libro
Contenitore di cultura
Da quando esiste la scrittura l’uomo ha sentito l’esigenza di fissare i suoi pensieri su supporti materiali che, nel corso della storia, hanno assunto le forme più diverse: cortecce d’albero, tavolette d’argilla o di legno cerate, rotoli di papiro, codici in pergamena e in carta – prima manoscritti e poi stampati – e infine supporti elettronici, come CD ROM e DVD. In queste varie forme, e conquistando via via – soprattutto dopo l’invenzione della stampa – un pubblico sempre più vasto e differenziato, il libro è stato e continua a essere un prezioso veicolo di conservazione e di trasmissione della cultura e del sapere, ma anche un irrinunciabile strumento di svago e di intrattenimento
Le origini del libro si perdono nella notte dei tempi come quelle della scrittura. Il libro che oggi ci è familiare – cioè un insieme di fogli della stessa misura, stampati e cuciti insieme in un volume rilegato – è solo il punto di arrivo di una lunga evoluzione. Prima dell’invenzione della stampa, che segna forse una sorta di spartiacque all’interno di tale evoluzione, il libro era manoscritto, e prima della carta, che entrò nell’uso in Occidente solo tra il 12° e il 13° secolo, i testi erano scritti o incisi sui materiali più vari: tavolette d’argilla o di legno cerato, lamine di piombo, strisce di cuoio o pelle, la parte interna della corteccia degli alberi (legno) – il liber, appunto, da cui il libro deriva il suo nome.
Mentre l’uso delle tavolette era limitato alla raccolta di brevi notizie e di documenti, il ‘libro’ per eccellenza dell’antichità classica fu il rotolo di papiro, entrato in uso presso gli Egizi oltre dieci secoli prima di Cristo e importato poi in Grecia e a Roma. Sul rotolo, che era costituito da più strisce di papiro incollate di seguito, si scriveva in colonne parallele e in genere solamente sul recto, vale a dire sulla faccia anteriore. Per leggere occorreva svolgere orizzontalmente il rotolo, e da qui derivò il termine volume, la cui radice è la parola latina volvere che significa appunto «svolgere», «srotolare».
Sin dall’antichità, oltre al papiro veniva usata come supporto per la scrittura anche la pergamena, ricavata da pelli ovine e bovine conciate. Il nome deriva dal fatto che nel 2° secolo a.C. i metodi di fabbricazione e preparazione di questo materiale ebbero particolare sviluppo a Pergamo, dopo che gli Egizi proibirono di esportare il papiro dal paese, gelosi del fatto che Eumene II re di Pergamo avesse creato un centro di studi che rivaleggiava con quello di Alessandria. A partire dalla tarda antichità la pergamena si sostituì a poco a poco al papiro.
Tra il 1° e il 2° secolo d.C. il rotolo fu progressivamente affiancato e sostituito dal codice, il vero e proprio antenato del libro, formato da fogli ripiegati di papiro o pergamena riuniti in fascicoli e cuciti nel mezzo. I fogli erano scritti su una o due colonne, sia sul recto che sul verso (la faccia posteriore del foglio), e quindi avevano il vantaggio di poter contenere una maggiore quantità di testo; a volte erano illustrati con miniature nella parte alta delle pagine. Solo alla fine del Medioevo, a partire dal 12° secolo, si affermò l’uso della carta, materiale che avrebbe finito col trionfare sulla pergamena diventando d’uso generale in età moderna.
La domanda di libri si sviluppò soprattutto ad Atene nel 5°-4° secolo a.C.: qui nacquero le prime raccolte private (sono note quelle del tragediografo Euripide o del filosofo Aristotele), mentre altre raccolte di libri furono create dai fondatori delle scuole mediche o filosofiche.
Un vero e proprio commercio librario però si sviluppò solo a Roma intorno al 1° secolo a.C.
