sul trono dello stato musulmano i sultani Walasma‛e, partito in guerra contro l'Abissinia, vinse ed uccise in battaglia il negus Claudio (Galāwdēwos) nel 1559. Ma neanche questa vittoria fu durevolmente utile ai musulmani, perché proprio allora i Galla, che per secoli avevano dimorato nel bassopiano tra Uebi e Giuba e ai margini meridionali dell'altopiano a mezzogiorno del Lago Regina Margherita, furono spinti - probabilmente dalla pressione dei Somali avanzanti verso i grandi fiumi - ad attaccare i popoli cristiani e musulmani a Nord del loro territorio per sboccare sull'altipiano.
Da allora le ostilità tra Abissinia e musulmani del sud si riducono a razzie e colpi di mano, e l'ultima notevole di queste spedizioni fu quella del sultano Muḥammad ibn Naṣīr contro il negus Malak Sagad nel 1577. Un tentativo dei Turchi di profittare di un dissenso tra il capo del Tigrè e il negus per stabilirsi sull'altipiano si terminò con la vittoria abissina di Abba Garima presso Adua nel 1578. Invece, sia Abissini, sia musulmani, dovettero difendersi dagl'invasori Galla. Lo stato musulmano, diviso anche da lotte interne tra i varî partiti, seppe resistere meno. Il nuovo trasporto della capitale da Harar al bassopiano dell'Aussa non migliorò in nulla le condizioni dello stato musulmano, anzi rinforzò le tendenze autonomistiche degli emiri di Harar e di Zayla‛e preparò la definitiva divisione dell'antico sultanato ereditario nell'emirato hararino e nello staterello, divenuto etnicamente dancalo, dell'Aussa.
Il regno abissino invece, pure estenuato dalla lunga lotta coi musulmani, seppe opporre anche ai Galla una valida difesa e sotto la guida dei suoi sovrani (alcuni dei quali singolarmente eminenti come Malak Sagad, Susenyos, Fāsiladas) si batté energicamente per contrastare il passo ai nuovi invasori. Intanto però i gesuiti, entrati in Abissinia nel 1557 dopo la spedizione dei Portoghesi, avevano iniziato un poderoso lavoro religioso e politico per convertire l'Abissinia al cattolicesimo. Questo lavoro, che - per gli studî che provocò da parte degli stessi gesuiti - doveva porre le basi della moderna eonoscenza dell'Etiopia in Europa, ottenne però solo un passeggero successo; perché il negus Susenyos che nel 1626 aveva adottato la religione cattolica fu costretto ad abdicare nel 1632. E il forte partito xenofobo che aveva visto nel cattolicesimo soltanto uno instrumentum regni dei Portoghesi, riuscì a porre sul trono di Abissinia il figlio di Susenyos, il negus Fāsiladas, il quale - secondo il motto abissino - fece "tornare la fede dei padri" ristabilendo la chiesa monofisita e scacciando i gesuiti dal regno.
Lo stesso Fāsiladas (che regnò dal 1632 al 1657) pose la sua capitale a Gondar nel Dambià, a nord del Lago Tana, in regione che si poteva ritenere meglio sicura da invasioni galla che non lo Scioa. Ma, nonostante questa strenua resistenza, l'invasione galla progrediva continuamente; e se anche i negus abissini si servivano qua e là delle stesse tribù galla come truppe mercenarie, questo non faceva che causare nuovi contatti e provocare nuove ambizioni di conquista. Si giunse così nella seconda metà del sec. XVIII al periodo dei condottieri galla che facevano e disfacevano i pavidi negus loro fantocci, mentre i grandi feudatarî delle provincie affermavano sempre più apertamente la loro indipendenza rispetto al sovrano così debole. A loro volta però gli stessi galla immigrati nelle zone settentrionali e centrali di Abissinia, più lontani dal grosso delle loro tribù, venivano lentamente subendo l'influenza dei vinti e si accostavano ormai ai costumi, all'organizzazione, agli stessi atteggiamenti politici degli Abissini. La dinastia salomonide continuava a rimanere sul trono a mezzo dei negus di Gondar: ciò, se pure il regno era solo nominale, costituiva pur sempre un vincolo politico e di tale prestigio che nessuno dei nuovi pretoriani del regno abissino volle disporre del trono in favore di sé stesso. Tra i grandi feudatarî di questo periodo conviene ricordare il nome di ras Gugsā, dei due ras Ali e di ras Mārye nel Baghiemeder (zona ad oriente del Lago Tana e limitrofa alla capitale Gondar); dei daǧǧ-azmāč Sabāgādis e Wubē nel Tigrè, e dei capi dello Scioa. In quest'ultima regione, infatti, una stirpe che vantava origini salomonidi cercava di mantenere ereditariamente il governo con la maggiore autonomia da Gondar, prima conservando soltanto titoli feudali minori e finalmente nei primi decennî del sec. XIX assumendo quello di negus. Il primo a intitolarsi negus fu Sāhla Sellāsē, il quale seppe giovarsi dei rinnovati contatti con l'Europa per stringere nel 1839 un trattato di amicizia con la Francia per mezzo del viaggiatore Rochet d'Héricourt: trattato che doveva servire a Sahla Sellāsē per riaffermare in Abissinia la sua nuova qualità di negus dello Scioa.
Ma nel 1855 entrava in Gondar, dopo un'aspra lotta, un condottiero nativo del Quarā (ad occidente del Tana) di nome Kāsā il quale aveva riunito intorno a sé un forte esercito di soldati ostili al ras Ali, ultimo capo dei pretoriani di Gondar. Kāsā, impadronitosi del potere, salì al trono col nome di Teodoro II col programma di unificare nuovamente l'Abissinia. Tale impresa egli attuò con energia spesso feroce e con sanguinose repressioni. Anche lo Scioa fu da lui conquistato e duramente soggiogato. Menelik, figlio dell'ultimo negus dello Scioa - Ḫāyla Malakot - fu portato via in ostaggio da Teodoro fuori dello Scioa. Ma più tardi i contatti con gli stati europei, che viaggiatori e missionarî cominciavano di nuovo a promuovere per la via di Massaua, portarono alla guerra con l'Inghilterra. Sir Robert Napier batteva a Magdala nell'aprile 1868 le forze abissine e il negus Teodoro si uccideva per non cader prigioniero dei vincitori.
A Teodoro, dopo tre anni di lotta fra Takla Giyorgis II e il daǧǧ-azmāč Kāsā del Tigrè, succedeva quest'ultimo che assumeva il nome di Giovanni IV. Il negus Giovanni si trovò nella sua politica interna, fronteggiato dai due maggiori feudatarî: il ras Adal del Goggiām e il negus Menelik dello Scioa (quest'ultimo, liberato dopo Magdala, aveva riguadagnato il suo paese). Giovanni dovette spesso servirsi dell'uno contro l'altro ed affermare la sua autorità su entrambi sia con le armi sia con l'azione politica. Nel 1879, dopo una fortunata spedizione contro lo Scioa che aveva costretto Menelik alla sottomissione, Giovanni IV coronava lo stesso Menelik a negus dello Scioa riaffermandone così il vassallaggio e contemporaneamente conferiva il titolo di negus del Goggiām al ras Adal che assumeva il nome di regno di negus Takla Hāymānot. Pochi anni dopo i due nuovi negus vassalli di Giovanni IV, venivano, a loro volta, a lotta armata fra loro e Takla Hāymānot era sconfitto e fatto prigioniero da Menelik nella battaglia di Embābo nel 1884.
Mentre Giovanni indeboliva così i suoi avversarî nell'interno dell'Abissinia, doveva anche combattere sulla frontiera settentrionale, che la nuova espansione dell'Egitto sotto la dinastia di Muḥammad ‛Alī seriamente minacciava. Giovanni fu vittorioso contro gli Egiziani a Gundat (1875) e a Gurā‛ (1876) e un tentativo di avanzare dalla Dancalia finì col tragico massacro della spedizione Munzinger Pascià da parte dei beduini Dancali.
Più tardi l'Italia, che sin dal 1869 aveva acquistato Assab (‛Asab), ampliava i suoi possedimenti sulla costa del Mar Rosso spinta sia dall'opportunità politica della crisi provocata dalla rivolta del Mahdī nel Sudan, sia dalla necessità di non lasciare impuniti i massacri delle spedizioni Giulietti (1881) e Bianchi (1883) avvenuti nella Dancalia. Si addivenne così il 5 febbraio 1885 all'occupazione di Massaua (v. eritrea) e, gradualmente, di una zona circostante a quel porto. Giovanni IV e i suoi capi vollero opporsi ad un'ulteriore avanzata degl'Italiani e il ras Alulā attaccava di sorpresa a Dogali (v.), il 26 gennaio 1887, la colonna De Cristoforis (v. italo-abissina, guerra). L'anno successivo il negus Giovanni si mosse col suo esercito nel bassopiano massauino per affrontare il generale Di San Marzano, comandante della nuova spedizione italiana. Ma il Di San Marzano, resistendo a tutti gl'incitamenti e le provocazioni abissine, seppe mantenersi nei forti sulla difensiva obbligando così Giovanni a ritirarsi senza combattere per le gravi difficoltà logistiche (febbraio-marzo 1888).
Intanto nello Scioa il negus Menelilk si era messo in contatto con l'Italia per mezzo del conte Pietro Antonelli e di altri viaggiatori ed era riuscito a ottenerne l'amicizia, concretatasi spesso in rifornimenti di armi e munizioni che aumentavano le possibilità di autonomia del re scioano. Giovanni, preoccupato di questo, stava preparandosi a una nuova spedizione contro lo Scioa, quando fu chiamato alla frontiera occidentale dell'Abissinia da una spedizione devastatrice dei Mahdisti del Sudan. Nella battaglia di Matammā (marzo 1889) Giovanni IV fu vinto e ucciso dai Mahdisti e Menelik restò così in grado di affermare i diritti al trono abissino dei salomonidi dello Scioa.
Il nuovo negus abissino, Merielik II, stringeva con l'Italia il trattato di Uccialli del 2 maggio 1889 e riconosceva l'occupazione italiana dell'altipiano eritreo avvenuta in quei mesi. L'art. 17 del trattato di Uccialli, differentemente redatto nel testo italiano e nel testo amarico, dava motivo all'Italia di notificare alle Potenze firmatarie dell'atto finale del congresso di Berlino l'obbligo dell'Abissinia di servirsi del tramite del governo del re per le sue relazioni estere, mentre d'altra parte Menelik si rivolgeva direttamente a capi di stati europei ritenendo soltanto facoltativo il tramite dell'Italia.
Mentre s'iniziava così diplomaticamente la vertenza italo-etiopica, Menelik II svolgeva all'interno la sua abile azione unificatrice dell'Abissinia e un'ardita politica di espansione a sud e a ovest dei confini dell'antico regno. A nord nel Tigrè il ras Mangascià (Mangašā), figlio del negus Giovanni IV era tenuto accortamente a bada, volendo evitare Menelik II soprattutto un'alleanza duratura di Mangascià con l'Italia. Il negus Takla Hāymānot del Goggiām ed altri capi dell'Etiopia centrale erano legati a Menelik non solo per timore, ma anche per ottenere le armi e munizioni di cui lo Scioa diventava il principale detentore per le sue relazioni con l'estero. I capi minori dello Scioa seguivano Menelik per fedeltà dinastica e regionale (la tradizione della nuova dinastia salomonide fu instaurata appunto regionalmente da Menelik II il quale si fece coronare negus nella chiesa di S. Maria di Enṭoṭṭo nello Scioa, e non più in Aksum come tutti i suoi predecessori); ma Menelik seppe inoltre servirsi accortamente anche delle loro ambizioni lanciandoli con le loro truppe armate di fucili moderni contro gli stati Galla e Sidāmā fino allora indipendenti.
Una serie di spedizioni guerresche durate fino al 1897 e condotte generalrnente dai capi scioani, fra i quali si segnalarono ras Makonnen conquistatore dell'Ogaden, ras Dārgē conquistatore degli Arussi Galla e zio di Menelik, ras Walda Giyorgis conquistatore del Caffa ed altri, diede a Menelik la sovranità su tutto l'altipiano etiopico portando il confine del suo stato dalla linea Nilo Azzurro-Hawash a quella Lago Rodolfo-Wēbi in regioni mai prima di allora dipendenti dal regno abissino. L'abilità politica di Menelik collegò e cointeressò a questa impresa anche alcuni capi delle stesse genti Galla che egli voleva sottomettere: e capi di origine Galla diventati feudatarî della Corona furono tra i pitù fedeli luogotenenti di Menelik in queste sue conquiste. Così il ras Gobanā che s'impadronì del Lieqā e del Wållaggā contro i suoi consanguinei Galla e il fitāwrāri Habta Giyorgis che nel 1897 sottomise i Galla Boranā dell'estremo sud.
Queste conquiste diedero un carattere nuovo allo stato che si trasformò da regno unitario abissino (comprendente le popolazioni di varia origine etnica storicamente raggruppatesi nell'altipiano settentrionale e centrale) in Impero etiopico nel quale le genti abissine del vecchio regno mantengono sotto il loro dominio le popolazioni allogene Galla, Sidama, Somali, ecc., degli stati già indipendenti. Questo dominio si afferma nel vincolo dei gabbār, nativi di stirpi sottomesse che sono assegnati a mantenere i soldati dei corpi di truppe di Menelik e i loro discendenti.
L'Impero etiopico, mentre così si costituiva all'interno, attraversava anche nella politica estera una critica fase. L'Italia, che dal 1889 al 1895 aveva negoziato con Menelik l'applicazione del trattato di Uccialli, e, nel frattempo, aveva considerato con favore le campagne di Menelik contro i Galla e Sidama perché, in base all'interpretazione nota dell'art. 17 del trattato stesso, essa poteva guardare le conquiste del negus come un ampliamento della sua sfera d'influenza, fu infine, dopo sei anni di trattative, costretta a ricorrere alle armi. Ma anche dopo lo scoppio delle ostilità nessun collegamento politico fra l'Italia e gli avversarî dì Menelik venne a turbare l'azione del negus scioano; e gli avvenimenti di Adua (i marzo 1896) e più ancora l'affrettata pace di Addis Abeba (dicembre 1896) furono particolarmente favorevoli al nuovo Impero d'Etiopia che si vide riconosciuta personalità internazionale.
Da allora la politica di Menelik fu diretta a fare accettare dagli stati europei le sue conquiste; e ciò fece a mezzo dei trattati di confine con la Gran Bretagna (confine col Sudan 15 maggio 1902; col Kenya ed Uganda 6 dicembre 1907; con la Somalia Britannica 14 maggio e 4 giugno 1897); con la Francia (confine con la Somalia francese 20 marzo 1897); con l'Italia (confine eritreo, v. eritrea: Storia; confine somalo, v. somalia: Storia).
Per assicurare la successione dell'Impero, Menelik II proclamò erede al trono il lĭǵǵ Iyāsu, figlio di sua figlia Šawā Raggā e del ras Mikā'ēl. Iyāsu, alla morte di Menelik, divenne effettivamente il capo dello stato (1913), ma non fu mai proclamato imperatore. Egli però conferì a suo padre la dignità di negus e Mikā'ēl, fattosi incoronare in Aksum, assunse il vecchio titolo di negusa Ṣyon che una volta, sino a Giovanni IV, era quello degli imperatori. Scoppiata la guerra europea nel 1914, Iyāsu continuò anche più apertamente una sua politica favorevole alle genti mussulmane recentemente conquistate da Menelik. Questo suo atteggiarnento veniva ad accrescere le speranze degl'Imperi centrali e della Turchia, che vedevano nel giovane e ambizioso erede del trono etiopico un loro possibile alleato contro l'Intesa. Nel 1916 una rivoluzione scoppiava nello Scioa e il metropolita d'Etiopia, l'abuna Mattēwos scioglieva i capi scioani del giuramento di fedeltà al lĭǵǵ Iyāsu. Nello stesso anno il negus Mikā'ēl, accorso contro lo Scioa, era vinto e fatto prigioniero nella battaglia di Sagalēe una colonna scioana reprimeva con spietata energia il movimento dei Somali e Dancali favorevoli a Iyāsu. I capi vittoriosi proclamarono imperatrice Zauditu, altra figlia di Menelilk e quindi zia del lĭǵǵ Iyāsu, ed "erede del trono di Etiopia" il ras Tafari, figlio del ras Makonnen.
