Malattia infettiva contagiosa a decorso cronico con esito generalmente mortale, detta anche morbo di Hansen, dal nome del medico norvegese che per primo isolo l’agente patogeno nel Mycobacterium leprae. La trasmissione più comune è per contagio diretto interpersonale oppure mediato da insetti, soprattutto artropodi. A un periodo di incubazione (da 1-2 a 30 anni) fa seguito un periodo di invasione che spesso si accompagna a sintomi generali (febbre, cefalea, epistassi, dolori nevralgici). In un terzo tempo compaiono le manifestazioni caratteristiche di una delle tre forme: l. tuberosa, l. nervosa, l. mista. La l. tuberosa è caratterizzata dalla comparsa sulla cute e sui visceri di noduli di volume vario, isolati o confluenti e che si possono riassorbire, lasciando come reliquato chiazze bianche atrofiche o pigmentate o ulcerate. Nella l. nervosa si possono avere eruzioni di bolle (pemfigo leproso), macchie acromiche anestetiche, cancrene, zone di anestesia a striscia, a stivaletto, a manicotto. Nella l. mista può prevalere l’una o l’altra forma. La morte avviene, dopo un decorso di durata variabile, per cachessia o per complicazioni renali, polmonari, o a carico di altri organi.
La terapia della l. ha registrato sensibili progressi con l’impiego di alcuni chemioterapici, tra cui il diamino-difenil-sulfone, la clofazimina, il tiosemicarbazone, alcuni sulfamidici ad azione protratta e un antibiotico semisintetico (rifampicina). Questi agenti terapeutici, dotati di azione batteriostatica e non battericida, non sono suscettibili di indurre risultati completi e definitivi. È consigliabile, per determinate fasi della malattia, il ricovero in reparti ospedalieri specializzati; si considera superato e controproducente l’internamento definitivo in lebbrosari. Il numero dei lebbrosi nel mondo, valutato intorno al 1980 tra 15 e 20 milioni, si è drasticamente ridotto negli anni 1990 a 2,5 milioni, in seguito al vasto impegno dell’Organizzazione mondiale della sanità, che nel 1982 ha fornito le indicazioni per il trattamento polichemioterapico e ha largamente sostenuto i programmi nazionali di terapia e di diagnosi precoce.
Con il diffondersi, soprattutto dal 4° sec. in poi, della l., i malati si aggregarono in comunità, abitando in isolati agglomerati di capanne, spesso vicino a fonti sulfuree; con il tempo si giunse al tipo di lebbrosario a edificio unico, come quello di S. Lazzaro ai piedi di Monte Mario a Roma. L’ordine di S. Lazzaro, costituitosi con regola agostiniana nel 1047-48, moltiplicò questi ospizi per i lebbrosi, che vi erano accolti e segregati, perdendo personalità e diritti politici. Con l’attenuarsi nel 16° sec. di questo flagello, i lebbrosari diminuirono naturalmente di numero. Le missioni cattoliche amministrano però ancora, sparsi per tutto il mondo, numerosi lebbrosari, di cui alcuni sono vere piccole città ospedaliere.