A partire da quest’epoca compaiono editori-librai, titolari di tabernae librariae («botteghe librarie») fornite all’interno di scaffali e all’esterno di iscrizioni che ne propagandavano i volumina («volumi»). Gli ‘imprenditori’ di queste botteghe – dove si svolgevano tutte le operazioni relative alla produzione del libro, dall’allestimento editoriale alla vendita – erano per lo più liberti, vale a dire schiavi liberati. Per il pubblico culturalmente stratificato che animava il mercato c’erano tipi di libro e prezzi differenziati. Tutto questo non deve far credere che il numero dei lettori fosse altissimo. Si trattava, anche nei primi secoli dell’Impero, di una minoranza, e limitata alle aree urbane, seppure più larga e diversificata che in altre epoche dell’antichità.
Nella tarda antichità la diminuzione del pubblico colto e alfabetizzato e la conseguente contrazione della lettura determinarono la scomparsa degli antichi sistemi di produzione: botteghe, committenze o trascrizioni private promosse da aristocratici e intellettuali. La rinascita di una cultura scritta dopo l’epoca delle grandi invasioni avvenne presso sedi vescovili, abbazie e monasteri: lì si organizzarono gli scriptoria, cioè «laboratori di scrittura» dove si curava la produzione dei libri in ogni fase, dalla preparazione della pergamena alla scrittura, dalla miniatura alla rilegatura. Agli scriptoria monastici si deve la conservazione della letteratura e della scienza dell’epoca classica e cristiana. Particolare importanza alla trascrizione dei testi, soprattutto gli scritti dei padri della Chiesa, era data dall’ordine dei benedettini. Considerati la scarsità e il costo della pergamena e il desiderio di far scomparire testi ritenuti non ortodossi, spesso i fogli di un codice più antico erano utilizzati per riscriverci sopra dopo aver raschiato via il testo scritto in precedenza: nascono così i palinsesti (termine derivato dal greco che significa «cancellato di nuovo»).
A partire dalla fine del 12° secolo, e soprattutto dal 13° al 14° secolo, cominciò a mutare la funzione del libro, che da strumento di edificazione spirituale divenne testo destinato alla lettura e allo studio. La produzione libraria, non più monopolio delle chiese cattedrali o delle comunità monastiche, passò nelle mani dei ceti laici della società urbana. Si impose l’uso della carta, meno costosa della pergamena e che, soprattutto, si poteva produrre in quantità illimitata. Tutto ciò era la conseguenza della più larga diffusione della scrittura a partire dall’età comunale, quando l’alfabetizzazione si estese agli strati urbani medi e persino a frange del popolo minuto, grazie anche all’istituzione di scuole tenute sia da chierici sia da laici.
Un altro forte impulso alla produzione libraria venne dalla nascita delle università, in cui l’insegnamento era fondato sulla pagina scritta. Nelle città che erano sedi universitarie era necessario avere in tempi brevi copie numerose e corrette di testi destinati allo studio: nasceva così un nuovo artigianato librario e un nuovo sistema editoriale, quello della pecia («pezza»).
Gli originali, i testi exemplaria da cui tutti gli altri dovevano essere trascritti, erano controllati da una commissione di professori, i peciari, che ne accertava la fedeltà ai modelli e ne fissava la tariffa di trascrizione o di fitto che gli stazionari, artigiani-librai alle dipendenze dell’università, potevano percepire. Gli stazionari rappresentarono la prima alternativa, ma anche la continuazione rispetto agli scriptoria altomedievali.
Intorno al 1450 in Europa la produzione di libri manoscritti in latino e nei diversi volgari in uso aveva raggiunto livelli quantitativi assai alti. Particolarmente attive nella produzione, nel commercio e nell’uso di libri di ogni tipo erano le grandi città come Parigi, Firenze, Venezia. I libri erano richiesti da un pubblico sempre più vasto, composto non più soltanto di uomini, ma anche di donne; la produzione manoscritta, anche se affidata a numerosi professionisti e semiprofessionisti (maestri, studenti, notai, preti, donne laiche e suore, artigiani), era lenta e costosa, e quindi non poteva soddisfare la domanda crescente.