Il lĭǵǵ Iyāsu che, dopo aver errato nel bassopiano dancalo, si era rifugiato nel Tigrè, fu consegnato alla nuova imperatrice nel 1921 e relegato. Le potenze europee videro con favore i nuovi sovrani e nel 1923 l'Etiopia fu ammessa nella Società delle Nazioni.
L'anno successivo il ras Tafari coi principali capi etiopici venne in Europa a visitare i sovrani e i capi di stato europei coi quali l'Etiopia era in relazione. Nel 1927 il duca degli Abruzzi si recava in Addis Abeba per restituire la visita in nome del re d'Italia; e rinsaldava i rapporti italo-etiopici con intese che l'anno successivo portarono alla firma (2 agosto 1928) di un trattato ventennale di amicizia e della reciproca concessione di una zona franca in Assab e della costruzione di una camionabile di lì a Dessiè. Due mesi dopo un movimento di capi scioiani si concludeva con la nomina di Tafari a negus col titolo di "Vicario plenipotenziario dell'Impero", fermi restando i diritti sovrani dell'imperatrice Zauditu.
Questa però, esercitò da allora soltanto un potere di controllo; e nel 1930 il ras Gugsā feudatario del Baghiemeder si ribellò al potere centrale presentandosi astutamente come difensore dell'imperatrice. Gugsā fu vinto e ucciso dalle truppe dell'Impero comandate dal daǵǵ-azmāč Mulughētā a Zabit nel marzo 1930. L'imperatrice Zauditu moriva pochi giorni dopo; e Tafari si proclamava imperatore col nome di Hāyla Sellāsē I. Nel novembre 1930 egli era incoronato nella chiesa di S. Giorgio in Addis Abeba e circa un anno dopo nel luglio 1931 emanava una costituzione dell'Impero fondata su consigli consultivi composti di rappresentanti delle varie regioni, nominati, però, dal governo centrale: inizio dunque di evoluzione dal feudalismo antico.
Relazioni politiche e culturali con l'Italia. - Fino dal Medioevo l'Italia ha dato attivissima opera alle relazioni politiche e culturali dell'Etiopia col mondo occidentale. La stessa leggenda del Prete Gianni o Janni, se pure non ancora localizzata a quei tempi in Etiopia, ha origine in Italia perché Ottone di Frisinga (che per primo l'accolse nella sua cronaca) riferisce notizie da lui intese a Viterbo nella corte pontificia nel 1145; ed egualmente il primo tentativo in Europa di stringere relazioni diplomatiche con il lontano monarca etiope è quello fatto dal papa Alessandro III che con sua lettera del 27 settembre 1177 inviava il medico Filippo in missione presso il Prete Gianni.
Più tardi la ricerca di nuove vie per le Indie spingeva Venezia e Genova a contatti, sia pure indiretti, con gli stati del bacino africano del Mar Rosso ed Oceano Indiano. E Marco Polo dà le prime notizie sicure sulla "Abascia"; e, pare, il genovese Sorleone Vivaldi dalle coste dell'Oceano Indiano tenta di spingersi verso l'Etiopia; e, d'altra parte, Genovesi si spingono dall'Egitto nella Nubia donde il domenicano Bartolomeo da Tivoli sembra sia riuscito ad avere qualche rapporto con l'Etiopia nei primi decennî del sec. XIV.
Ma le prime relazioni diplomatiche tra uno stato italiano e l'Etiopia sicuramente documentate, sono quelle che Venezia, superando in questa gara le sue rivali, riuscì a stabilire agl'inizî del sec. XV. Il primo inviato del monarca etiope in Europa, nuncius excelsi domini Prestozane, era ancora un italiano, il fiorentino Antonio Bartoli, il quale era stato accreditato dal negus presso la Repubblica Veneta ed aveva presentato in nome del suo sovrano al Maggior Consiglio "quattuor leopardos, aromata et certas res placibiles" (tra cui pelli di scimmia e di zebra). Il Maggior Consiglio con deliberazione del 22 luglio 1402 stanziava la somma di mille ducati aurei per le spese necessarie per ricambiare i doni al negus e con altra deliberazione del 10 agosto 1402 autorizzava l'ambasciatore del negus a condurre con sé in Etiopia alcuni artisti ed artefici italiani (un pittore fiorentino, un a maiolo napoletano, due muratori e un falegname). Si comincia così a formare una colonia italiana in Etiopia a richiesta dello stesso negus (Dāwit I) il quale si serviva dei maestri d'arte italiani per spingere i suoi sudditi verso una più progredita civiltà.
Questa ambasciata etiopica a Venezia nel 1402 fu oggetto della più viva curiosità; e un tipico documento di questa è la lettera del 23 giugno 1402 di Francesco Novello da Carrara signore di Padova, il quale faceva chiedere al doge che gli fossero mandate a vedere a Padova almeno una parte delle "stranie cosse" mandate a Venezia dal negus. E gli altri stati italiani furono eccitati dall'esempio di Venezia a seguire la stessa via. Così nel 1427 Alfonso V re di Napoli e d'Aragona riceveva a Valenza un'ambasciata del negus Yeshaq e il 14 maggio 1428 proponeva con una sua lettera al detto negus "domino Ysaq figlio di David" un'alleanza da rinsaldare con due matrimonî di famiglia; così nel 1450 lo stesso sovrano riceveva in Napoli un'ambasciata del negus Zar'a Yā‛qob (composta di due abissini e di Pietro Rombolo da Messina interprete) ed inviava anch'egli al negus i maestri d'arte richiesti in Etiopia. E già nel 1432 Pietro Napoletano si recava, per incarico del negus, dall'Etiopia (dove egli era andato due anni prima come inviato di Giovanni duca del Berry) a Costantinopoli per reclutare colà artieri e manovali. Il duca di Milano, Francesco Sforza, indirizzava il 16 giugno 1459 una lettera al negus Simoh Iacopo (Zar'a Yā‛qob) per chiedergli copia di manoscritti etiopici delle opere di Salomone. Ed infine, dopo i varî pellegrinaggi di monaci etiopici a Roma, di cui troviamo traccia nei documenti del sec. XV, il papa Sisto IV riceveva nel novembre 1481 una missione etiopica, guidata dal frate Battista da Imola, missione che frate Giovanni Tomaselli, napoletano, era riuscito a indirizzare da Gerusalemme a Roma. E il pontefice inviava a sua volta al negus Eskender un'ambasciata che, presieduta da fra Giovanni da Calabria giungeva alla corte di Etiopia nel 1482.
Queste relazioni italo-etiopiche avevano portato una duplice conseguenza: da una parte, l'intensificazione, in Italia, dell'interesse per la conoscenza dell'Etiopia (e ne sono insigni testimonianze, fra l'altro, l'itinerario Venezia-Scioa e il frasario latino-amarico conservatoci da un codice fiorentino, frasario che è il più antico documento in Europa di cose linguistiche abissine; e i particolari che dell'Etiopia dà fra Mauro di S. Michele di Murano nel mappamondo compiuto da lui il 26 agosto 1460 per notizie avute "da queli proprii che sono nassudi qui"); e, d'altra parte, l'influsso italiano nella cultura etiopica. Tale benefica opera della colonia italiana in Etiopia nel sec. XV ci è attestata nella pittura (secondo l'opinione prevalente degli studiosi e, del resto, secondo un curioso passo della stessa Cronaca abbreviata etiopica), nell'architettura e nella scultura (e basti ricordare la chiesa di Gannata Ghiorghis, opera di Niccolò Brancaleone veneto, poi bruciata nell'invasione musulmana), nella musica (i Veneti avevano costruito appunto in Gannata Giorgis un "grande et ornato organo, facto alla taliana", secondo una relazione del 1482), e nella stessa letteratura, sia fornendo fonti per opere etiopiche (come è stato stabilito da C. Conti Rossini per gli Atti di S. Sebastiano - Gadla Sebestyānos - v. qui sotto: Letteratura; e come è documentato per il simbolo africano di S. Atanasio), sia provocando con discussioni lo sviluppo dell'attività culturale (come è stato per il Masḥafa Mestir scritto in seguito a conversazioni dell'autore etiopico con un italiano Messer Zan).
E la leggenda del Prete Gianni era così popolare in Italia che Andrea dei Magnabotti le faceva gran parte nei suoi romanzi cavallereschi; come più tardi Giuliano Dati (negli ultimi decennî del sec. XV) dedicava al Prete Gianni d'Etiopia un poemetto: popolareschi predecessori delle ottave dell'Orlando Furioso (canto XXXIII) nelle quali l'Ariosto dava compiuta forma poetica alle tradizioni correnti sui rapporti fra Etiopia ed Egitto, determinati dall'interesse egiziano al libero deflusso delle acque del Nilo. Intanto ancora in Etiopia dal 1523 Gerolamo Bencini era pittore di corte del negus Lebna Denghel.
Se le vicende storiche dell'invasione musulmana in Etiopia fecero assumere al Portogallo una speciale posizione nei riguardi dello stato del Negus, pure gl'Italiani ebbero grande parte nella stessa missione dei gesuiti (all'inizio della reazione anticattolica su 20 missionarî sei erano italiani) e uno di essi Francesco Antonio De Angelis, napoletano, non solo si segnalò per le sue conoscenze di etiopico e di amiarico, ma imparò la lingua agau iniziando così gli studî cuscitici. A Roma intanto la chiesa di S. Stefano, presso cui Paolo III nel settembre 1539 aveva fondato un convento etiopico, diventò il centro degli studî europei sull'Etiopia e a Roma si formarono i primi etiopisti: Teseo Ambrogio dei conti di Albonese in Lomellina, Pietro Paolo Gualtieri di Arezzo, e soprattutto Mariano Vittori di Rieti, l'autore della prima grammatica europea della lingua etiopica.
La cacciata dei gesuiti e la decadenza dello stato etiopico rallentarono, nella seconda metà del sec. XVII e poi nel XVIII, i contatti dell'Etiopia col mondo occidentale; ma la Santa Sede moltiplicò i tentativi per rimettersi in relazione col negus, tentativi nei quali perirono in Etiopia il lucano Ludovico da Laurenziana e il siciliano Francesco da Mistretta (lapidati nel 1668), Francesco da Salemi siciliano (morto in viaggio nel 1700), Michele Pio del Zerbo pavese e Samuele Marzorati milanese (lapidati nel 1716). Tuttavia Pasquale da Montella lucano riuscì nel 1697 ad accedere alla corte del negus in qualità di medico; e quasi un secolo dopo un altro lucano Michelangelo Pacelli da Tricarico (dei minori osservanti) riusciva finalmente, con un viaggio nel Tigrè (1789-1790), a riannodare le relazioni della Santa Sede col sovrano etiopico, allora regnante, negus Hezekiyās e presentava a Roma una richiesta di armi da parte del negus il quale si offriva, in cambio, di riconoscere la sovranità del litorale eritreo a quello stato cristiano che, occupatolo contro i musulmani, si fosse avanzato di là ad aiutare lui stesso Hezekiyās. Ma nel 1791 il cardinale Antonelli, segretario di stato, respingeva queste proposte osservando che "se con le armi si fosse conquistato quel territorio non si avrebbe bisogno della cessione dell'imperatore".
Intanto S. Stefano dei Mori, uno dei cui monaci, Gregorio di Makȧna Sellāsē, aveva dato al tedesco Ludolf i materiali per la Historia Aethiopica e per gli altri lavori linguistici, continuava, pur diminuito in intensità, il suo lavoro; e ancora alla fine del sec. XVIII in un episodio svoltosi alla presenza di Goethe in Roma il cardinale Albani poteva commentare scherzosamente un ritornello cantato in etiopico alla sua presenza da seminaristi di S. Stefano.
Più tardi, durante lo stesso Risorgimento, Cavour tentò di mettersi in relazione con l'Etiopia e il 15 gennaio 1857 monsignor Massaia veniva incaricato di negoziare un trattato col "principe più potente di Abissinia". E se due anni dopo, nel settembre 1859, gli avvenimenti d'Italia non permisero di dare attuazione al progetto di trattato che il padre Leone des Avanchers, savoiardo, aveva formulato col capo del Tigrè, più tardi nel 1872 Vittorio Emanuele II scambiò lettere e donativi con Menelik re dello Scioa, iniziando così i rapporti dell'Italia nuova con l'Etiopia. Intanto la missione, fondata dai cappuccini piemontesi, fruttava anche alla scienza i lavori del Massaia, del padre Giusto da Urbino, le raccolte linguistiche del padre Leone des Avanchers; e gli avvenimenti politici del 1884-1896 portando l'Italia in Eritrea davano nuove possibilità di un rinnovamento degli studî etiopici da noi. Tale rinnovamento è opera della scuola romana, il cui fondatore, Ignazio Guidi, coi suoi lavori e con quelli dei suoi allievi (Carlo Conti Rossini, Francesco Gallina, Francesco Beguinot, Ludovico De Vito) è riuscito ad affermare questa scuola, come è stato recentemente detto, "non seconda a nessuna nel campo filologico, prima nel campo storico", riprendendo così la gloriosa tradizione che abbiamo vista fiorire in Italia già nel sec. XV.
Per le esplorazioni geografiche, cui l'attività coloniale italiana nell'Africa orientale diede motivo, v. Esplorazione. Per le vicende politiche del periodo più recente v. Storia.
Bibl.: C. Conti Rossini, Storia d'Etiopia, I, Roma 1928; id. id., Aethiopica, in Rivista degli Studi Orientali, IX, Roma 1923 e 1925; I. Guidi, Bisanzio ed il Regno di Aksum, in Studi Bizantini, s. II, Napoli 1924; E. Cerulli, Documenti arabi per la storia dell'Etiopia, in Memorie della R. Accademia dei Lincei, Roma 1931; R. Basset, Études sur l'histoire d'Éthiopie, Parigi 1882; id., Histoire de la conquête de l'Abyssinie, Parigi 1897-1901; F. Beguinot, La cronaca abbreviata di Abissinia, Roma 1901; Deutsche Aksum-Expedition, Berlino 1913, voll. 4; C. Beccari, Rerum Aethiopicarum scriptores occidentales inediti (voll. 15), Roma 1906-1917; J.-B. Coulbeaux, Histoire politique et religieuse de l'Abyssinie jusqu'à à l'avènement de Menelick II, voll. 3, Parigi 1929. - Per le relazioni politiche e culturali con l'Italia v.: C. Conti Rossini, Un codice illustrato eritreo del sec. XV, in Africa italiana, I, 1927; id., Bibliografia sull'Etiopia (1915-1927), in Aevum, I, 1927; Ministero degli esteri, Trattati, convenzioni, protocolli, ecc., relativi all'Africa, I, 1906; C. De La Roncière, La découverte de l'Afrique au Moyen-Âge, Cairo 1924-1927; N. Jorga, Cenni sulle relazioni tra l'Abissinia e l'Europa cattolica nei secoli XIV e XV, in Centenario Amari, Palermo 1910; F. Suriano, Il trattato di Terra Santa e dell'Oriente, Milano 1900; A. Blessich, Michelangelo Pacelli ed il suo viaggio in Etiopia, in Boll. Soc. afr. d'Italia, Maggio 1896.
Etnologia.
Abissini. - Le vestimenta abissine sogliono consistere in un paio di pantaloni stretti alle ginocchia e sostenuti con una cintola, e in un largo mantello bianco di cotone, lo sciamma (šammā́), che viene avvolto alla persona con molta eleganza: le persone ricche hanno il mantello con una larga striscia rossa, oppure con una frangia di varî colori (margäf). I soldati, i contadini, i viaggiatori portano anche una specie di breve mantello di pelle di pecora, cui si è lasciato il pelo. I ricchi e coloro che sono insigniti di dignità, indossano anche abiti serici, e specialmente il barnú, specie di grande cappa di seta nera con guarnizioni dorate, che s'importa dall'Egitto. Le donne vestono una specie di camice lungo fino ai piedi, con ornamentazioni colorate (specialmente blu) lungo la bottoniera sul petto, e caratterizzato da lunghissime strette maniche, che si raccolgono sull'avambraccio. La grande massa della popolazione va a piedi nudi e a testa scoperta, gli ecclesiastici però sogliono portare come distintivo una specie di turbante bianco e i monaci un berretto giallo (qob). I musulmani hanno adottato il turbante. Da qualche tempo va facendosi strada, almeno fra le persone agiate, l'uso di scarpe, cappelli e altri indumenti europei. I cristiani portano al collo, maschi e femmine, un cordoncino azzurro (tigrai mā‛etäb, amarico mātäb).
Le abitazioni sono, di regola, l'antica capanna cilindrica, coperta da un tetto di ramaglia a forma di cono. A Gondar, in Adua, altrove, si hanno capanne cilindriche (dette da noi volgarmente tucul) in muratura anche a due piani: generalmente, però, si ha il solo piano terreno, senza speciale pavimentazione. Nel nord, specialmente in alcune provincie eritree (Acchelè Guzai, Hamasen), si ha altresì una casa in muratura (hudmò), di forma quadrata o rettangolare, isolata (come nello Scimezana) o attaccata al pendio del monte, che viene così a formare il lato interno dell'abitazione. Di costruzione più accurata sono le chiese. Per la massima parte hanno anch'esse la forma del tucul: le più antiche o quelle erette secondo antichi tipi sono quadrate o rettangolari, in muratura, con il tetto piatto o anche con il tetto a doppio spiovente. La parte centrale della chiesa, o sancta sanctorum, dove si custodisce il tabernacolo (tābot), è isolata da tutto il resto con muretti ed è accessibile soltanto al clero. I conventi non sono se non aggregati di tucul in prossimità della chiesa. Le armi tradizionali degli Abissini sono il giavellotto o lancia da getto, dalla cuspide piuttosto lunga a foggia di foglia d'ulivo, un largo coltellaccio ricurvo (šotäl) e lo scudo di pelle d'ippopotamo, di bufalo o di bue: nell'antichità, la loro eccezionale abilità nel lancio del giavellotto era famosa; lo scudo, rotondo, ergentesi a forma di cono, con il bordo rialzato rientrante, può essere ricoperto di caratteristici ornamenti d'argento e d'oro. Il fucile ha però scalzato le armi antiche.
L'alimentazione abissina comprende varie specie di pani, fatti con farina non lievitata, delle quali la più comune è l'engerà (enǧärā́, tigrai engērā́), specie di sottile schiacciata, fatta cuocere su una lastra di metallo; in viaggio si usa molto anche la berkuttā́, formata con farina impastata attorno a un ciottolo che si pone sulle braci ardenti del fuoco. Tra i varî cibi si menziona il bĕrundó, carne bovina che si mangia cruda in fette lunghe e sottili; però la cucina abissina conosce anche non pochi intingoli e pietanze, nelle quali il bärbärē o peperoncino rosso ha parte importante.
La famiglia abissina s'impernia sull'agnazione; ma i diritti del pater familias sulla prole non sono ampî come nell'antica Roma. L'uomo si emancipa quando abbia celebrata la festa della virilità, si sia ammogliato e, uscito dalla casa patema, abbia dimora propria: allora si considera anziano, e può intervenire nelle assemblee del villaggio. Si conoscono due specie di matrimonî: l'uno, formale e solenne, che può considerarsi quasi come un contratto fra le due differenti stirpi cui appartengono gli sposi (qāl kidān, "voce di patto"), essendo l'esogamia a base di questa forma d'unione; e l'altro (detto per dämoz o mercede), che consiste nell'accordo di un uomo e d'una donna di convivere coniugalmente insieme per un tempo determinato, contro corresponsione d'una determinata mercede del primo alla seconda; i figli di quest'ultimo matrimonio si considerano perfettamente legittimi. Il primo matrimonio è passibile di scioglimento per divorzio, e il diritto consuetudinario è, di regola, largo verso la donna. Il matrimonio per qāl kidān può anche essere perfezionato religiosamente; ma in tal caso dovrebbe divenire insolubile, onde, di regola, il matrimonio religioso non è celebrato se non da coniugi non più in età giovanile.
Il possesso del terreno, almeno nelle regioni settentrionali, è, assai di frequente, collettivo, e spetta alle varie casate componenti il villaggio, casate che spesso vantano un comune capostipite: periodicamente, in rapporto a cicli di colture varianti da regione a regione, la terra da coltivare viene divisa fra le varie casate, e da ciascuna di queste fra i varî capi-famiglia che la compongono; l'assegnatario ne ha libero e intero l'uso per tutto il periodo di assegnazione, con l'obbligo di concorrere al pagamento del tributo; decorso tale periodo, tutti gli appezzamenti vengono nuovamente raccolti in un'unica massa per procedere a una nuova ripartizione. La proprietà fondiaria può essere di due specie: o trae origine da antichissime occupazioni del suolo, da acquisti di terre libere, ecc., ed è allora vera proprietà (am. rest, tigr. restí, dal verbo warasa, "ereditare"), o proviene da una concessione di terre disponibili o demaniali fatta dal principe a favore d'una famiglia o d'una stirpe, i cui discendenti continuano a goderne (am. gult, tigr. gultí); ma anche in questo secondo caso, se i concessionarî pagano il tributo e non si rendono colpevoli di fellonia, il loro possesso diviene intangibile, e la loro terra può essere oggetto di tutti negozî giuridici che comporta un rest. D'altra specie sono i gult che un re o un capo concede ai suoi favoriti, a chiese, ecc.: questi non consistono se non nella concessione di tutti o di alcuni dei redditi fiscali della terra, del villaggio, della regione data in gult, e sono, per loro natura, affatto transitorî. Il possesso del suolo e il diritto matrimoniale imprimono una grande importanza ai rapporti di consanguineità, perché in tanto si possono avere diritti a godere della terra, in quanto si appartiene a una determinata discendenza: si vengono così a costituire le genti che popolano in tutto o in parte una determinata regione (per es., il Seraè è occupato specialmente dagli Adchemè Melgà), frazionandosi in villaggi e casate; ed è da notare che, in mancanza di leggi scritte, non raramente ogni gente si è venuta elaborando un proprio statuto giuridico.
Le continue agitazioni politiche e la scarsa intensità del poterc regale, come hanno sinora impedito la formazione di leggi generali, comuni a tutto il paese, così hanno avuto la loro ripercussione negli ordinamenti giudiziarî. Comunissimo è il giudizio arbitrale, e chiunque può dai contendenti essere scelto (šemāgellÿ); funzionano poi i tribunali dei capi-villaggio con le assemblee comunali, e quelle dei capi-distretto e capi-provincie, in grado di appello o per talune più gravi contestazioni, segnatamente in materia di possesso fondiario. In ultimo appello giudica il tribunale del re, ciò che praticamente vale soltanto per le regioni vicine alla sede reale. In materia di reati, salvo quelli in cui è offeso o minacciato direttamente lo stato, prevale il concetto di compensare l'offeso con indennizzi materiali; lo stesso omicidio si dovrebbe compensare con un guidrigildo che la consuetudine del nord stabiliva in 120 talleri, e la casistica del diritto consuetudinario è assai minuta e curiosa, considerandosi - per esempio - nei ferimenti, se il sangue sia o no colato fino a terra, se siano rimaste scoperte delle ossa, ecc. Naturalmente, quanto più forte è il potere centrale, tanto più sensibile diventa l'ingerenza dell'autorità nel colpire i fatti delittuosi con pene fisiche (morte, mutilazione, sferzate, ecc.).
Nelle consuetudini giuridiche abissine ha grandissima importanza il garante: ogni transazione giuridica, ogni impegno a dare, fare o non fare una cosa deve essere assistita dalla costituzione di un garante che risponda per l'obbligato. Altro istituto importantissimo nell'etnologia giuridica abissina è l'amarico feṭem, tigrino feṣmí: ogni convenzione, ogni assunzione d'impegni è consacrata dalla pronunciazione d'una formula, proposta dall'un contraente all'altro, che suona negus ymút, lett. "muoia il re!", cioè "che possa morire il re se questo accordo sarà violato!": la violazione del patto mette il violatore in stato di rottura con il governo, cui egli dovrà per questo semplice fatto, una multa che, almeno nel nord, è uguagliata al guidrigildo.
Il ghezzí (tigr. gäzi) è l'intimazione che si fa ad alcuno per imporgli di fare o non fare una cosa, per es. da chi si teme in pericolo contro colui che lo minaccia, da chi vuol convocare altri in tribunale, ed è fatta, nel Tigrè, con la formula zebā́n negus "per la schiena del re!" colui contro il quale è fatta l'intimazione si rende passibile, non attenendovisi, di una multa a favore dello stato pari a metà del guidrigildo, o dell'ammontare eventualmente enunciato dall'intimante nel pronunciare la formula; se la formula è stata pronunciata ingiustamente, l'intimante stesso deve corrispondere una multa di pari ammontare.
Le altre popolazioni nell'Etiopia. - Tra le popolazioni dell'Etiopia non abissine gli Agau sono forse quella che più è stata ridotta e di numero e d'indipendenza culturale dalla conquista abissina. Tuttavia, e anzi proprio per questo, l'isolamento dei superstiti nuclei di Agau è proverbiale: "Perché fermarsi alla porta degli altri? L'Agau è per l'Agau". Il paganesimo agau, come dappertutto presso le genti cuscitiche, aveva a sua divinità suprema la volta celeste, il Dio-Cielo, che si venerava sulle vette dei monti. Tipiche degli Agau sono le grotte fortificate, rifugio di questi montanari contro le razzie e le spedizioni armate che nei secoli li hanno cacciati. Talune genti Agau convertite al giudaismo hanno formato il gruppo Falascià (v.), che oggi va scomparendo.
A sud del Nilo Azzurro i Sidama sono stati, anche etnicamente, più influenzati da Niloti e Negri che non gli Agau. Nel paganesimo sidama, accanto al Dio-Cielo che ha per occhio il sole, appare il concetto tipicamente negro delle divinità minori, che a mezzo di speciali riti possono essere costrette a incarnarsi in iniziati per la cui voce dànno poi responsi e ordini. Nel Caffa il re fu costretto, per limitare la potenza degl'iniziati al rito di Doccio (una di queste divinità incarnantisi), a far ammettere che le massime manifestazioni si avevano quando Doccio si incarnava nel re stesso. Una gente Sidama, gli Zingerò o Yam dell'alto Gibè, è la sola popolazione etiopica che abbia conservato sino ai giorni nostri i sacrifici umani, periodicamente compiuti nei varî mesi dell'anno; pare si tratti di un rito espiatorio. Gli Zingerò stessi hanno anche l'uso di escidersi uno dei testicoli, essendo il biorchidismo privilegio dei Mwā, loro dinastia regnante.
I Sidama, come i Guraghie e altre genti dell'Etiopia meridionale, usano, a loro difesa, abitazioni situate in fitti boschetti di Musa ensete, che, cingendo la capanna, ne proteggono tutti gli accessi. Era quindi uso, mlle guerre locali, imporre ai vinti il taglio delle ensete intorno alle capanne: ciò che ne limitava per un certo tempo i mezzi di difesa.
I Galla hanno mutuato la loro struttura sociale dai Negri; e i gadā delle tribù Galla sono le classi d'età dei Negri Bantu. Egualmente non cuscitico è l'uso delle statuette funerarie di pietra o di legno: uso recentemente segnalato presso i Galla. I Borana pare usino seppellire i morti in posizione rannicchiata dopo aver "preparato" l'agonizzante legandolo con liane.
Analoga consuetudine hanno le genti Ghimira (Sidama occidentali) che l'hanno appresa probabilmente dai Niloti.
Tutte queste popolazioni (Agau, Sidama, Galla) considerano come di bassa casta alcune genti dedite alla caccia che vivono sparse nell'altipiano. Tali i Wata, cacciatori abitanti con i Galla; i Mangio, cacciatori del Caffa; i Mana, cacciatori e conciapelli, viventi con i Sidama dell'Omo. Queste genti, che non si uniscono in matrimonio con i Galla, Agau, ecc., hanno spesso un loro gergo che sembra conservi tracce della loro storia etnica. Probabilmente in esse si sono sovrapposte stirpi di "paria" dei varî invasori a un qualche nucleo primitivo di autoctoni assoggettati antichissimamente.
La sola gente sicuramente nilotica compresa entro gli attuali confini dell'Etiopia è quella dei Miekèn (detti Sciuro o Suro dai Caffini), abitanti la bassa valle dell'Omo. Una costumanza caratteristica dei Miekèn è quella di conservare i cadaveri, avvolti in pelli bovine, appesi entro la capanna della famiglia; e ciò sin quando non sia possibile compiere il rito delle offerte e dei banchetti funerarî.
Bibl.: Per gli Abissini, oltre le varie relazioni di viaggi, v.: M. Cohen, Documents éthnograph. d'Abyss., Roma 1920; C. Conti Rossini, Manuale di diritto consuetudinario dell'Eritrea, Roma 1916. - Per le altre popolazioni dell'Etiopia, v.: C. Conti Rossini, Note sugli Agau, in Giornale della Società Asiatica Italiana, Firenze 1905; id., Mekan o Suro ed il loro linguaggio; E. Cerulli, Etiopia occidentale, I, Roma 1930; id., The folkliterature of the Galla of Southern Abyssinia, Cambridge Mass. 1922; R. Biasutti, Pastori, agricoltori e cacciatori nell'Africa Orientale, in Boll. d. Società geogr. italiana, 1905; E. Cerulli, Il gergo delle genti di bassa casta della Somalia, in Festschrift Meinhof, Amburgo 1927.
Lingue.
Dal punto di vista linguistico l'Etiopia presenta una situazione alquanto complicata, dovuta, per la parte centrale, al sovrapporsi di razze o popoli diversi sullo stesso territorio, conservando ognuno più o meno lungamente il proprio linguaggio, e dovuta altresì, per le contrade periferiche, al flusso e riflusso di razze e di popoli verso il grande massiccio montano o, giù da questo, verso le grandi vallate e le pianure sottostanti. Le speciali condizioni geografiche del paese, consentendo anche a piccoli nuclei etnici di difendere lungamente le proprie caratteristiche, han trasformato la Etiopia in un vero museo linguistico. Non senza ragione corse per molto tempo l'etimologia popolare di stampo arabo, che spiegava "Abissinia" come "commistione, confusione di popoli", dal verbo arabo ḥabasha "radunare". Si avverta che, segnatamente per le regioni occidentali e meridionali, la conoscenza e lo studio scientifico dei linguaggi sono ancora assai imperfetti; onde nuovi linguaggi potrebbero venire constatati, che oggi non si conoscono, e la classificazione di altri sinora mal noti potrebbe subire modificazioni. In generale si può fare dei linguaggi d'Etiopia una grande classificazione: 1. ceppo semitico; 2. ceppo cuscitico o camitico; 3. ceppo nilotico; 4. linguaggi di ancor dubbia classificazione. Non si hanno oggi sufficienti elementi per affermare l'esistenza di nuclei a lingue bantu, ove si prescinda dalle genti d'origine servile che di recente si sono andate stabilendo nella bassa vallata del Giuba italiano.