Fu allora che intervenne la straordinaria invenzione della stampa a caratteri mobili, una novità che estese enormemente la circolazione dei testi, accrebbe il numero dei lettori, contribuì alla diffusione dell’Umanesimo e della Riforma, allargò le frontiere geografiche dell’influenza culturale europea. Alla metà del Quattrocento la tecnica della stampa, tradizionalmente attribuita a Johann Gutenberg, si diffuse in pochi decenni praticamente in tutta Europa.
Gli incunaboli (così erano chiamati i libri stampati nella seconda metà del Quattrocento) si distinguevano dal libro manoscritto soprattutto per la possibilità di riprodurre il testo in un numero elevato di esemplari fra loro identici. Nel Quattrocento si stamparono soprattutto libri religiosi, che rappresentavano circa il 45% della produzione, seguiti da testi filosofici, giuridici e scientifici. Il latino era, naturalmente, la lingua in assoluto più adoperata: circa il 78% dei libri stampati era in latino; fra quelli in volgare il primato spettava all’italiano, seguito dal tedesco e dal francese.
Tra il Quattrocento e il Cinquecento i libri di autori moderni e contemporanei in latino e in volgare cominciarono a rappresentare una considerevole percentuale della produzione e del mercato. In questa fase ebbero un ruolo determinante alcuni editori-tipografi. Tra questi spicca la figura di Aldo Manuzio, che iniziò la sua attività tipografico-editoriale a Venezia nel 1494-95: pubblicò testi greci, latini e italiani, creò il concetto moderno di collana editoriale, lanciò sul mercato i precursori dei tascabili – i cosiddetti libretti da mano – e adottò la scrittura corsiva (con caratteri detti italici).
Fra il Cinquecento e il Seicento, grazie all’aumento generalizzato dell’alfabetismo nelle diverse aree dell’Europa e alla conseguente formazione di un più vasto pubblico di lettori, vi fu una più capillare diffusione della stampa, prevalentemente nelle lingue nazionali.
Nel corso del secolo la diversificazione del pubblico stimolò un’offerta di prodotti differenziati: dal libro illustrato di lusso, di grande formato, a libri di medio livello e formato, soprattutto romanzi, testi teatrali, letteratura in lingua, opere divulgative e religiose, offerti a prezzi accessibili; a questi si affiancava una numerosa produzione di opuscoli di attualità e di polemica politica e religiosa. A un livello ancora più basso si collocava la produzione di testi brevi di natura religiosa, fantastica o narrativa destinati soprattutto all’educazione e all’edificazione del popolo, caratterizzati da costi e prezzi assai bassi. Il fenomeno, che aveva avuto precedenti nel secondo Cinquecento e che continuò nel Settecento, si diffuse in tutta Europa; famosa in particolare fu la produzione francese, concentrata soprattutto a Troyes (la cosiddetta).
Tra il Seicento e il Settecento i maggiori mutamenti avvennero nell’ambito del repertorio, cioè l’elenco di titoli e autori, con l’affermarsi sempre più deciso di autori contemporanei e in particolare, a partire dalla Francia, dei nuovi filosofi dell’Illuminismo, la cui produzione ottenne i maggiori successi fra il 1740 e il 1770. La diffusione sempre più minuziosa di opuscoli e di giornali di natura informativa o politica e l’organizzazione degli intellettuali e del pubblico colto nelle accademie costituirono il supporto di una straordinaria produzione libraria.
Nei primi decenni del 19° secolo importanti innovazioni tecniche trasformarono radicalmente il processo della stampa a caratteri mobili e lo resero assai più rapido ed efficiente, tanto da provocare una seconda rivoluzione del libro, dopo la prima di Gutenberg. Nella seconda metà del secolo si giunse all’invenzione di macchine che sostituirono il processo di composizione a mano: prima la linotype (1886), e poi la monotype (1889). Nel giro di un secolo, a partire dalla Rivoluzione francese, la stampa si era completamente rinnovata, e la meccanizzazione dei processi di produzione determinò un aumento vertiginoso delle tirature.
Praticamente dovunque, in Europa e negli Stati Uniti, vi fu una corsa al ribasso progressivo dei prezzi, alla riduzione dei formati, a tirature sempre più alte.