Ceppo semitico. - L'antica lingua etiopica o ge‛ez (v.) probabilmente parlata in varî dialetti, anche in rapporto alle varie provenienze degli antichi colonizzatori semitici dell'Africa, è spenta da molti secoli come lingua parlata (per il suo uso letterario, v.: Letteratura). Essa ha dato luogo a varî linguaggi, che possiamo riunire in almeno tre gruppi. Appartengono al gruppo settentrionale il tigrè ed il tigrino (tigrai, tigraico o tigrigna). Il tigrè è parlato da popolazioni prevalentemente di pastori nella parte settentrionale dell'Eritrea, nel Samhar, dalle tribù Mensa, Maria, Ad Temariàm, Ad Taclès, Habàb, Alghedèn, Sabderàt, da molte frazioni Beni Amer; è la lingua di Massaua e delle isole Dahlac, onde va dal mare alle porte di Cassala (v. eritrea); è inteso e parlato da popolazioni bilingui, come i Bileni e varie tribù Begia del Barca, dell'Anseba, del confine settentrionale d'Eritrea. Il tigrino (tigrā́y nome indigeno, tigriññā nome amarico) è parlato nel Tigrè propriamente detto, nelle provincie meridionali dell'altipiano eritreo (Hamasen, Seraè ed Acchelè Guzai), in qualche distretto ad occidente del fiume Takkazè (Ṣallamti, ecc.) e nel Uolcait (Wolqāyṭ).
Il gruppo centrale è costituito dall'amarico (amārĭññā, nome indigeno) o lingua dell'Amhara, parlato, oltre che in questa provincia, anche nello Scioa, nel Lasta, nel Goggiam, nel Damot, nel Baghiemeder, nelle provincie a nord del Tana, nel Quara, nel Uoghera e nel Semien. È oggi la lingua ufficiale dell'Abissinia; un dialetto speciale, ancora mal conosciuto, l'argobba (v. amarica, lingua e letteratura).
Il gruppo meridionale comprende varî linguaggi, a torto considerati da taluno come derivazioni dell'amarico, e la cui riunione in un gruppo unico ha carattere essenzialmente geografico: lo hárari, parlato nell'omonima città, e il guraghie, la cui zona può, all'incirca, dirsi compresa fra il sistema del lago Zuai ad est e il fiume Omo ad ovest, e che va suddiviso in dialetti sensibilmente diversi l'uno dall'altro (ciahà, aimellel, ulbarag e gogot). Si menziona in ultimo il gafàt, da comprendersi in quest'ultimo gruppo, e che, parlato in antico da parecchie tribù sulla sinistra del Nilo Azzurro, alla metà del sec. XIX restava soltanto presso poche genti stabilite nel Goggiam.
L'arabo, che rappresenta un'altra famiglia linguistica, è parlato da qualche piccolo nucleo stabilito nel settentrione d'Eritrea (Rasceida) o da altri nuclei insediati nei centri abitati del litorale marittimo.
Ceppo cuscitico. - Comprende 4 sottogruppi: 1° sottogruppo, settentrionale o begia. È parlato da tribù Begia insediate nelle regioni settentrionali dell'Eritrea (vallate del Barca, dell'Anseba, del Tabeh), e si presenta nei due linguaggi dei Beni Amer e degli Hadendoa, di cui qualche frazione è scesa nella regione etiopica. Nel Taca, attorno a Cassala, vi è un terzo linguaggio Begia, quello degli Halenga; 2° sottogruppo, centrale, alto-cuscitico o cuscitico propriamente detto. È parlato dagli Agau, che furono la popolazione dell'Abissinia propriamente detta prima della semitizzazione del paese. Sopravvive in zone qua e là disseminate, sull'Anseba, nel Tigrè meridionale, nel Lasta, nel Semien, nelle regioni a nord e ad ovest del Tana, nel Damot e nell'Agaumeder. Di regola, è parlato nell'uso interno di famiglia o di villaggio: per i rapporti esterni, le stesse popolazioni a lingue agau conoscono, a seconda dei casi, il tigrè, il tigrino, o l'amarico; 3° sottogruppo, basso-cuscitico o cuscitico sudorientale. Va dal golfo di Arafali (Iḷāfalo) al fiume Tana e al Lago Stefania. Comprende: a nord, il saho, parlato dalle omonime tribù nomadi tra il golfo d'Arafali, la penisola di Buri e i contrafforti orientali d'Acchelè Guzai e d'Agamè; il dancali o afar, nell'omonima regione, tra i monti orientali d'Abissinia e il mare; il somali; il galla; 4° sottogruppo, Sidama. Ne fa parte anzitutto il caffa, parlato nell'omonima regione, con due ramificazioni, lo scinascia, parlato da tribù a occidente del fiume Dura e nella prospiciente regione a sud dell'Abai, compreso il territorio di Locmàn, e l'affillò, parlato da altre tribù di uguale lignaggio presso la frontiera occidentale d'Etiopia, tra Walleggà e Gambela. Un ramo orientale comprende il gudiellà (detto hadià dagli Abissini e dai Galla) nella regione di Hadià, compreso il Cabiena; il cambatta o tambaro, immediatamente a sud del precedente, nelle due provincie dette appunto Cambatta e Tambaro, con due dialetti distinti, e negli attigui territorî di Donga e Danta; il sidamo propriamente detto, nel territorio che dal NE. del Lago Margherita va sino alle alte vallate del Uebi Sidama e al Magna. Probabilmente a questo stesso gruppo appartiene il gatsamba o gatsamo, di cui si avvalgono gli abitanti di isole del lago Margherita, e fors'anche il linguaggio dei Badditu o Coira, stabiliti sui monti a sud-est di quel lago; mentre i Bambala di Amar Burgi sembrano avvalersi di un linguaggio di transizione fra il galla e il sidama, come (a quanto si dice) altre popolazioni p. es. i Giamgiam e i Darasa.
Vi è infine un ramo meridionale, a sud del Tambaro e del Caffa, nella valle dell'Omo, gruppo che sembra portare il nome generale di daurò; il principale suo linguaggio è il ualàmo o ualaitsa, parlato a s. della provincia di Tambaro, fra l'Omo e la parte settentrionale del lago Margherita; un dialetto sarebbe il cullo, nella omonima regione a O. dell'Omo. Appartengono a questo gruppo (non sappiamo se sempre come vere lingue o non piuttosto come semplici dialetti) i parlari di distretti più meridionali, il malò, il gofa, il docco, il dollo. La punta più meridionale sarebbe rappresentata dal dialetto degli Aro.
Ceppo nilotico. - Di ceppo sicuramente nilotico è il cunama, parlato nel NO. dell'Eritrea; suole esservi ascritto anche il baria, parlato a N. del precedente, nella regione di Mogolo ecc. Sono certamente nilotici anche taluni linguaggi delle estreme regioni meridionali, il mecàn o suro (bassa valle dell'Omo e vallate a O. di esso), parlato anche dai Murzù; il kerre, alquanto a S. dei Murzi; il murlè, a S. del kerre, che sembra incrocio di mecàn e di turcana; il bumè alla foce dell'Omo nel lago Rodolfo, che è un dialetto Turcana e che quindi collega le regioni etiopiche col gruppo meridionale dei Niloti.
L'esplorazione delle regioni occidentali e meridionali dell'attuale regno d'Etiopia accrescerà certamente la lista dei linguaggi ivi parlati: di alcuni si ha vaga notizia (p. es., duncur, magi, conso), di altri si hanno scarsi malfidi elementi, di altri probabilmente s'ignora l'esistenza. È verosimile che abbia a crescere segnatamente il numero dei linguaggi di tipo nilotico, o, almeno, di quelli di transizione, fra il nilotico ed il cuscitico, rappresentanti il più volte millenario attrito fra le due razze. Si rammentano intanto il gunza, ad occidente dell'Agaumeder, fino all'estrema curva meridionale del Nilo, che oltrepassa; il berta o gamilà, sulla frontiera tra Fazogli ed Etiopia e nella bassa vallata del Dabùs verso la confluenza col Nilo Azzurro; il naa, o nao, a sud del Caffa, con dialetti nei distretti Sciacco e Bacci (fra i Ghimira) e nel Gurra-farda (dizi-dorsa); il ghimira o sce fra i Ghimira o Sce, pure a sud del Caffa e nei distretti di Dizu e di Sce Bennescio; il mesongo, nella vallata del Baco ove esso esce di fra i monti, ecc.
La scrittura etiopica il cui uso dalla lingua etiopica classica geez è passato all'amarico (v. amarica, lingua e letteratura), ed al tigrino e tigrè, deriva da quella sud-arabica. All'inizio le colonie degli Arabi meridionali in Africa Orientale continuarono a usare l'alfabeto sud-arabico. Successivamente questo appare modificato: alcuni ritenevano ad opera di un riformatore, altri invece - tra cui il Conti-Rossini - per una lenta trasformazione di cui mancano documenti per la scarsezza del materiale epigrafico. Questa seconda ipotesi è quella oggi accettata. Così si fissano alcune importanti novità grafiche: la costante scrittura da sinistra a destra (forse per influsso greco); la separazione delle parole mediante lineette perpendicolari sostituite (più tardi) nei manoscritti da due punti; la vocalizzazione che si viene a fissare in sette ordini corrispondenti alle vocali brevi e lunghe del linguaggio etiopico. Recentissimamente nelle pubblicazioni fatte ad opera di Scioani dopo il regno di Menelik sono apparse nuove proposte di modificazioni: la soppressione dei punti divisorî tra le parole (vedi sopra); l'interrogazione espressa mediante tre punti; un segno, infine, per indicare il raddoppiamento della consonante (due puntini sovrapposti alla lettera). Come numerali furono adottati quelli greci che sono ancor oggi in uso.
Il primo documento di scrittura etiopica è l'iscrizione dell'obelisco di Matarà nello Scimezana (Eritrea); la prima iscrizione vocalizzata appare, allo stato attuale degli studî, esser quella che si riferisce alla spedizione del negus ‛Ezanā contro gli Aguēzāt (sec. IV d. C.) trovata in Aksum (Tigrè).
Bibl.: C. Conti Rossini, Storia d'Etiopia, I, Roma 1928; A. Grohmann, Über den Ursprung und die Entwickelung der äthiopischen Schrift, in Archiv F. Schriftkunde I, nn. 2-3; al Maqrīzī, Kitābl-ilmāmá, Cairo 1893; al-‛Umarī, Masālik al-abṣār, trad. Gaudefroy Demombynes, I, Parigi 1927, p. 21.
E. Cer.
Letteratura.
Delle lingue attualmente parlate in Abissinia e nelle dipendenti regioni, quasi esclusivamente l'amarica ha assunto una qualche importanza letteraria. Lo hárari ha una sua piccola letteratura (specialmente poetica e giuridica), finora però non illustrata. Il tigrai è stato scritto soltanto occasionalmente (per es., Statuto dei Loggo Sarda), all'infuori s'intende di quanto ha potuto venire steso per opera o influsso d'Europei. Le altre lingue non hanno se non letteratura orale, e quello che ne è stato raccolto per iscritto (tigrè, bileno, saho, dàncali, somàli, galla, caffa) lo fu tutto per opera di Europei.
Letteratura etiopica. - Letteratura antica. - Abbastanza notevole sviluppo letterario ebbe l'antica lingua etiopica (ge‛ez), la quale permane tuttora quasi esclusivamente nell'uso liturgico, come fra noi il latino; e fino a ieri era praticamente la sola lingua scritta, come il latino fra noi nel Medioevo, impedendo con ciò stesso ad altri linguaggi di sollevarsi dallo stato di semplice volgare. Dato poi che in Etiopia la cultura era accentrata nelle mani del clero, la letteratura etiopica ha prevalente carattere religioso ed ecclesiastico; inoltre per la parte maggiore consta di traduzioni il cui valore è talvolta costituito dal fatto che i testi originali, da cui provengono, sembrano scomparsi, o almeno ci sono ancora sconosciuti. Quanto poté venire scritto nei tempi del paganesimo andò perduto, salvo non numerose iscrizioni incise nel sasso. Perciò la letteratura etiopica è esclusivamente cristiana. Gli stessi Falascià presero a prestito dai cristiani le Sacre Scritture e buona parte della ristretta loro letteratura, o, quanto meno, imitarono scritti cristiani.
La letteratura etiopica può dividersi in due periodi. Il periodo antico, dal IV-V secolo fino al sec. VII circa d. C., è caratterizzato da traduzioni dal greco; il periodo successivo ha inizio verso il sec. XIII, è caratterizzato da traduzioni dall'arabo e vede svolgersi anche una produzione diretta.
Le traduzioni del periodo antico comprendono principalmente quelle dei libri dell'Antico e del Nuovo Testa mento: verosimilmemte gli Evangeli furono i primi ad essere volti in etiopico. Essi riproducono una recensione siro-occidentale, che rivela l'origine dei missionarî dai quali erano apportati nelle terre di Altsum; e molto probabilmente la loro versione fu opera, almeno per una parte notevole, di questi stessi missionarî; anzi, secondo una tradizione, l'evangelo di San Matteo ebbe veste etiopica appunto da un d'essi chiamato Mattà (Maṭa‛ = siriaco Matā, "Matteo") o Libanos, che vi attese durante la sua permanenza in Eacla. Successivamente furono tradotti gli altri libri: il siracide sembra portar la data della sua versione, il 678. Il valore di queste versioni è assai vario: talora il testo etiopico può validamente concorrere allo studio critico ed esegetico del testo primitivo, talora più che di traduzione è da parlare di compendio. Per di più, sia che stilisticamente le prime versioni apparissero poco corrette o meno conformi all'uso della lingua parlata, sia che nuovi testi greci con nuove redazioni trovassero miglior gradimento in paese, il testo etiopico fu sottoposto a una o più revisioni, in base a recensioni greche differenti da quelle su cui la prima versione era stata condotta. Oltre che i libri canonici, si tradussero numerosi apocrifi, né soltanto di quelli compresi da talune chiese fra i libri canonici, come la sapienza di Salomone, il Libro di Giuditta, quello di Tobia, il 4° libro dei Giubilei o Piccola Genesi (in etiopico Kufālē), il Libro del Pastore di Erma, quello dell'ascensione di Isaia, quello di Enoch, ecc. Sotto questo aspetto la letteratura etiopica ha reso preziosi servigi agli studî sull'antica letteratura cristiana, conservandoci apocrifi il cui testo sarebbe altrimenti andato perduto; anzi, per parecchio tempo, appunto tali scritti costituirono il maggiore interesse degli studî di letteratura etiopica, che fu perciò detta ancella della teologia. Altre traduzioni sono delle regole monastiche di San Pacomio; del libro detto Fisalgos o Physiologus, specie di trattatello di storia naturale ispirato a criterî religiosi; forse degli atti di taluni martiri della chiesa egiziana. Pure nell'antico periodo venne composta una grossa raccolta di numerosi scritti di ecclesiastici di Siria, d'Asia Minore ecc., scritti spesso non più conosciuti altrimenti e riguardanti questioni cristologiche e altre dibattute in quei tempi: la raccolta è detta Qērĭllos "Cirillo" perché vi hanno parte importante omelie ed estratti di opere di Cirillo patriarca d'Alessandria. Il Qērĭllos ha intenti monofisitici, e molto probabilmente fu compilato, o almeno diretto nella sua compilazione, da ecclesiastici sirî alla corte di Aksum, cui erano a cuore i buoni rapporti di questa con la corte bizantina.
Dopo il sec. VII, per circa cinque secoli, non si ha traccia di attività letteraria in Abissinia, il che non può non stupire, sia per la lunghezza del periodo, sia perché appunto durante questo cade il tempo della maggiore attività letteraria dei Copti (ed è d'altra parte dimostrato che le relazioni fra Abissinia e patriarcato alessandrino non subirono troppo lunghe interruzioni), sia perché la lingua greca e libri greci continuavano nello stesso periodo a usarsi nella Nubia cristiana, onde pur quella vena non doveva essere del tutto troncata per gli Etiopi. A ogni modo la ripresa sembra aversi nel sec. XIII, con versioni dall'arabo o con lavori ispirati all'arabo.
Ai tempi di re Yāgbe'a Ṣyon (morto nel 1294) sembra tradotto il Libro della Visione del profeta Habacuc in Qartasā. Poco dopo, fra il 1314 e il 1322, un Yeṣhaq, nebura ed di Aisum, col concorso d'altri ecclesiastici e sotto il patronato di Yā‛bika Egzi'capo del Tigrè, compone una delle maggiori opere della letteratura etiopica, il Kebra Nagast "Gloria dei Re", specie di romanzo religioso sulla regina di Saba, su Salomone e sul loro figlio Menelik, romanzo che doveva mirare a glorificare e consolidare la dinastia salomonide testé sorta nell'Amhara: la comparsa stessa di un'opera siffatta è prova che si è in tempo di piena attività letteraria. E infatti si traducono dall'arabo omelie, preghiere, vite di santi. Altre preghiere, poesie religiose, vite di santi indigeni, persino la storia delle guerre di re ‛Amda Ṣyon nel 1332 contro i musulmani, forse un primo testo degli usi di corte (Ser‛ata mangest), sono stesi in etiopico. Nella prima metà del sec. XIV abbā Giyorgis di Gāseččā compone il libro delle Ore. Prima del 1379 si traducono gli Atti apocrifi degli Apostoli, e forse verso il tempo stesso anche la Didascalia. Il metropolita Salama, venuto in Etiopia nel 1348-9 e morto in Ḥaqalēt nel 1387-8, imprime grandissimo impulso al movimento, promuovendo una generale revisione del testo delle Sacre Scritture che amanuensi e secoli avevano assai alterato, e facendo tradurre o traducendo egli stesso vite di santi e di martiri (come quelli di Abba Nob = Apa Anoub, d'Abakerazun, di Giusto, Ippolita e Tecla), l'ufficio dei defunti, il trattato di Filosseno vescovo di Mabbūg, ecc. Anche dopo, il movimento, sia in Etiopia, sia nei conventi d'Egitto e di Gerusalemme ove si raccoglievano i pellegrini abissini, continua intenso. Un Sem‛on nel convento egiziano di Sant'Antonio traduce nel 1397 gli Atti di San Basilide: lo stesso traduce il sinassario. Absādi, fondatore di Dabra Mariam (Dabra Māryām) in Eritrea, ci è presentato come zelante raccoglitore di libri e propulsore di studî.
Nel 1424 abbā Giyorgis da Saglā stende un trattato di confutazioni di eresie, dopo discussioni con un europeo, Messer Zan, verosimilmente un veneziano, cui le lettere e la chiesa d'Abissinia debbono anche altri scritti. Col re Zar'a Yā‛qob il movimento giunge all'apogeo. Il re stesso è autore di parecchie opere, anche voluminose: in una di esse, di discussioni contro i Giudei, Maṣḥafa Milād "Libro della natività", egli inserisce una interessante relazione sulla sua guerra contro il re musulmano Aḥmed Badlāy; in un'altra, Maṣḥafa Mesṭir, diretta a stabilire l'osservanza del sabato, ha altri importanti accenni ad avvenimenti del suo tempo; una terza, Egzi'abeher nagsa "Dio regna", consta di brevi inni ai santi per tutti i giorni dell'anno. Fra i molti prodotti del suo tempo ricordiamo la traduzione dei Miracoli di Maria, opera che riceve varie redazioni, anche di carattere indigeno, ed è assai importante per la sua influenza sull'arte indigena, ed il Libro dei Misteri del Cielo e della Terra (Maṣḥafa mesṭira samāy wa meder), uno dei più curiosi prodotti della letteratura abissina: è un'opera esoterica, che, per rivelazioni e con simboliche spiegazioni, vuole far conoscere a qualche iniziato quanto profeti ed apostoli non conobbero, e sembra contenere la dottrina d'una setta scismatica, secondo gl'insegnamenti impartiti da un Baḥayla Mika'hl all'autore Yesḥaq, verosimilmente un Eritreo, forse dell'Acchelè Guzai. Un'altra setta eretica, diffusa specialmente in Agamè e nelle vicinanze, setta che pone il suo centro in Gundagundi, ha una sua piccola interessante letteratura, la cui principale manifestazione sono gli Atti d'un suo seguace, Abakerazun, che hanno pagine piene di vita. I successori di re Zar'a Yā‛qob non si allontanano dalla via da lui tracciata in questo campo; la vedova di lui, Ellēni, celebrata anche per le belle sue costruzioni di Marṭula Māryām in Goggiam, compone due collezioni di sue preghiere, una delle quali, detta Ṣadāla ṣahay "Splendore del Sole", è giunta fino a noi; suo figlio, il re Ba'eda Māryām, è autore di due malke‛e in onore di San Michele e dell'Eucaristia, essendo il malke‛e una specie di poemetto lirico, ogni strofa del quale incomincia con la salutazione (salam) a una parte del corpo dell'essere lodato e si svolge in laudi per essa; il re Nā'od è, a sua volta, autore di un malke‛e in onore della Vergine, di un altro poemetto in onore di lei, e di parecchie brevi poesie religiose, conservateci in un codice del British Museum; il re Lebna Dengel, infine, continua a proteggere lettere e letterati, onde ai suoi tempi, specialmente nella prima metà del suo regno, nuove opere vengono ad arricchire la letteratura nazionale, tra cui si possono rammentare la traduzione della Vita del martire Giorgio di Lydda, fatta nel 1510 da un Mikā'ēl, in aggiunta ai Miracoli di quel santo tradotti nel 1487 o 1488, la traduzione delle voluminose opere ascetiche di Giovanni Saba (Aragāwi manfasāw), forse quella della storia di Girgis ibn al-‛Amīd al-Makīn, la redazione di storie dei predecessori del re, ecc.
Può ben dirsi che appunto i sec. XIV e XV abbiano segnato il massimo fiore delle lettere etiopiche. Strano a rilevarsi: fra tante opere passate dall'arabo o redatte in etiopico vi è un'operetta - Gli Atti di San Sebastiano - tradotta dall'italiano. Nel sec. XV, o assai più probabilmente al principio del XVII, fu tradotta dall'arabo in etiopico la raccolta di diritto canonico e di diritto civile (quest'ultimo in parte attinto a diritto musulmano e in parte a libri giuridici bizantini) che era stata composta in arabo intorno alla metà del sec. XIII dal copto egiziano Ibn al-‛Assāl e che nella traduzione etiopica prese il titolo di Feṭḥa Nagast, ossia "Diritto dei Re". La grande invasione di Grāñ arresta, non fa cessare del tutto questa attività: nel 1540 un Marqoryos traduce delle preghiere dall'arabo, e lo stesso procede alla revisione di alcuni dei libri biblici sull'originale ebraico. Vinto Grāñ, i re Galāwdēwos e Sarṣa Dengel riprendono a favorire le lettere. ‛Enbāqom, musulmano d'origine, che per breve tempo giunge ad occupare la suprema carica di Dabra Libānos, oltre a minori cose, traduce nel 1553 il romanzo di Barlaam e Ioasaf, e, poco dopo il 1563, la grande opera cronografica d'Abū Shākir. Salik, di Dabra Libanos, nel 1583 finisce la versione d'una delle più voluminose opere della letteratura abissina, una specie di enciclopedia teologica, detta il Maṣḥafa Ḥawi. E si vuole che verso lo stesso tempo venisse, tradotta, da un Mabā'a Ṣyon figlio di ras ‛Amdu, un'altra delle maggiori opere teologiche abissine, lo Hāymānota Abaw "Fede dei Padri". Nel 1602 si traduce l'importante Lronaca di Giovanni di Nikiu, il cui originale sembra perduto. Ma ormai l'età delle traduzioni è finita. Rimane però l'impulso nella produzione indigena: anzi le molte controversie religiose, segnatamente quelle sollevate dai cattolici, dànno origine a una certa quantità di scritti polemici. Indipendentemente da questi, si hanno parecchie opere originali al tempo di Malak Sagad sembra essersi composto un romanzo indigeno sulle vicende leggendarie d'Alessandro Magno; nel convento di Dabra Māryām viene redatta una raccolta d'inni religiosi, il Mazmura Krestòs "salterio di Cristo"; per iniziativa del re, abbā Gērā e abbā Ḥabla Sellāsē dànno la forma attuale al Degguā, poderosa raccolta d'inni sacri, che pur non rimontando verosimilmente a Yārēd (sec. VI) come vuole la tradizione, deve essere abbastanza antica.
Praticamente può dirsi che - salvo nel campo storico - il movimento letterario abissino si esaurisce col re Malak Sagad e coi suoi immediati successori: la traduzione del Faws Manfasāwi "Medicina spirituale" per ordine della regina Sabla Wangēl, verso il 1687 è un'eccezione; nel sec. XVIII, coi re Iyāsu II e Iyo'as e con la regina Mentewwāb, si ha bensì una ripresa d'attività, ma essa si limita alla copia di codici, giungendo allora la calligrafia abissina al massimo punto di regolarità e di bellezza. Sulla letteratura e sulla cultura indigene si ripercuotono le devastazioni di Grāñ, che aveva distrutto un'infinità di chiese e conventi con le annesse biblioteche, le invasioni e le immigrazioni non meno devastatrici dei Galla, la progressiva decadenza e l'imbarbarimento del paese, le lotte religiose dapprima fra cattolici e monofisiti quindi tra le varie sette monofisite, lotte che assorbono tutta l'attenzione del clero e dei letterati, come nelle peggiori età di Bisanzio.
Un solo ramo va eccettuato. Il sec. XIV e, più, il XV, si erano segnalati per l'interesse dato all'agiografia indigena, onde si stesero gli Atti (gadl) di molti abati e monaci contemporanei o morti da non molto tempo, nei loro stessi conventi e a volte per opera di loro discepoli e compagni (p. es. Atti di Baṣalota Mika'ēl, d'Anorēwos, di Filippòs di Dabra Libānos, d'Ēwosṭātēwos, di Absādi, di Filippòs di Dabra Bizan, ecc.). Nei secoli successivi la letteratura agiografica, non raramente importante anche per la storia del paese, non cessa del tutto, così che si hanno nel sec. XVI gli Atti di Mātyās di Addi Chè (Eritrea); nel XVII quelli di Marqorēwos di Dabra Demāh (Dembelas), e di Walatta Pēṭros acerrima nemica dei cattolici; nel sec. XVIII quelli di Zar'ā Buruk e di Abrānyos (morto nel 1718), il più recente dei santi abissini a noi noti. Ma più dei gadl si coltiva la storia dei re, della quale per i secoli precedenti non si conoscono se non saltuarie narrazioni. Da Lebna Dengel fino ai tempi di re Teodoro, con rare lacune, si stendono per iscritto le vicende del paese, per cura di storiografi viventi alla corte reale, e che risulta leggessero talvolta ai loro stessi sovrani le cronache da essi redatte: di questi storici si conosce spesso anche il nome. Fra essi il più notevole è la storico di Malak Sagad, forse chiamato Takla Hāymānot; alcune pagine della sua opera figurerebbero bene anche in una letteratura più evoluta, mentre sono degne d'encomio la precisione della sua esposizione e l'equanimità dei suoi giudizî, p. es. verso gli Ebrei, cui il suo re mosse una guerra accanita. A fianco degli storiografi ufficiali se ne hanno di privati; onde per taluni periodi si hanno più fonti scritte, animate da spirito e tendenze difformi. A parte sono da rammentare una relazione sui Galla, stesa verso la fine del sec XVI da un abbā Bāḥrey, importante non solo per l'argomento ma anche per uno spirito d'indagine sulle cause della rovina dell'Etiopia, e la cronaca abbreviata dei re d'Abissinia, opera di parecchi autori e di più secoli, la quale, partendo da una relazione sulle guerre fra Grāñ e i cristiani, è stata condotta al sec. XVIII, e, in una redazione, Änche al XIX, utilizzando notizie dirette degli scrittori o fonti da noi non ancora conosciute.
Letteratura moderna. - Come si è visto, l'etiopico (ge‛ez) ha ceduto soltanto nello scorso secolo all'amarico, nella letteratura scritta. L'ultima cronaca reale redatta in ge‛ez è quella che giunge al 1840; e la prima in amarico è quella del negus Teodoro II (1855-1868). Attualmente il clero e i dotti usciti dalle scuole ecclesiastiche usano l'etiopico quasi soltanto in poesia; e gli avvenimenti dell'ultimo cinquantennio hanno dato sviluppo anche ad una piccola letteratura etiopica moderna.
Da ricordare gli scritti di argomento grammaticale, lessicale, ecc., di Abbā Takla Māryām Walda Samhārāy; le poesie cui hanno dato argomento le imprese di Menelik II (ad esempio il poemetto pubblicato dalla missione Duchesne Fournet); il Salterio di Cristo dello alaqā Tāyya; il Vanto dei fedeli di un Walda Iyasus (entrambi di argomento religioso). Maggior uso è stato poi fatto degl'inni (qenē; v. sotto: La chiesa di Etiopia) che sono serviti ancora negli scorsi anni al clero etiopico per manifestare nella forma tradizionale il suo attaccamento all'avita cultura e, qualche volta (come, ad esempio, nella recentissima polemica per la successione del Metropolita Matteo), le sue idee sull'ordinamento della chiesa o altri soggetti attuali. Questi inni etiopici vengono regolarmente pubblicati nei giornali di Addis Abeba ed ultimamente il noto scrittore Ḥeruy Walda Sellāsēne ha redatto una voluminosa raccolta che, unendo ad esempî della poesia etiopica più antica questi inni dei nostri giorni, vuole attestare la continuità di queste manifestazioni letterarie in lingua etiopica (ge‛ez).
Letteratura amarica. - I primi documenti letterarî in lingua amarica risalgono al sec. XIV (v. amarica, lingua e letteratura). Ma solo in questi ultimi anni la politica progressista dell'imperatrice Zauditu e del suo successore Ḫāila Sellāsē ha dato qualche impulso alla produzione letteraria in lingua amarica.
Dalle tipografie dei missionarî cattolici e protestanti erano già usciti prima dell'avvento della nuova dinastia alcune pubblicazioni, per lo più di contenuto scolastico o religioso; i cappuccini fecero anche un tentativo giornalistico, pubblicando in amarico una parte di un loro giornale. A pubblicazioni di missionarî volle opporsi un libretto, Il Mistero della Trinità, pubblicato a cura del metropolita abissino presso la tipografia etiopica di Addis Abeba (1903 abissino [1911]). Del 1909 (1917), è un attacco contro la politica filo-islamica del liǵǵ Iyāsu. E il prof. Afework (Afawarq) già insegnante nell'istituto orientale di Napoli (ora funzionario in patria) pubblicò in Italia una vita di Menelik II (1909), e un romanzo, il primo nella letteratura amarica (1908).
La nuovissima letteratura amarica, quella uscita dalle stamperie di Etiopia e di ras Tafari, rispettivamente fondate da Zauditu e da Tafari, non comprende che poche pubblicazioni (di cui alcune semplici opuscoli) ma assai interessanti, come indice degli aspetti culturali del paese. Notevoli sono, oltre a pubblicazioni di testi sacri in ge‛ez con versione amarica e oltre a una ricca raccolta d'inni religiosi (qenē, v. appresso: La chiesa di Etiopia), alcuni libri di testo per le scuole (tra cui un dizionario biografico, una grammatica, un testo per lo studio dell'aritmetica ecc.) e altri di contenuto storico (come la storia di Abissinia dell'alaqā Tāyya, 1922). Ma ancor più interessanti per conoscere le idee dominanti nella nuova Abissinia sono varie pubblicazioni di contenuto politico-sociale, che fanno l'apologia della politica modernizzante di ras Tafari, o descrivono i suoi viaggi (con curiose impressioni sull'Europa di capi abissini), o dànno consigli agli Abissini che si recano in Europa, e raccolgono "Ricordi per i padri e consigli per i figli", ecc.; sempre indicando la cultura occidentalizzante e la politica di ras Tafari come l'unico mezzo per dare libertà e potenza alla patria. Non mancano poesie, tra cui un poemetto che loda appunto il sapere moderno e l'opera di ras Tafari, una collana di sette salmi per i sette giorni della settimana in lode dello stesso, ecc.