L’Ottocento fu anche il secolo dei grandi successi editoriali, soprattutto nel campo della narrativa, con tirature di centinaia di migliaia di copie. Nascevano collezioni letterarie di vasto respiro, e soprattutto si diffondevano a macchia d’olio le collane economiche tascabili. A percorrere questa strada innovativa, che poneva le basi dell’editoria tascabile moderna, era stato un editore di Lipsia, Anton Philipp Reclam, che nel 1867 aveva inaugurato con il Faust di Goethe la Universal-Bibliothek: una collana che proponeva i maggiori autori di tutti i tempi a un prezzo bassissimo.
Negli ultimi anni i mutamenti più radicali nell’universo dei libri, ancora una volta, sono stati determinati dalle innovazioni tecnologiche, con lo sviluppo dell’informatica e delle telecomunicazioni. A partire dagli anni Ottanta, infatti, al tradizionale libro stampato su carta si è affiancato il libro su supporto elettronico (CD ROM, DVD) che può essere letto sul computer. Arricchiti di suoni e immagini, i libri diventano opere multimediali, associano cioè le potenzialità dei diversi mezzi di comunicazione. Grazie a una fitta rete di rinvii incrociati e collegamenti fra temi correlati, i testi diventano ipertesti, che consentono di costruire percorsi di lettura molteplici e su piani diversi.
La possibilità di immagazzinare grandi quantità di dati in uno spazio ridotto e le opportunità di una lettura stratificata e interattiva offrono indubbi vantaggi rispetto al tradizionale libro su carta, inducendo molti a prevederne la scomparsa.
Le prerogative del libro tradizionale, di natura pratica ma anche psicologica, sembrano tuttavia renderlo insostituibile: maneggevole e trasportabile ovunque, il libro stampato non consuma energia, stanca meno gli occhi e a differenza dei testi letti sullo schermo ha una ‘fisicità’ che ci consente di instaurare con il testo un rapporto più immediato e diretto. Da qui è nata l’idea di creare un libro che associ i vantaggi della multimedialità e della ipertestualità alle caratteristiche dei libri tradizionali su carta: si tratta del libro elettronico (editoria), scaricabile direttamente da Internet e leggibile su dispositivi di lettura sempre più maneggevoli e di prezzo accessibile. Per ora, comunque, questo ibrido è ancora in fase di sperimentazione, e all’inizio del terzo millennio sembra che il tradizionale libro cartaceo sia destinato a conservare una sua precisa e insostituibile funzione, coesistendo pacificamente con i nuovi ‘fratelli’ multimediali.
Nel Novecento ha avuto una grande diffusione il libro tascabile in edizione economica. Nel 1935 Allen Lane in Gran Bretagna inaugurò il paperback, cioè il tascabile, con la fortunata serie dei Penguin books. Diffusi capillarmente anche attraverso canali diversi dalle librerie e adottati in tutto il mondo, i tascabili furono introdotti in Italia nel secondo dopoguerra con la BUR (Biblioteca universale Rizzoli): nel giro di pochi anni, quei libretti dalla copertina grigia divennero per l’intera generazione del dopoguerra la principale porta di accesso al patrimonio letterario universale. Un altro fenomeno caratteristico della produzione libraria del Novecento è la nascita dell’industria del best seller («il più venduto», termine coniato per la prima volta nel 1933, quando la rivista Publisher’s weekly iniziò la sua classifica dei libri più venduti (current best sellers): il primo libro a meritare questa qualifica fu Via col vento di Margaret Mitchell, pubblicato nel 1936. Soprattutto a partire dagli anni Settanta, il filone dei best seller finirà per avere la parte del leone nel mercato librario, dominato da libri-evento da produrre e consumare sempre più in fretta, in una sorta di corsa sfrenata e spasmodica, con il risultato di penalizzare un tipo di letteratura e saggistica di maggior qualità e quindi più impegnativa. Si afferma così un mercato orientato all’attualità e alle mode, e di conseguenza anche più fluttuante e instabile nei suoi imprevedibili umori.