Gli autori più noti sono il predetto Afework, e Ḫeruy Walda Sellāsē. Come si vede, questa letteratura, certo assai interessante poiché rispecchia fedelmente la nuova mentalità abissina e mostra tutte le difficoltà della fusione delle vecchie idee con le nuove, è però cosa modesta; ma lo zelo dell'imperatore per la cultura, i contatti con l'Occidente, le missioni di giovani inviati all'estero fanno prevedere che il progresso delle lettere amariche non si arresterà.
Le missioni straniere continuano la loro attività editoriale; notevoli le pubblicazioni di letture religiose e storico-geografiche curate per le scuole dalla Missione protestante svedese.
Bibl.: Sulla letteratura etiopica antica, v.: C. Conti Rossini, Note per la storia lett. ab., in Rend. Accad. Lincei, VIII (1899); E. Littmann, in Gesch. der christl. Lit. des Orients, Lipsia 1909, pp. 187-281; A. Baumstark, Die christl. Litteraturen des Or., Lipsia 1911, II, pp. 36-60; O. M. Hardens, An introduction to Ethiopic christian Literature, Londra 1926. - Sulla lett. etiopica moderna, v.: Ḫeruy Walda Sellāsē, Maṣḥafa Qenē, Addis Abeba 1918 (in etiopico); E. Cerulli, Inni della chiesa abissina, in Rivista degli studi orientali, XII (1930); Alaqā Tāyya, Mazmura Krestos, Asmara 1911. - Sulla letteratura amarica v.: M. Cohen, La naissance d'une littérature imprimée en amharique, in Journal Asiat., CCVI (1925); E. Cerulli, Nuove idee nell'Etiopia e nuova letteratura amarica, in Oriente moderno, 1926 (cfr. altri articoli dello stesso autore nella stessa rivista 1926, 1927, 1928).
Arte.
Le manifestazioni artistiche nell'Etiopia, pur essendo, naturalmente, quali lo stato culturale del paese nelle varie epoche ha permesso, hanno interesse perché possono rivelare le successive influenze di arti e artisti dei paesi con i quali l'Etiopia è venuta in contatto. Per l'architettura citiamo gli obelischi e gli altri monumenti di Aksum (tra cui i tipici "troni" o "seggi di giudici"); le chiese rettangolari del primo cristianesimo; le famose chiese monolitiche di Roḥa (nel Lasta) attribuite al negus Lālibalā, della fine del sec. XIII; i palazzi imperiali di Gondar (sec. XVIII; v. gondar). Come mezzi architettonici gioverà ricordare i caratteristici muri a "testa di scimmia" (così detti dalla sporgenza dei due capi delle travi di sostegno). La pittura etiopica, che è derivazione dal copto bizantino con qualche influsso occidentale, è rappresentata specialmente dagli affreschi nelle chiese e dalle miniature dei manoscritti. Le più antiche miniature a noi pervenute sono quelle di un manoscritto (ora alla Bibliothèque Nationale di Parigi) della seconda metà del sec. XIV. La scultura può dirsi rappresentata soltanto dai motivi ornamentali in basso rilievo che decorano alcune chiese e da bassorilievi rupestri. Anche qui sono stati notati influssi occidentali. La musica liturgica si è specialmente sviluppata ed ha sue notazioni particolari finora non studiate esattamente in Europa.
La chiesa di Etiopia.
Cenno storico. - Religione dell'Abissinia alla metà del sec. IV. - Il cristianesimo fu introdotto in Abissinia verso il 330-350 dell'era volgare. La grandissima maggioranza degli abitanti del paese era allora formata da una ramo della razza cuscitica, gli Agau, che probabilmente avevano assimilato gli antichissimi indigeni di razza negra. Degli Agau sappiamo quale fosse la religione al principio del sec. XVII; e se, come è ragionevole supporre in una religione primitiva, era tale altresì al sec. VI, essa consisteva in un rozzo animismo; gli Agau veneravano spiriti e genî benefici o malefici a seconda dei luoghi o degli oggetti ove si credeva che dimorassero; benefici se presso fonti o grandi alberi, malefici o "zār" se presso acque immonde o luoghi malsani o simili. Ma soprattutto adoravano, come gli altri Cusciti, il cielo, o facevano sacrifici di vacche e altri animali in cima ai monti, non avendo templi e non fabbricando idoli, sebbene vi fosse un sacerdozio ereditario di padre in figlio; non credevano però che ogni esistenza individuale finisse con la morte; onde un qualche culto degli avi. Avevano un religioso rispetto per i serpenti, anzi un culto per "Arwē" o il "Serpente", che era creduto il primo re di Abissinia, mentre detestavano le iene e qualche altro animale. Agl'indigeni Agau si aggiunsero, fin dal secolo VII a. C., almeno, gli Arabi, i quali dall'opposta spiaggia del Yemen immigrarono ininterrottamente nella regione di Adulis (Zula che era centro di abitazione anteriore ai Tolomei), e lungo la costa, donde poi, a poco a poco, costretti dal grande calore e dall'insalubrità del luogo, si avanzarono nell'interno montuoso, fondando piccoli centri di abitazione e di commerci, ed opprimendo i deboli indigeni; è probabile che insieme con essi si formassero piccoli centri di ebrei, così numerosi nel Yemen. Forse il numero degli Arabi non era grande; ma, dotati di attitudini superiori, e venuti da paese progredito per agricoltura e commerci, s'imposero facilmente ai rozzi indigeni, e contribuirono, secondo ogni probabilità, alla fondazione del regno di Aksum, la cui religione riconosceva come maggiori divinità: Astar o il Cielo, Meder o la "Terra Madre", Beḥēr o il Mare (come è da credere = Ποσειδῶν); e Mahrem o il dio della guerra. Queste divinità poco corrispondono a quelle dell'Arabia meridionale, ove la tanto venerata Triade: il "dio" (masch.) "luna", la "dea" (femm.) "Sole" e l'astro di Venere mattutina, era, come si vede, una Triade siderale, mentre in Abissinia erano adorati "la Terra" e "il Mare"; né cambia la sua indole non più siderale il fatto che in monete anteriori al cristianesimo figurino la luna falcata e l'astro. Vi è inoltre il dio della guerra Mahrem; non già che un dio della guerra manchi nel pantheon sud-arabico, ma Mahrem è il dio speciale, progenitore dei re di Aksum, come era Ilmaqāh dei re Sabei e Wadd dei re Minei; idea questa della discendenza dei re da alcun dio che era comune ad altri popoli, e basti citare Romolo e Marte. Questa religione professata dai Semiti immigrati non poteva far proseliti fra i rozzi Agau da loro soggiogati e loro eterni nemici. Per il fiorente commercio con l'Egitto e Bisanzio v'erano specialmente nella regione di Adulis e Aksum, mercanti greci che professavano il cristianesimo.
Introduzione del cristianesimo in Aksumn. - Narra Rufino (morto nel 410) nella sua Historia Ecclesiastica, I, 9, che due fratelli, Frumenzio ed Edesio, tornando per mare da un viaggio in India, approdarono in un porto, del quale non si può dubitare che fosse nei paraggi di Adulis. I barbari del luogo uccisero i marinai, ma risparmiarono Frumenzio ed Edesio che furono fatti schiavi e condotti al re, in Aksum, capitale del regno di questo nome, fondato circa tre secoli prima. Il re era allora Ella Amidā che morì tra il 320 e il 325, lasciando il governo nelle mani della vedova e del figliolo Ēzānā che però era ancor minorenne. Frumenzio ed Edesio, bene accolti a corte, ebbero, a quanto si narra, importanti cariche, e fu esaudita la domanda di Frumenzio che fosse concesso il libero esercizio della religione cristiana ai mercanti greci, e fosse loro permesso di costruire piccoli oratorî. Frumenzio, venuto dipoi in Alessandria, diede notizia al patriarca d'allora, che era il grande Atanasio, della novella cristianità di Aksum, e chiese per essa un vescovo; naturalmente Frumenzio stesso fu ordinato tale da S. Atanasio. Il racconto di Rufino, che egli dichiara risalire a Edesio, il fratello di Frumenzio, è passato agli storici posteriori: Socrate, Sozomeno, e altri, e da questi ai Menei e Sinassarî, donde è pervenuto agli Abissini, presso i quali Frumenzio è chiamato: "Abbā Salāmā rivelatore della luce". Un documento autentico inserito nell'Apologia di S. Atanasio, cioè la lettera mandata nel 356 dall'imperatore Costanzo al re di Aksum Aeizanas (Ēzānā) e al suo fratello Saeizanas, permette di precisare il luogo e il tempo di quanto narra Rufino, onde sappiamo con certezza che Frumenzio fu vescovo di Aksum. Secondo lo storico ecclesiastico ariano Filostorgio (Hist. Eccl., V, III, 4-6; in Fozio) una missione mandata da Costanzo con a capo il vescovo ariano Teofilo, per promuovere l'arianesimo, sarebbe venuta anche in Aksum, ma essa ebbe, ad ogni modo, scarso o nessun frutto. Rufino aggiunge che Frumenzio convertì "un numero infinito di barbari". Ciò non è punto credibile, o, tutt'al più, si deve intendere della conversione di abitanti di Adulis o Aksum, o di persone dipendenti o addette alla corte del re convertito, non degli altri abitanti del vastissimo paese. Quello poi che alcuni autori, il siro monofisita Giovanni di Efeso (morto nel 585), Malala e altri, narrano della conversione di un re Andog (non Aydog) non sembra meritare alcuna fede, né è chiaro se e da quale avvenimento storico la notizia possa aver avuto origine.
Conversione del re. - Contemporaneamente o quasi all'introduzione del cristianesimo, dové convertirsi lo stesso Ēzānā. Questi, in una grande iscrizioni di Aksum, professa l'idolatria, e adora Astar, Meder, Beḥēr e Maḥrem, del quale si proclama figlio, ma in un'iscrizione posteriore, in luogo di queste divinità, professa di adorare il "Dio del cielo" (con espressione dei libri biblici, dei testi di Elefantina, ecc., non insolita, ma che qui designa il Dio dei cristiani), il quale gli ha dato il trono e la "vittoria sui nemici"; e promette di essere giusto verso i sudditi; anche sue monete con simboli pagani, della luna falcata e l'astro, sono seguite dapprima da monete senza alcun simbolo, e poi da monete chiaramente cristiane. La sua non è certo una professione di fede cristiana quale si aspetterebbe da un convertito non pochi anni dopo il concilio di Nicea, ma una tale professione poco intelligibile avrebbe urtato i sentimenti della popolazione ancora pagana. È assai ragionevole supporre che sulla conversione di Ēzānā influissero considerazioni politiche, di procurarsi cioè l'amicizia di Bisanzio. Il regno di Aksum aveva al nord popolazioni non amiche, né erano amici i regni dall'opposta riva dell'Arabia, sui quali si faceva sentire l'influenza sassanide. E la professione di fede di Ēzānā, sebbene così poco esplicita, era più che sufficiente per mostrare al governo di Bisanzio che la religione ufficiale del regno di Aksum era opposta all'idolatria dell'Arabia meridionale e alla religione del grande nemico di Bisanzio, l'impero sassanide. E questo era di vitale importanza per Bisanzio; sul rimanente si poteva transigere: Teodora, la moglie di Giustiniano, punto estranea alle cose del regno, era monofisita.
Monaci siri in Abissinia. I "Nove Santi".- La primitiva cristianità di Abisssinia era, senza dubbio, nell'ortodossia cattolica, ma un secolo dopo, o poco più, quando la cristianità di Bisanzio fu turbata dall'eresia monofsita, i seguaci di questa e specialmente i monaci, perseguitati, si rifugiarono verso il sud dell'impero e fino in Arabia nel Yemen, donde passarono nel regno di Aksum. Similmente non molti anni dopo il concilio di Efeso, i nestoriani si rifugiarono verso Oriente, e giunsero poi fino in Cina, e così, un secolo e mezzo prima, gran parte dei manichei. I monaci venuti in Abissinia erano, in gran parte, seguaci dcl monofisismo detto "in specie", cioè di quel monofisismo, per così dire, moderato, che negava in Gesù Cristo le due nature, l'umana e la divina, e le riteneva unite, ma distinte, in una sola persona; essi rigettavano il concilio di Calcedonia e la Lettera di S. Leone a Flaviano, ma erano affatto contrarî ad Eutiche, e alla sua strana dottrina. È assai probabile che di codesti monaci fossero i famosi "Nove Santi" che venivano da "Rōm", cioè dall'impero bizantino, e fondarono monasteri fiorenti, contribuendo grandemente alla conversione degl'indigeni ancora in maggior parte pagani. I quali nella loro religione rudimentale, senza un libro sacro che ne fissasse le credenze e senza un culto ordinato, potevano essere facilmente convertiti a una religione superiore, come press'a poco avviene dei negri che dal feticismo passano all'Islām. Quindi è che nel sec. V e VI la popolazione del regno di Aksum era ormai cristiana. Essa si divideva, riguardo alla religione, in tre gruppi principali; il 1° e più numeroso, il gruppo dello Scimezana, i "Ṣādeqān"; il 2°, a nord del Mareb e del Belesā, che faceva capo a Libānos o Matā', e il 3°, a sud del Mareb, cui appartenevano i Nove Santi. Ecco i nomi di questi: 1. Za-Mikā'ēl 'Arāgāwi; 2. Panṭālēwon; 3. Isḥāq Garimā; 4. Afsē; 5. Gubā; 6. Alēf; 7. Yem'atā; 8. Liqānos; 9. Ṣeḥmā. Il regno era ormai in gran parte cristiano, e quando Aksum ebbe il dominio del regno himyaritico, vi protesse la religione cristiana, e sono famose le due chiese ivi costruite. Ma credenze e usi originariamente pagani persistevano ancora, come suole avvenire e avvenne, per es., presso le popolazioni pagane convertite al cristianesimo o all'Islām.
Traduzione in ge‛ez della Sacra Scrittura. - Ai Nove Santi o, in generale, ai monaci siri è dovuta, secondo ogni probabilità, la traduzione in ge‛ez, l'antica lingua di Abissinia, della Sacra Scrittura. Vediamo infatti introdotte in questa traduzione delle parole aramaiche, fra le quali è notevole, come indizio di chi l'ha introdotta nel ge‛ez, la parola "hāymānūthā", πίστις, la fede cristiana, come nel siriaco. Soprattutto significativo è il fatto che il testo greco sul quale fu condotta la traduzione ge‛ez, è quello ricevuto in Antiochia e in Siria, o di S. Luciano (Siro-occidentale), e non già quello ricevuto in Alessandria, cui certamente avrebbe seguito Frumenzio, onde si vede quanto è poco probabile che a lui fosse dovuta la traduzione. Della quale del resto, non era grande, a suo tempo, il bisogno, essendo allora greci, in maggior parte, i cristiani. Anche a Roma, per tacere di altri esempî, la traduzione latina della Sacra Scrittura è molto posteriore all'introduzione del cristianesimo. Oltre i libri sacri altri libri furono tradotti.
Decadenza della chiesa dal sec. VII al XII. - Per le conquiste arabe, segnatamente quella dell'Egitto, l'Abissinia restò separata dall'Oriente cristiano. A ciò si aggiunse che le popolazioni cuscitiche, non più tenute a freno dal regno di Aksum, ad est, e soprattutto al nord, specialmente la grande popolazione Begia, avanzandosi nel regno di Aksum, vi ebbero il sopravvento, contribuendo alla decadenza della religione, e molti cristiani migrarono verso il sud; le relazioni col Patriarcato alessandrino divennero sempre più difficili e rare. Per un certo tempo il regno, o una sua parte, sarebbe stato nelle mani di una regina: Terdā‛ Gabaz o Guedit, e questo nome che erroneamente parve significare "giudea", fece credere che essa avesse perseguitato i cristiani, mentre il nome Terdā‛ Gabaz probabilmente è cristiano. Rari metropoliti vennero dall'Egitto, e taluno di essi si trovò essere un impostore. Per l'avanzarsi delle popolazioni cuscitiche, il centro politico dell'Abissinia si andava trasportando verso il sud; e precisamente nel Lāstā sorse nel sec. XII il piccolo regno cristiano degli Zāguē. La popolazione della regione essendo Agau, si convertì facilmente al cristianesimo, e due dei re Zāguē, Lālibalā e Na‛aqueto La‛āb, sono venerati come santi. Le relazioni col patriarcato alessandrino cominciarono a farsi meno rare; ma sempre più frequenti si fecero dipoi, dacché nel 1270 sorse con Yekuno Amlāk la dinastia detta dei zalomonidi, perché, secondo la leggenda tendenziosa e punto popolare, discendevano da Menelik, creduto figlio di Salomone e della regina di Saba (III, [I] Re, X, 1) creduta a sua volta regina di Abissinia. A tutto questo contribuirono i monaci e nominatamente Takla Hāymānot e più il suo maestro Iyasus Mo'a.
Conseguenze che ebbe per la chiesa abissina il rifiorire del patriarcato alessandrino. - Intanto al patriarcato alessandrino aveva dato nuovo vigore e ordine una specie di riforma dovuta all'opera di dotti membri del clero copto-arabo, la quale promosse altresì la conoscenza dell'antica letteratura canonica e religiosa. Gli effetti di questa riforma si fecero sentire in Abissinia; vennero più regolarmente i metropoliti, e l'accresciuto zelo spinse i monaci a recarsi in Abissinia, che era pur sempre una grande provincia del patriarcato. Per la loro opera furono riveduti e corretti, secondo il testo arabo ricevuto nel patriarcato, le antiche versioni della Sacra Scrittura e nominatamente dei Vangeli, e si tradussero o composero i libri più necessarî in un culto regolare. Fra i metropoliti assai si distinse Abbā Salāmā venuto in Abissinia nel 1351 e quivi morto nel 1390 o poco prima. Conseguenza di queste nuove condizioni fu la fondazione e il fiorire di due ordini monastici: quello di Takla Hāymānot o Dabra Libānos (sec. XIII) al sud, e quello di Ēwosṭātēwos (secolo XIV) al nord. A questi monaci si deve anche una più intensa propagazione del cristianesimo specialmente nel sud, al che avranno anche contribuito in seguito le vittoriose lotte contro i musulmani di Adal.
Scismi del sec. XIV e XV. - Anche dopo che il centro politico di Abissinia si era portato nel sud, il suo centro religioso e letterario restava sempre nell'Abissinia del nord, ove era la cattedrale di Aksum e nuovi conventi si erano aggiunti agli antichi; ivi si recavano i monaci per istruirsi. Fra i monaci, specialmente nella regione dell'attuale Eritrea, cominciarono ad agitarsi questioni religiose, dopo che furono conosciuti antichi canoni spesso apocrifi, ma creduti di origine apostolica. Così ben presto si tornò a sostenere che il sabato era giorno festivo come la domenica (cfr. le Constitut. Apostolor., V, 20). Ma vere e proprie eresie antiche furono conosciute, e non senza conseguenza. Eresie furono: quella attribuita al metropolita Bartolomeo (che però ne negava la paternità) la quale nella Trinità distingueva tre "aspetti" (gaṣ), non tre persone divine, l'altra di Za-Mikā'ēl e Aṣqā che, oltre a non ammettere le tre persone della Trinità, negava altresì che l'uomo fosse creato ad immagine di Dio, il quale non ha forma. Uno strano scisma fu quello dei discepoli di Ma‛qaba Egz‛o Eustazio in Dabra Māryām, Dabra Bizan, altri. Ma di speciale importanza fu l'eresia degli stefaniti che rigettavano il culto della Vergine e della Croce, e professavano altre opinioni eretiche. La conoscenza di antiche eresie noverate nell'opera originale di Giyorgis di Saglā, il Maṣḥafa Mesṭir composto nel 10° anno del re Isḥāq (1414-1429) non fu estranea, pare, a tutto questo movimento. Zar'a Yā‛qob proibì questa eresia e ne perseguitò gli autori.
Riforme di Zar'a Yā‛qob (1434-1468). - Mentre queste eresie agitavano i monaci, nella massa della popolazione perduravano sempre riprovevoli usi e superstizioni pagane. Si faceva quindi sentire il bisogno di generali riforme, che nel re Zar'a Yā‛qob trovarono l'autorità necessaria ad attuarle; il re emanò severi ordini, proibendo il professare le eresie ricordate sopra (cui egli stesso confutò) e le costumanze e superstizioni pagane. Ma gli Abissini, nelle cui vene scorre tanto sangue cuscita, di razza cioè oltremodo superstiziosa, non abbandonarono specialmente le preghiere superstiziose, ma diedero ad esse, per quanto era possibile, un'apparenza cristiana, inserendovi invocazioni alla Trinità, alla Vergine, agli angeli e santi. Non molto dissimilmente in Occidente superstizioni e usi pagani perdurarono rivolti a forme e intendimenti cristiani. Notissime in Abissinia sono: la preghiera di S. Sisinnio contro Werzelyā, essere malefico che (come la Lilith ebreo-giudaica, la στρίξ e la Lamia classiche e simili) insidia la vita dei neonati; la "rete di Salomone" e molte altre; simili preghiere con segni magici, scritte su piccoli rotoli di pergamena, sono comunissime, quali amuleti, anche oggidì. Zar'a Yā‛qob ribadì l'osservanza del sabato, determinando quali opere sia permesso fare in esso, diede anche formali disposizioni, perché niuna profanazione avvenisse nel ricevere l'Eucaristia o nel somministrarla ai fedeli: altre emanò sull'estrema unzione, sull'ordinamento del culto e l'istruzione religiosa, sulle feste numerosissime della Vergine, di S. Michele, ecc., e altri punti; scrisse anche contro ebrei e stefaniti. Grazie a tutto ciò la chiesa abissina ebbe per molti decennî, un periodo di pace e fiorì anche un'attività letteraria nel campo delle scienze religiose. È stato affermato che sotto Ba'eda Māryām (1468-1478) venissero in Abissinia dall'Egitto e dalla Siria alcuni monaci eutichiani, condannati poi da un concilio e cacciati, ma ciò non sembra meritare fede.
Invasione musulmana - Missione dei gesuiti - Ristabilimento della confessione alessandrina. - Ma nella prima metà del sec. XVI la chiesa ebbe molto a soffrire, specialmente per l'invasione dei musulmani condotti da Aḥmed Grāñ o "il Mancino"; furono distrutte chiese e monasteri, e bruciati i libri sacri cristiani. Molti cristiani furono costretti a farsi musulmani, e donne cristiane si unirono con musulmani. Atterriti, il re Lebna Dengel (1508-1540) e il suo successore, Claudio (1540-1559), per amicarsi il cattolicissimo Portogallo e averne aiuto, mandarono lettere di sottomissione al papa, esprimendo sentimenti favorevoli al cattolicismo. Nel 1564, dalla Compagnia di Gesù (che fra i suoi scopi aveva quello di combattere le eresie) fu decisa la missione di Abissinia. Sennonché, passato il pericolo, Claudio si mostrò ostile ai cattolici; e difese nella sua nota Confessio Claudii, scritta sulla fine del suo regno, la confessione alessandrina e si discolpò dall'accusa di usi giudaici. Fu promossa la composizione ovvero la traduzione di opere in favore di quella confessione, fra le quali il "Ṣawana nafs" o "Rifugio dell'anima" che in forma di lettera diretta al re, difende la fede alessandrina e altri scritti. La missione dei gesuiti incontrò naturalmente molte difficoltà, ma, in seguito, e specialmente per l'opera intelligente del P. Paez, si giunse perfino alla conversione del re, Susnēos (Sisinnio, 1606-1632), che nel 1626 fece solenne professione di fede cattolica, ed emanò editti non conformi alla fede alessandrina e impose la sottomissione al papa. Per ordine del re, il suo segretario Takla Sellāsē soprannominato "Ṭino" o "il Piccolo", compilò un editto in forma di lettera al popolo, in difesa della dottrina cattolica. Ma i monaci col metropolita, cui si unirono i nemici del re (e costoro anche con le armi) si rifiutarono di obbedirgli. Il re, cedendo a queste pressioni, abdicò in favore del suo figlio Fāsiladas o Basilide (1632-1667), e questi, cambiatosi ben presto in nemico dei cattolici, restituì come sola permessa in Abissinia la confessione alessandrina; i gesuiti furono perseguitati e cacciati, i loro libri bruciati; ciò specialmente sotto di lui e il suo successore Giovanni I (1667-1682). Alcuni decennî dopo, nel 1716, tre missionarî francescani (Liberato da Wies, Michele Pio da Zerba e Samuele da Beano) penetrati in Abissinia sotto il re Yosṭos (1711-1716) furono condannati in Ašawā da un sinodo e lapidati. Sotto Susnēos (1606-1632) sorse anche un pazzo o impostore, che si diede il nome di Za-Krestos, e pretendeva di essere nato dalla Vergine in una seconda incarnazione; fu condannato e messo a morte e i suoi discepoli dispersi.
Le dispute religiose coi gesuiti riaccesero lo zelo del clero indigeno, e condussero alla revisione dei libri del culto, come, ad es., il Sinassario. E le lotte diedero anche origine a una sottile speculazione teologica, quella sull'unzione e l'unione, che ha diviso la chiesa abissina in due campi principali, l'uno dei monaci di Takla Hāymānot o Dabra Libānos e l'altro, a nord, di Ēwosṭātēwos; mentre un'altra setta fu costituita più tardi dai discepoli di Zar'a Buruk. Ciò ha dato occasione o pretesto perfino a lotte sanguinose, come avvenne nel 1716. E dell'irrequietezza dei monaci si ebbe un chiaro esempio nel secondo anno del regno di Giovanni I (1667-1682), quando la loro insubordinazione fu a stento repressa dal re e dai dignitarî della chiesa.
Controversia sull'unzione e l'unione - I "Kārroc" - I partigiani delle tre nascite. - Negli Atti degli Apostoli (X, 38) si narra che, nel discorso tenuto in Cesarea da S. Pietro, questi pronunziò le parole: "Gesù... come Dio lo unse di Spirito Santo e virtù". (Iesus... quomodo unxit eum Deus Spiritu Sancto et virtute). Codesta unzione, che non si può ragionevolmente riferire se non all'umanità di Gesù Cristo, suppone necessariamente che il Verbo, dopo l'incarnazione, avesse una natura umana distinta dalla divina. Era quindi un argomento contro il monofisismo e forse fu fatto valere dai gesuiti, tanto più che la controversia comincia fin dal 15° o 16° anno di Susnēos. Per ovviare alla difficoltà i monaci abissini sostennero che "unzione" voleva significare "unione del Verbo con la carne". Crediamo che fossero condotti a quest'affermazione dalle parole della "epiclesi", cioè della preghiera che nella liturgia abissina (come in altre orientali) segue, nella messa, alla consacrazione delle specie eucaristiche, la quale preghiera chiede a Dio di mandare su dette specie "Spirito Santo e virtù" (le identiche parole, si noti bene, del discorso di S. Pietro) e farle corpo e sangue di Cristo. Quest'affermazione dei monaci si espresse con le parole "baqeb' tawāḥedo" cioè "con l'unzione si operò l'unione" del Verbo con la carne. Dalla parola qebāt "unzione", i partigiani di questa credenza furono detti qebātoč, come dire "unzionisti". Le dispute si protrassero, e diedero luogo a varî concilî, specialmente nel 1654, nel 1684 e nel 1707, e ad altre formule e definizioni (vedi gli annali di Iyāsu I nel Corp. Script. Christ. Orient., p. 214 seg.). Nel quinto anno del regno di Dāwit III, ebbero luogo grandi dispute fra i monaci, specialmente del Goggiam e quelli di Dabra Libānos, sulla formula proposta già da qualche tempo "per unzione fu figlio di essenza" e il metropolita Krestodulo (II) succeduto al metropolita Marco morto nel 1716, parve dapprima approvare questa formula e poi quella di Dabra Libānos; ed è caratteristico il fatto che, senza che precedesse alcun concilio o atto di autorità ecclesiastica, ma con semplice proclama di araldo, il re Tēwoflos, per favorire il Goggiam, impose la detta formula, dando un chiaro esempio della consueta ingerenza dei re nel governo della chiesa (nella formula Walda Bāhrey la parola bāḥrey corrisponde ad οὐσία cioè "figlio di essenza"; ebbe anche seguaci la formula Walda Ṣagā, cioè "figlio di grazia"). E diedero luogo altresì a gravi agitazioni, come quella dei Sedudan o "esiliati" del Goggiam.
Taluni monaci di Dabra Libānos, nella seconda metà del secolo XVIII, parvero accostarsi al diofisismo, il che provocò una reazione nei monaci di Ēwosṭātēwos, assai numerosi nel Tigrè, e diede origine alla rigida setta monofisita dei "Kārroc". Sulla fine del sec. XVII e agl'inizî del segucnte ebbe molti seguaci, specie nel Goggiam, la setta ricordata sopra di Zar'a Buruk, del quale si narrano strabilianti miracoli e che morì nel 1705. Questa setta discordava da quella di Takla Hāymānot e, anche più profondamente, da quella di Ēwosṭātēwos o "karroč". Forse per reazione sorse nel Goggiam, e specialmente nello Scioa, la credenza circa le tre "nascite" di Gesù Cristo (generazione eterna, nascita dalla Vergine, e unzione), per le quali tre nascite Gesù Cristo è rispettivamente Unigenitus, Primogenitus, Primogenitus omnis creaturae (Giov. I, 14; Matt., I, 25, Luc. II, 7; Coloss., I, 15). Questa credenza fu proibita dal metropolita Josāb (morto nel 1803), sennonché, lui morto, fu proclamata obbligatoria da rās Gugsā, almeno nel territorio a lui soggetto, e nel 1840, il re di Scioa Sāhla Sellāsē la dichiarò obbligatoria nello Scioa. Ma il re Teodoro, istigato dal noto metropolita Abbā Salāmā, la proibì; Menelik la ristabilì nel 1866, ma per breve tempo, perché il re Giovanni IV (1868-1889) la vietò in tutta l'Abissinia.
La controversia sull'"unzione e l'unione" l'è la sola, o quasi, che abbia agitato tutta la chiesa di Abissinia, perché le questioni ed eresie dei primi secoli, la gnosi, le controversie sulla Trinità sotto Giustiniano, i theopaschiti, e altre, l'arianesimo, ecc., non giunsero in Abissinia che era ancora pagana, e la venuta del vescovo ariano, Teofilo, se pure ebbe luogo, fu senza conseguenza. Per ragioni geografiche non vi entrarono le controversie soteriologiche, sulla grazia, sul peccato originale, e altre. Sola vi entrò l'eresia monofisita, probabilmente per opera dei monaci siri, e con questa si collega, come si è detto, la tarda controversia sull'unione e l'unzione. Tutte le altre eresie sorte dopo il sec. V non turbarono la chiesa abissina, separata ormai da Bisanzio e dall'Occidente. E se il clero abissino, nella lotta coi gesuiti, si rifiutava di ammettere la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio per unica spirazione, non è già perché avessero preso o prendessero alcuna parte allo scisma di Fozio e Michele Cerulario, ma perché nel simbolo ricevuto dalla chiesa abissina, che è quello detto di "Nicea 'i (propriamente del concilio di Costantinopoli del 381) non vi è, come è noto, l'aggiunta "filioque". E non è esatto quello che è stato talvolta affermato, che Zar'a Yā‛qob prendesse parte, in qualsiasi modo, al concilio di Firenze (1431-1444).
Tutto quello che si è detto sopra basta per mostrare la fondamentale differenza fra la chiesa abissina e la chiesa russa ortodossa, differenza negata per scopi politici da chi, a tal uopo, si giovava della somiglianza di antichi riti conservati in ambedue le chiese, ma indipendentemente nell'una e nell'altra.
Il notevole propagarsi dell'Islām (v. sopra) in molti casi potrebbe caratterizzarsi come il passaggio da un languido cristianesimo a un languido islamismo.
Credenze, culto, gerarchie, clero, chiese. - Le credenze della chiesa abissina sono, in generale, quelle del patriarcato alessandrino, e si possono riassumere così. Prima autorità per le definizioni della fede è la Bibbia, i cui libri ricevuti come canonici sono quelli del canone della chiesa cattolica e dell'ortodossa; vi si comprendono quindi anche i deuterocanonici (apocrifi per i protestanti) Tobia, Giuditta, Ecclesiastico, ecc., ma oltre a ciò anche taluni apocrifi. Viceversa gli Abissini non hanno i nostri libri dei Maccahei. Sono riconosciuti i tre primi concilî ecumenici: Nicea (325); Costantinopoli (381); Efeso (431), né è esatto che questo ultimo non fosse ammesso. Si rigetta il concilio di Calcedonia (451), col quale appunto ha inizio la scissione dei monofisiti dai cattolici e ortodossi, e così anche, come è naturale, tutti i concilî posteriori. Per l'interpretazione della Bibbia hanno grande autorità gli antichi padri greci, quali i due Gregorî, Nazianzeno e Nisseno, S. Basilio, il Crisostomo e soprattutto S. Cirillo di Alessandria.
Dio è uno e trino, in tre persone uguali e distinte; lo Spirito Santo procede dal Padre; il Verbo si è fatto uomo per la redenzione del mondo, e nell'incarnarsi, la natura umana è stata, secondo alcuni, assorbita dalla divina ed è, per così dire, sparita (ma questa dottrina di Eutiche non ebbe mai, o quasi mai, seguaci in Abissinia); secondo altri, e sono di gran lunga i più, si è unita a quest'ultima, per tal modo però che ne è risultata una sola natura. La vergine deve chiamarsi "Madre di Dio" non "Madre di Cristo", come vogliono i nestoriani. Essa gode di una venerazione e di un culto affatto speciale, e Zar'a Yā‛qob prescrisse che in ogni chiesa fosse un altare dedicato alla Madonna, e le sue feste annuali non fossero meno di 33. Dio ha creato dal nulla tutti gli esseri visibili e invisibili. Negli angeli si distinguono i varî ordini (Arcangeli, Troni, Dominazioni, ecc.) come nelle altre chiese: si crede altresì agli angeli custodi.
Sacramenti. - I sacramenti sono, almeno teoricamente, sette, come nelle altre chiese orientali. Il battesimo si fa per triplice immersione; nella genuina dottrina della chiesa il battesimo sacramentale è affatto distinto dalla commemorazione del battesimo al Giordano (Epifania), la nota festa copta del ghiṭās, e dall'uso di tuffarsi nell'acqua, sebbene chiamato anch'esso battesimo. L'Eucaristia si somministra sotto le due specie: il pane che è fermentato e in forma di focaccia, ha impresse delle piccole croci; il prete stacca da questo pane un frammento che abbia la croce, lo immerge nel vino, e lo dà ai fedeli: il vino, che sarebbe spesso difficile avere, si ottiene con lo spremere alcuni acini d'uva. Dubbî sulla presenza reale o sulla transustanziazione non sembra che siano mai stati espressi; ed è naturale, perché le grandi controversie relative non sorsero in Occidente se non quando l'Abissinia ne era separata. La confessione non ha tempo fissato per la sua obbligatorietà; al tempo dei gesuiti non era praticata prima del 25° anno di età; ma tutti si confessano in punto di morte. Il sacerdote suol suggerire al penitente l'esame di coscienza secondo il libretto Anqaṣa Nesshā (Porta della Penitenza); l'assoluzione è in forma semplicemente deprecativa. V'era poi un rituale speciale, il Moṣḥafa Qaṣdr o Libro dell'impurità, per i rinnegati, e per le donne cristiane che avessero avuto relazioni sessuali con persone non cristiane; gli uni e le altre numerosi dopo la terribile invasione di Grāñ. Gli ordini sacri (sacerdozio, ecc.) sono conferiti dal metropolita. La cresima può dirsi abbandonata; vi ha contribuito forse la difficoltà di procurarsi il sacro crisma. L'estrema unzione, quantunque abbia un rituale in ge‛ez (il "Maṣḥafa qandil") e Zar'a Yā‛qob avesse emanato ordini in proposito, sembra che non sia più amministrata ai moribondi. Il matrimonio si celebra in presenza del prete, il quale recita il Pater noster, e benedice gli sposi: questi si comunicano, onde tal matrimonio religioso è detto baquerbān, cioè con l'Eucaristia. Il divorzio è ammesso, ma specialmente in caso di adulterio (cfr. Matt., V, 32). Nonostante la grande rilassatezza dei costumi, chi è coniugato con matrimonio religioso (il bāla(ieg) gode molta stima. Le disposizioni canoniche relative al matrimonio sono ricapitolate nel Fetḥa Nagast (v. la traduzione del Guidi, p. 218 seg.); un concilio sotto Giovanni IV, nel 1869, si occupò di una parte di esse probabilmente non più osservata. La circoncisione è generalmente praticata e da molti ritenuta come un dovere religioso, ma dalla chiesa non è riguardata ufficialmente tale.
Escatologia. - Solo dopo la risurrezione e il giudizio universale le anime dei giusti vanno in paradiso e quelle dei reprobi all'inferno; le prime frattanto stanno in luogo di quiete o paradiso terrestre, le altre errano qua e là agitate; simili credenze erano anche fra i Siri. Il purgatorio non è conosciuto, ma sono in pieno uso le preghiere per i defunti, tanto immediatamente dopo la morte e nella tumulazione, quanto in giorni successivi, il 3°, il 7°, 12°, ecc. Il rituale (o Maṣḥafa Genzat, tradotto dal rituale copto-arabo) fu poi variamente ampliato.
Digiuni - Feste - Culto. - I digiuni sono numerosi e rigidi, ma non si digiuna mai nei 50 giorni da Pasqua a Pentecoste, nelle domeniche e sabati. Si digiuna il mercoledì e venerdì di ciascuna settimana e tutta la quaresima fino al sabato di passione; essa è preceduta dal digiuno detto di Eraclio (la τυροϕάψος ἑβδομάς dei Greci) e seguita dal grande digiuno della Settimana santa, il quale va dal sabato di Passione alla Pasqua. Si osservano inoltre: il digiuno dei Niniviti (3 giorni) dal 28 del mese di Ţer (febbraio), l'Avvento (40 giorni), il digiuno degli Apostoli (15 giorni) che termina con la festa dei Ss. Pietro e Paolo, quello per l'Assunta (15 giorni) nella prima metà di agosto; il digiuno per la festa di Quesquām (40 giorni dal 26 di Maskaram; settembre-ottobre), e le vigilie di Natale e dell'Epifania. In queste due vigilie, come nella quaresima (compresi il digiuno di Eraclio e della Settimana santa) e nei digiuni dei Niniviti e di Quesquām, si digiuna fino alla fine del giorno; in altri digiuni fino a nona (circa le tre pomeridiane). Taluni digiuni, come l'Avvento e quello per l'Assunta, sembra che non siano generalmente osservati. Alcuni cibi sono volgarmente ritenuti impuri e da non mangiare, ma nulla di ciò è nel Fetḥa Nagast. Le grandi feste, specialmente del Signore e della Madonna sono assai numerose. Numerose altresì sono le feste degli angeli (quella di S. Michele ricorre il 12 di ciascun mese) e dei santi. Oltre i santi dei primi secoli, venerati da tutte le confessioni cristiane, e quelli dei Copti, sono venerati i santi abissini del periodo antico, cioè i "Nove santi" sopra ricordati; Libānos o Maṭā, Yārēd e il re Kālēb. Fra i santi del sec. XII e XIII Lālibalā, Na'aqueto La'ab, il leggendario Gabra Manfas Qeddus e l'alquanto più recente maggior santo di Abissinia, Takla Hāymānot. Del sec. XIV sono Anorēwos (Onorio), Ēwosṭātewos (Eustazio), fondatore dell'ordine monastico che porta il suo nome. Sono venerati i due Filippi, l'uno di Dabra Libānos, l'altro, Abbā Filippo, di Bizan, Samuele di Waldebbā e altri. Del secolo di Zar'a Yā‛qob sono Mabā' Ṣeyon e Takla Ṣeyon, e del tempo della lotta coi gesuiti e di quello che seguì alla loro cacciata sono la Walatta Pēṭros, piena di zelo per la fede alessandrina, morta nel 1672 e lo stesso re Giovanni I (1667-1682). Cronologicamente fra gli ultimi santi, se non l'ultimo, è Buruk, morto nel 1705.
La recitazione delle ore canoniche (vespero, ecc.) nelle chiese, già in uso nella prima metà del sec. XIV, fu meglio regolata dal re Zar'a Yā‛qob; la massima parte delle preghiere è costituita dai salmi. Il canto liturgico (che sarebbe stato introdotto da Yārēd nel sec. VII), accompagnato con sistri e col battere cadenzato dei piedi, è eseguito dai Debterā o Cantori, che dopo taluni versetti di salmi o cantici improvvisano delle poesie, talune brevissime, altre meno, dette "qenē" (specie di στιχηρά in uso anche in altre chiese orientali). Nelle grandi chiese l'officiatura divina ha luogo regolarmente nelle domeniche e feste e nei mercoledì e venerdì, preceduta da salmodie in canto fermo; ma in piccole chiese di villaggi, ecc. solo le domeniche e feste, e il canto è sostituito da alcuni inni; il clero non è numeroso se non nelle grandi chiese.
Dignitari della chiesa. - Capo della chiesa abissina è il metropolita "Pāpās" o "Abun" ordinato tale dal patriarca copto che risiede al Cairo; egli è scelto fra i numerosi monaci copti; un canone del concilio di Nicea, apocrifo, ma ritenuto genuino, vieta che il metropolita sia abissino. Un movimento nazionale recentissimo, che tendeva a far sì che un abissino potesse essere eletto "Pāpās", ha incontrato l'opposizione del patriarca copto: solo si è potuto ottenere l'istituzione di 5 vescovati, i cui titolari sarebbero scelti nel clero abissino. Oltre le rendite di cui gode, il metropolita percepisce i diritti sulle ordinazioni o altro. Talvolta (come sotto Zar'a Yā‛qob) sono ricordati due metropoliti contemporanei, dei quali uno era forse una specie di vicario; anche recentemente si contarono fin 4 metropoliti contemporanei. Il secondo grande dignitario per il clero regolare è l'"ečagē" (pronuncia ecieghié) capo dei monaci di Dabra Libānos e del clero, ma residente a Gondar dal sec. XVII. I monaci di Ēwosṭātewos non hanno un superiore generale, ma la precedenza spena al priore o capo di Dabra Bizan. Due grandi dignitarî addetti alla corte del re, sono il Qēs Aṭē, grande cappellano e confessore del re, e l'Aqābē sā'āt, che però ora non figura più.
I monaci che riferiscono la loro origine, al pari dei copti, a S. Pacomio e S. Antonio, e sono tenuti in maggior pregio del clero secolare, fanno tre professioni; nella prima ricevono il "qenāt" o cingolo, nella seconda il "qōb" o berretto (calotta) di colore bianco, e finalmente, nella terza, lo "askēma", δχῆμα (corrispondente al μέγα σχῆμα), specie di scapolare; vi è più di un rituale per le regole da osservare nella professione monastica.
Conventi per monache sarebbero stati fondati fin da Za-Mikā'ēl Arāgāwi, uno dei Nove Santi. I nuovi monasteri fondati nel secolo XIII-XIV fecero perdere importanza e celebrità agli antichi fondati dai Nove Santi o dai loro discepoli. Fra i monasteri di questo secondo periodo sono famosi Dabra Libānos nello Scioa, Dabra Bizan nell'Eritrea e molti altri. Monaci abissini hanno abitato e abitano, in considerevole numero, in conventi copti di Egitto, come il convento di Ḥārah Zuwēlah al Cairo, e i conventi abissini a Gerusalemme (Dēr-Sulṭān) e D. Gannat. Per due secoli (XV, XVI-XVIII) monaci abissini hanno abitato a Roma il convento di S. Stefano, detto perciò dei "Mori", che dal 1919 è tornato, in certo modo, alla sua antecedente destinazione, essendo sede di un seminario per giovani abissini, specialmente dell'Eritrea. Zar'a Ya‛qob menziona numerose monache in varî monasteri, dal cui abate dipendono e ricevono il qenāt e il qōb. Codeste comunità sono affatto diverse dai monasteri cattolici; le opere di carità sono a loro ignote.
Metropoliti, ečagēe monaci hanno avuto ed hanno importanza politica, e sono stati in conflitto con gli stessi re; così Giovanni I depose il metropolita Krestodulo, e Iyāsu I depose il metropolita Sinodā. Giacché in Abissinia è stata sempre (almeno fino a tempi recentissimi) in vigore l'ingerenza dei re nel governo della chiesa, come, da Costantino in poi, quella degl'imperatori a Roma e poi a Bisanzio e nella chiesa ortodossa. Alla loro volta i metropoliti talora sciolsero dal giuramento di fedeltà i sudditi. Sono poi notissimi gl'intrighi del metropolita Abbā Salāmā (1841-1867) con Ubiē, Gošu, rās ‛Alī e il re Teodoro.
Chiese. - Le chiese sono numerose, sebbene di solito piccole; talune quadrangolari, ma per lo più rotonde. Delle prime e del più antico tipo di esse è la chiesa di Ieccà (Yekkā) e specialmente quella di S. Maria di Sion in Aksum, già famosa fin dal sec. VI. Fra le rotonde sono celebri quella del "Madḥanēlam" o Salvatore del mondo in Adua e quella di Enda Sellāsē o Santuario della Trinità, pure in Adua; famose erano le chiese scavate nella roccia e dovute a Lālibalā. Nella chiesa si distinguono tre parti: 1. il qenēmāḥlēt, dove stanno i cantori o debterā; 2. il qedaest, dove si amministra la comunione al popolo; 3. il maqdas dove è l'altare col tābot, e dove si comunicano i celebranti e il re. Il tābot (tavoletta di pietra o legno duro corrispondente alla Pietra Santa), che si pone sull'altare, ha impressa da un lato la Croce o il Salvatore o la Madonna; nei piccoli oratorî che non hanno tābot non si celebrano i misteri.
Bibl.: I. Guidi, La Chiesa abissina, in Oriente moderno, II, nn. 2, 3, 1: id., in Dictionnarire d'hist. et géogr. ecclésiastiques, Parigi 1909; L. Duchesne, Les missions chrét. au sud de l'Emp. Romain (École franç. de Rome, XVI); A. Pollera, Lo stato etiopico e la sua chiesa, 1921; C. Conti-Rossini, Aethiopica, in Riv. studi orient., X, p. 481; id., Gad e il dio Luna in Etiopia, in Studi e materiali di storia delle religioni, I, Bologna 1925; id., Storia di Etiopia, in Africa Italiana, 1928; V. Bolotov, Neskol'ko stranic iz cerkovnoj istorii Etiopii (Alcune pagine di storia ecclesiastica dell'Etiopia), Pietroburgo 1888 (trad. ital. a cura del Ministero degli esteri, Roma 1890: non in commercio); E. Littmann, Abyssinia, in Encicl. Religion a. Ethics, I, pp. 55-59. Per le opere ge‛ez che più strettamente si riferiscono alla storia della Chiesa, vedi I. Guidi, Breve storia della letter. etiopica, Roma 1932.
V. tavv. LXIII-LXXII e tav. a colori.